“Huginn e Muninn
Volavano ogni giorno
Alti intorno alla
Terra.
Io ho timore per Huginn
Che non ritorni;
Ma ho ancora più timore
Per Muninn”.
Dal poema eddico Grimnismal; canto XX.
Due eravamo noi, esploratori dell’arcano e due erano i corvi ad attenderci, appollaiati sulla cresta della rupe nella quale, rotondo, si apriva un grande foro ricavato in illo tempore, da mani umane, nella morbida arenaria da cui emergevano, qua e là, effetto delle carezze del tempo che involontariamente erodevano l’enorme plurimillenario sedimento, granchi e conchiglie depositatisi in epoca diluviana. Il tempo dirà, forse, chi di noi due impersonava Huginn e chi Muninn, i due corvi che accompagnavano sempre il dio monocolo, posati sulla spalla destra l’uno, sulla sinistra l’altro, rispettivamente: pensiero e memoria.
Questa breve prefazione vorrebbe introdurci agli studi che ci hanno indotto a formulare l’ipotesi che tra i Sicani, primi abitatori della Sicilia, isola che da loro, secondo le fonti dello storico greco Tucidide prese il nome di Sicania e la cultura scandinava vi fossero state delle correlazioni culturali. Non ritorneremo in questa sede sugli argomenti già trattati e pubblicati sul pregevole sito di miti3000.eu circa la possibilità della trasmissione di una conoscenza metafisica affidata ad un alfabeto che con quello runico avrebbe avuto delle affinità e gestito da una particolare casta sacerdotale, così come eviteremo di ripeterci riproponendo l’analisi di un simbolismo ricorrente sulla ceramica adranita del IV e III millennio a. C. e su pietra basaltica del VI sec. a.C., simbolismo che contribuisce, con la sua presenza, a consolidare la tesi di cui sopra. Rimandiamo, pertanto, agli articoli menzionati coloro che fossero appassionati di queste tematiche. Qui vorremmo soltanto indurre chi ci segue nei nostri studi, a riflettere sui luoghi, molti in Sicilia, che ospitano le su citate rocce forate, per tentare di intuire, essendo assenti le fonti antiche che ne spieghino la presenza, la loro funzione in seno alla visione del mondo che rendeva i nostri Avi attivi protagonisti di opere imponenti e detentori di conoscenze tramandate per vie criptiche. Opere queste, destinate anche ai posteri, avendo il mondo del loro tempo esaurito le energie di riproduzione deputate a generare neofiti degni di raccogliere le conoscenze trasmesse oralmente.
Prima, però, diamo luogo ad una breve riflessione sul significato etimologico dei nomi attribuiti ai due corvi di Odino. Metaforicamente essi alluderebbero alla sfera del mentale e dello spirituale, componenti che albergano nell’essere umano e che attivati secondo le circostanze permettono a quest’ultimo di interagire con la sfera ora del sacro, ora del profano, del mondo e del sovramondo. Il nesso consonantico MN che forma il nome Muninn (ma anche quello di Mnemosine, la dea nata dalla mente di Zeus e quello di Ramnes, secondo nome di Romolo, come afferma T. Livio. Non meno stupore procura l’affinità che esiste tra il nome del corvo con il sanscrito Muni, l’asceta tirato in causa nel testo più antico dei veda), significa mente; il radicale HG invece, che forma il nome del secondo corvo, Huginn, si riferisce alla sfera del sacro; infatti con il termine hug (Aug in latino, prefisso sacro dell’attributo Augusto e Augure.
Circa le concordanze linguistiche e culturali intercorrenti tra il mondo germanico e quello sicano, vedasi il nostro saggio: “Dalla S(i)cania alla Sicania”, gratuitamente fruibile nel sito di mitologia miti3000.eu) viene indicato, in lingua germanica, un luogo carico di energie extrafisiche positive. Il suono onomatopeico del lessema nordico hörgr, evoca invece, un luogo in cui si manifestano energie extrafisiche violente.
Ed infatti, con il su citato lessema, si indica un altare sacrificale sul quale, come viene affermato nel canto di Hyndla che riportiamo sotto, viene praticato un rito cruento, un rito durante il quale viene fatto scorrere il sangue della vittima: “Egli ha eretto in mio onore un hörgr di pietre ammonticchiate. Egli l’ha di fresco arrossato di sangue di giovenca”. Non intendiamo farci sfuggire l’occasione per far notare in questo breve articolo, ai nostri lettori, le analogie architettoniche che intercorrono tra la costruzione dell’hörgr germanico, l’altare di pietre a secco poste l’una sull’altra a formare un cumulo e una formazione esistente in una suggestiva contrada di Adrano, presso un luogo da cui trasuda la presenza di energie positive a motivo della Flora e della fauna presente, di cascatelle di acqua che scompaiono fra i canneti, ma di cui si ode l’armonico scroscio, di pareti laviche da cui, quali vene aperte, appaiono i rivoli che alimentano fresche sorgenti che estinguono l’arsura del colono affaticato e del paesaggio che si apre sulla valle del Simeto, cumulo che fin dal primo momento indicammo come una possibile ara di epoca neolitica.
Se da un lato tutte le civiltà conosciute praticavano riti cruenti, dall’altro venivano eseguiti pure riti augurali. Questi ultimi, nei luoghi a vocazione agricola, si svolgevano presso le rocce forate di cui ci stiamo occupando, antichi santuari della preistoria e che, smarrito il ricordo della loro funzione, il volgo chiama semplicemente “pietre perciate”. Generalmente esse si trovano fuori dai centri abitati di epoca preistorica, come si deduce dai rinvenimenti archeologici. Motivo per cui il rito che vi si praticava e che mette, a nostro avviso, in relazione ancora una volta la S(i)cania con la Sicania, oltre al rito del solstizio d’inverno, molto importante e tutt’oggi praticato da alcune frange della popolazione del nord Europa, riguardava la fecondazione simbolica del fertile suolo ad opera del raggio vitalizzante del sole. Infatti, i pacifici abitanti della Svezia, al contrario dei turbolenti Norvegesi che prediligevano riservare il loro culto al guerriero Thor, rivolgevano le loro attenzioni, prima che avvenisse la loro conversione al cristianesimo, appena nel 1008, conversione voluta per motivi politici da re Olaf, alla dea della fecondazione/fertilità Freyr. Il sole siciliano, nel giorno dell’equinozio di primavera, attraversava allora come oggi, con i suoi caldi raggi, il foro praticato nella roccia, per colpire il suolo, fecondarlo e farvi crescere copiose le messi. Il rito in questione, dunque, rappresentava una sorta di matrimonio sacro che univa i due piani, piani impersonati da Muninn e Huginn, metafora dualista degli aspetti metafisici del dio scandinavo: il mondo e il sovramondo; l’umano e il divino; il sacro e il profano. Un dualismo inteso non come antitesi o contrapposizione, ma come complementarietà necessaria per trascendere l’umano e giungere, attraverso l’atto creativo, alla formazione della trinità intesa come “sacra” unità. Soltanto ed esclusivamente attraverso il conseguimento della triade divina viene perseguita l’immortalità. Il terzo elemento che si forma dall’unione o fusione dei due elementi complementari rappresenta infatti il garante dell’immortalita’ oltre che dell’ordine costituito. L’erede rappresenta l’elemento che garantisce la prosecuzione, la perdurabilità dei due piani dell’essere, del dualismo, dell’alternanza necessaria (oscurità-luce; nascita-morte; uomo-donna). Ma il terzo elemento (giorno, vita, figlio) non può pervenire all’esistenza senza l’attuazione del rito, il rito dell’unione, della fecondazione. In Mesopotamia l’equilibrio cosmico veniva garantito attraverso la sacra unione simbolica del re con la sacerdotessa, – originariamente l’unione avveniva nella camera da letto allestita appositamente nella ziggurat, tra Dio e la sacerdotessa-. Fa poi riflettere la constatazione che gli Avi nostri volessero ridurre tutto ciò che ruota attorno all’uomo, in triade. La triade sembra essere il numero attorno al quale viene strutturata la genetica umana: i geni del DNA si poggiano su tre basi; le melanine sono di tre gruppi; le anomalie cromosomiche che portano ad alcune note malformazioni come quella dovuta alla sindrome di Down, sono dovute alle trisomie. Anche le aree del cervello, deputate a funzioni diverse, secondo la classificazione di Maclean sarebbero tre. Sul terreno dello spirito sono i Veda ad individuare una triplice designazione: “Om” “Tat”, “Sat”.
Ad majora.