Guerra di Troia: dalla guerra fredda alla guerra dichiarata.
La datazione ritenuta più attendibile per indicare la caduta di Troia, dopo un decennio di assedio da parte dei Greci, è quella del 1184 a.C. Ritenendo che il lettore abbia ormai metabolizzato la tesi secondo la quale il mondo, in tempi pre storici, era caratterizzato da una civiltà globale, per comprendere gli intrecci politici di un periodo cronologicamente così distante dal nostro, bisogna che il lettore si spogli per prima cosa dai condizionamenti esercitati dalle narrazioni poetiche dei fatti di quel periodo giunte fino a noi, in quanto difficilmente il lettore riuscirebbe a leggere nel poema la verità che si cela fra le righe del racconto, specialmente se questi racconti sono stati messi per iscritto dai vincitori quattro secoli dopo gli eventi accaduti. Il ricercatore deve, invece, assumere l’atteggiamento imparziale dell’investigatore privo di pregiudizi, tenere conto che gli schemi mentali appartenuti agli individui fin dall’apparire dell’Homo Sapiens non sono mutati e deve innanzitutto ricercare fonti alternative e possibilmente contemporanee ai fatti accaduti che non mancano quando gli accadimenti assumono posizioni di interesse globale. Infatti, grazie al confronto delle informazioni provenienti dalle parti in conflitto, contenute nei freddi, poco eleganti dal punto di vista poetico, ma realistici resoconti di Ditti Cretese e Darete Frigio, si può apprendere una versione alternativa a quella pedagogica elaborata dalla scuola di Omero. Dalla lettura dei testi provenienti dai sopracitati autori, testimoni oculari del conflitto – Darete viene citato dallo stesso Omero nell’Iliade- emerge che la causa della caduta di Troia verrebbe addossata al tradimento di Enea e a suo cugino Antenore, i quali aprirono nottetempo le porte della città al nemico. Su questo episodio non ci soffermeremo più di tanto avendolo già indagato nell’articolo “Enea alle pendici dell’Etna”, pubblicato anni fa su miti3000.eu. A noi qui interessa piuttosto indagare le correlazioni vigenti, fin da tempi immemorabili, tra l’irrequieta area geografica del Mar Nero e il Mediterraneo, che vide la Sicilia quale tavolo di trattative diplomatiche e manovre di controspionaggio.
Per comprendere il ruolo di Deus ex machina esercitato dai principi siciliani nella geopolitica durante il periodo che intercorre tra il II e il I millennio a. C., bisogna volare alle altezze dell’indomita aquila e, sorvolando la vasta area mesopotamica, anatolica, greca e siciliana, dall’alto scrutare i movimenti invisibili dal basso, che dietro le quinte svolgevano i governanti delle regioni prima nominate. Bisogna non trascurare il fatto che in tempi antichi, come ancora in alcuni casi nei tempi moderni, ogni guerra veniva combattuta sotto il grido di dio lo vuole, come a indicare che “ogni evento svolto quaggiù veniva prima deciso lassù”. Di conseguenza, mettendo sotto la lente d’ingrandimento la teogonia e la mitologia di quel tempo, potremo scoprire, grazie alla tramandata attività degli dèi che interferivano nelle umane attività belliche, le celate opere umane, che di quegli dèi – chiunque essi fossero– erano il prolungamento in terra, mostrando altresì, che poco avendo di divino, quelle divinità nutrivano più interessi in terra che in cielo.
Ora si dà il caso che nel periodo di tempo qui esaminato, e forse ancora oggi, gli dèi che intendevano risolvere ogni problema istigando gli uomini a combattersi erano in realtà due e ognuno di loro poteva contare sull’appoggio, oltre quello ovvio dei propri congiunti, della fazione degli uomini che avevano scelto di schierarsi per l’uno o per l’altro dio. I nomi di queste divinità dicotomiche erano identificabili con quelli di: Enki e Enlil in area mesopotamica; Poseidone e Zeus in area greca; in Sicilia, genericamente appellati Palici o Delli, potrebbero essere identificati con Enki ed Enlil quanto con i figli del primo, Thot e Marduk, venuti tutti in contesa tra loro. Le liti riguardanti i quattro, avvenute in tempi diversi, potrebbero essere state fuse in un unico mito nella tradizione siciliana o nella ricostruzione greca riproposta da Eschilo nelle Etnee. L’ipotesi di un conflitto tra i due fratelli divini su scala globale, con epicentro strategico in Sicilia, matura grazie alla lettura, fatta da una diversa angolazione, dei testi classici greci e dalla esamina della traduzione delle tavolette sumeriche fornite dagli accademici. Attraverso l’incrocio dei fatti descritti dagli autori dei suddetti testi, grazie al significato dei toponimi, dei teonimi e la decriptazione delle metafore contenute nei miti, siamo pervenuti a identificare l’Abzu, la sede occidentale di Enki, con la Sicilia – per l’approfondimento di questo tema rinviamo i lettori agli articoli precedenti-. Il fatto che nella teogonia siciliana pre greca non ci sia una divinità che con la sua presenza controbilanci il peso esercitato dal dio Adrano, potrebbe essere attribuito al fatto che l’isola potesse essere stata eletta a terreno neutrale (vedi il nostro articolo: “Sicania: le divine ambasciate. La Svizzera del Paleolitico”, www.adranoantica.it), e tuttavia posta sotto la giurisdizione del dio affettuosamente chiamato dai Sicani nonno, avo, cioè Ano aggettivato odhr furioso. L’isola sarebbe stata, infatti, il luogo in cui avevano sede le dodici ambasciate divine, oltre che essere il laboratorio sperimentale abitato da quella equipe di genetisti di cui si fa esplicito riferimento nelle tavole sumeriche, diretto da Enki e successivamente da suo figlio Ningishazidda, corrispondente al dio egizio Thoth e al greco Ermete.
Eridu.
Nelle tavolette sumeriche si fa sovente riferimento ad una città edificata da Enki nell’Abzu, il cui nome era Eridu. Se fosse giusta l’interpretazione etimologica da noi azzardata per questo appellativo, cioè luogo in cui si è giurato o promesso (di mantenere la concordia) facendo derivare il toponimo da Ehre onore, reputazione, considerazione e Eid giuramento, promessa, ecco che sarebbe possibile immaginare che l’isola venisse scelta davvero come sede delle ambasciate divine e luogo esente da conflitti di ogni genere. Non solo, ma si comprenderebbe il motivo per cui tutti gli eroi e regnanti del mondo allora conosciuto, da Enea a Ulisse, da Ercole a Minosse, da Giasone a Medea venissero in Sicilia a conferire con la personalità più autorevole del tempo, quel Al Cened o Alcinoo, di cui diremo oltre, e che nulla si compisse nel mondo mediterraneo senza la sua approvazione o quanto meno senza prima relazionarsi con lui. Il fatto, poi, che nessuna tradizione storica e mitologica accenni a ostilità avvenute nel suolo siciliano prima della venuta dei Greci nell’VIII sec. a.C., durante cioè il lungo periodo sicano e che gli abitanti dell’isola venissero universalmente riconosciuti come un popolo pacifico, corrobora la tesi secondo la quale il divino giuramento, “Ehre Eid” , dovette reggere per qualche millennio e chiunque fosse stato tentato dall’infrangerlo, fosse stato pure il figlio di un dio come nel caso di Minosse, avrebbe espiato il sacrilegio con la morte. Naturalmente quel giuramento non impedìva che nelle ambasciate siciliane si intraprendessero azioni di controspionaggio , anzi, proprio il dio Adrano, se è giusta la identificazione di questa divinità col mesopotamico Enki, aveva in qualche modo inaugurato l’arte della contrapposizione occulta quando, aggirando il giuramento relativo alla catastrofe del diluvio, col fine di salvare il genere umano che il fratello Enlil desiderava annientare (Enki fu costretto a giurare che non avrebbe rivelato agli uomini l’imminente arrivò del diluvio), facendo finta di parlare con una parete di canne, rivolgendosi in realtà a Ziusudra, il Noè mesopotamico, rivelava i suoi piani per salvare il genere umano.
Eolo e i venti di guerra.
Siamo dell’avviso che Enlil, detto Eolo in Sicilia, imparata l’arte messa a punto dal dal fratello Adrano/Enki, cioè di poter aggirare i giuramenti senza essere tacciato di spergiuro, arte che i Siciliani ereditarono dal loro Avo divino, tanto da fare affermare a Cicerone nelle verrine che questo popolo era maestro nell’arte di lasciare intendere senza dire, lo emulasse. Nell’ambito della guerra fredda che serpeggiava tra i fratelli divini, uno degli obiettivi che si perseguiva nell’ambasciata siciliana di Enlil, qui chiamato Eolo, era probabilmente quello di portare aiuto al re Eeta, suo alleato nella Colchide, nel Mar Nero, identificata con l’attuale Georgia, senza per questo essere accusato di ingerenza nella politica di uno stato straniero. L’aiuto consisteva nell’inviare un misterioso oggetto nascosto nell’isola che da lui prendeva il nome, Eolia, dove era ubicata verosimilmente la sua ambasciata. Il nome in codice di questo temibile oggetto era quello eufemistico di “vento sacro” ovvero Ve Hel, il famoso vello di cui tratta Apollonio Rodio nel suo Le Argonautiche. Il vento sacro o vello d’oro, doveva certamente rappresentare un’arma non convenzionale, qualcosa di simile a quella posseduta dai Giudei chiamata arca di cui nessun contemporaneo era ma riuscitoi a comprenderne né l’efficacia o la composizione, né gli effetti provocati, salvo il constatare che se qualcuno si a costava all’arca incautamente e senza prendere le dovute precauzioni rimaneva folgorato. Così il vello avrebbe certamente potuto essere determinante per il risultato di un eventuale conflitto militare che si sarebbe potuto verificare nella instabile area mediorientale con epicentro nel Mar Nero.
Integrando quanto qui supposto circa le presunte armi non convenzionali di quel tempo con quanto viene affermato nelle tavolette sumeriche, in cui si apprende che in Medio Oriente, nella città di Aratta, il re era in possesso dei famelici “me”, ritenuti dall’anonimo compilatore delle tavolette potenti mezzi di potere, non ci si allontanerebbe troppo dal verosimile se ipotizzassimo che il vello, parola in codice utilizzata nel linguaggio sicano in ambito militare , dovesse servire al re della Colchide Eeta per contrastare le armi, forse i me, possedute da un ipotetico suo antagonista.
Ma qualcosa era andato storto, forse venne supposto che Eeta non aveva intenzione di fare buon uso di quella pericolosa arma o forse mutati i rapporti di forza mutavano le alleanze, fatto sta che si optava per il recupero dell’arma. A tal fine venivano selezionati i migliori agenti che operavano nell’ambito del Mediterraneo, probabilmente ingaggiati da Enki/Adrano protettore del genere umano. Come si evince dal testo di Apollonio Rodio Le Argonautiche, i componenti dell’equipaggio erano imparentati sia con Eolo/Enlil che con Enki, essendo figli, nipoti e pronipoti dei due fratelli. Lo scopo della missione era quello di indurre, con le buone o con le cattive, Eeta a riconsegnare la micidiale arma. Enlil/Eolo dimostrava in questo episodio, così come lo aveva dimostrato precedentemente in quello relativo al diluvio, di essere insensibile alle umane sofferenze, e che, anzi, auspicava la periodica decimazione degli esseri umani, fornendo agli inconsapevoli gregari di volta in volta le armi di distruzione di massa. Questa strategia Enlil/Eolo l’avrebbe adottata ancora dopo, utilizzando l’astuto Ulisse. Infatti, all’eroe greco, stando al contenuto dell’Odissea e all’inedita interpretazione qui proposta, famoso per le sue doti di astuta mistificazione, Eolo consegnerà, due generazioni dopo la consegna del Vello a Eeta, l’arma chiamata Furore in codice (odhr in lingua sicana), ovvero il famoso otre che conteneva i malefici venti della distruzione, i quali, come è scritto nelle tavolette sumeriche, verranno utilizzate con efficacia sulle città sumeriche di Ur, Uruk, Nippur e tutte le altre tranne Babilonia, risparmiata dal vento contrario che inaspettatamente, soffiando in altra direzione, allontanò le pestifere radiazioni (?). Città distrutte dalle medesime cause saranno ritrovate dagli archeologi in altre aree geografiche: Moenjo Daro in Pakistan; Sodoma e Gomorra in Palestina; in India si trovano citazioni contenute nei testi sacri: i Veda. Ulisse, però, darà picche a Eolo, infatti quando il greco farà ritorno nell’isola del dio, per comunicargli il fallimento dell’operazione Furore, verrà cacciato dal palazzo a male parole oltre che a essere maledetto. Noi sospettiamo che dietro il fallimento dell’operazione Furore, ci sia lo zampino di Adrano/Enki, il garante della pace universale e protettore del genere umano. Infatti, il re dei Feaci Alcinoo, la cui reggia si trovava a Trapani, e che senza ombra di dubbio era un affiliato al clan di Enki, sarà colui che, dopo aver ospitato nella propria reggia il doppiogiochista greco, principe d’inganni e maestro di strategie, lo farà accompagnare incolume a Itaca a bordo delle imbarcazioni siciliane che si muovevano, afferma l’aedo cieco nel suo poema, col solo pensiero, senza l’ausilio di remi.
La Sicilia snodo di intrecci diplomatici e/o di spionaggio.
Sorvolando in questa sede sui numerosi riferimenti alla Sicilia contenuti nel poema di Apollonio Rodio Le Argonautiche, e sulle citazioni di toponimi che si trovano sia in Grecia che in Sicilia, che sommati ad altri indizi ci inducono a sospettare – e la riuscita operazione di sincretismo in chiave grecocentrica effettuata dai Greci in Sicilia a partire dall’VIII sec. a.C. ce ne dà forte motivazione- che il porto da cui partirono gli Argonauti sia stato quello di Ortigia a Siracusa, piuttosto che quello greco della oscura Jolco, rimaniamo comunque dell’avviso che Eolo/Enlil o Enki/Adrano, o entrambi essendo pervenuti ad un accordo di collaborazione, convocati i comuni parenti (la parentela tra Eolo e gli Argonauti è attestata nel lib. I, cap. 1094. Fanno parte dell’equipaggio anche Neleo e Peleo che Poseidone ebbe da donna mortale) li inviarono a recuperare la pericolosa arma che si trovava nel Mar Nero, nelle insicure mani del re Eeta, nelle quali l’avevano consegnata anni prima Frisso ed Elle, nipoti di Eolo, per disposizione dello stesso dio dei venti. Percorrendo la liquida strada che ormai veniva considerata una sorta di via della seta che metteva in comunicazione il Mar Nero con la Sicilia, gli Argonauti raggiungevano la Colchide riuscendo nell’impresa di recupero. Rientrati in possesso del non meglio identificato oggetto chiamato cripticamente ve-hel, vello, stando alla versione greca che voleva Greci i mandanti della missione, avviene un fatto inspiegabile: i cinquanta agenti, invece di recarsi in Grecia e chiudere a Jolco la missione ufficialmente voluta dal re di Jolco, e che avrebbe consegnato il comando della città al capo della missione Giasone, gli Argonauti continuano il periglioso viaggio alla volta della Sicania, lasciandosi alle spalle la Grecia. In Sicilia si recano a Trapani. Qui incontrano Al Cened o Alcinoo, re dei Feaci. Le contraddizioni insite nel racconto, a cui Apollonio non fornisce chiarimenti sufficienti, ci spingono a ipotizzare che l’arma dovesse rimanere nella neutrale Sicilia e per tal motivo doveva essere consegnata al saggio Alcinoo. La saggezza di questo re sicano, viene altresì celebrata sia da Omero che da Apollonio. Che il vello sia stato consegnato in Sicilia durante l’incontro col pio re sicano, emerge agevolmente attraverso la lettura del testo di Apollonio. Infatti, dopo la partenza dall’isola, il lettore si accorgerà che, continuando il racconto, l’autore si soffermera’ soltanto sulle difficoltà nautiche che gli eroi incontreranno sulla via del ritorno, senza fare più cenno al vello, come se un oggetto così prezioso avesse perso ogni interesse per coloro che lo avevano recuperato a rischio della propria vita. Ciò è plausibile soltanto se, ricordiamolo, avendo portato a termine la missione di recupero, il vello venisse consegnato al richiedente, in Sicilia.
Per spiegare la consegna della terribile arma ad Alcinoo, bisogna un attimo soffermarsi sul significato del l’appellativo apposto al mite re siciliano. L’appellativo del re dei feaci lascia infatti presagire il ruolo che questo illuminato principe avrebbe dovuto svolgere nella pacifica isola sicana, confermato tra le righe dal racconto Omerico, dove lo si dice a capo della confederazione di dodici – corrispondente al numero degli dèi del Pantheon sia greco che sumero – principi che governavano le dodici province sicane. Il re svolgeva il ruolo di un giudice di pace antelitteram; infatti il suo appellativo risulta formato dall’unione del lessema alla che in antico alto germanico significa tutti, e cened, vocabolo con cui nella lingua antico irlandese si indicava un gruppo umano legato da vincoli di sangue, come nel caso degli dèi sicani. Dobbiamo dedurre che il ruolo di garante della pace sia stato ancora una volta efficacemente svolto da Alcinoo se il derubato re della Colchide, inseguiti gli agenti sotto copertura fino alle coste siciliane per recuperare il vello, decideva di rimanere a largo della costa, desistendo dal dichiarare guerra, impaurito dalle “innocue” minacce verbali proferite contro di lui da Alcinoo. Ma forse Eeta desisteva dall’aggressione all’isola memore della fine che suo cognato Minosse aveva fatto in Sicilia una generazione prima, caso irrisolto che molto ricorda quello attuale del giornalista saudita Khashoggi. Dopo la breve attesa al largo delle coste siciliane, sperando in una pacifica restituzione del Vello, decisione che spettava ora ad Alcinoo, il re della Colchide rinunciava perfino a riavere il prezioso bottino, nonostante l’imponente flotta al proprio seguito. Anzi, da quello che emerge dal racconto di Apollonio, la flotta di Eeta, deliberava di rimanere a vivere in una delle isolette dell’arcipelago siciliano. La stessa cosa era avvenuta qualche anno prima anche con l’esercito dell’arrogante Minosse. L’esercito, privato del suo comandante, rimasto misteriosamente senza vita durante un colloquio con il principe sicano Cocalo, era rimasto a vivere in Sicilia rinunciando a rientrare nella patria cretese.
Eeta dovette dunque tornarsene da solo nella sua dorata reggia del Mar Nero e a mani vuote. Ma non per questo la guerra fredda tra Est ed Ovest era cessata, anzi era destinata ad inasprirsi a tal punto che, presentatosi il casus belli una generazione dopo, i Greci dichiaravano guerra, chiamiamola così, alla coalizione dei paesi dell’est guidata dai Troiani. Il “caso” voleva, che a partecipare alla guerra nel Mar Nero, con un ruolo da protagonisti, vi fossero i figli di quegli Argonauti che una generazione prima, sottraendo il vello, avevano forse creato i podromi della guerra ora combattuta dai figli. Era avvenuto un passaggio di consegne? L’epicentro della guerra si ebbe nella città di Troia per il motivo che lo spionaggio troiano aveva intessuto relazioni con la città di Trapani sulla quale, ricorderà il lettore, governava Alcinoo. Considerando che, sia Alcinoo che Cocalo, avevano indotto potenti armate straniere a desistere dalla aggressione all’isola di Sicilia utilizzando soltanto minacce verbali, si deduce che le capacità di deterrenza messe in atto nell’isola nei confronti di ogni aggressore, fossero allora notevoli, magari paragonabili alla deterrenza che oggi esercitano gli armamenti missilistici celati nel sottosuolo di Sigonella. A tal proposito, il riferimento fatto senza veli dal poeta cieco, alle navi feace, che si muovevano col pensiero e da Apollonio Rodio ai venti del terrore e/o del furore possedute dai sicani, aprirebbe nuovi scenari sulle reali tecnologie presenti nel mondo antico forse troppo sotto valutato.
Erice: la Cupola.
A Trapani, nel monte Erice, come sopra affermato, una generazione prima dello scoppio della prima guerra mondiale dell’Età del Bronzo, conosciuta come guerra di Troia, avevano posto il loro quartier generale alcuni Troiani transfughi, appartenenti alla famiglia di Enea, con al vertice Capi, fratello di Anchise, espulso da Troia dal cugino e re Laomedonte. Si presenta al nostro giudizio, l’inevitabilita’ dell’insorgenza di una cospirazione da parte dei transfughi, che, maturata a Erice, aveva come obiettivo l’abbattimento del regime troiano. A Troia agiva una fazione ancorata ai transfughi da motivi vari, capeggiata da Enea. La energica opposizione politica praticata dagli anchisiadi a Troia è molto documentata nell’Iliade.
Espugnata la città, Enea si recherà dalla ‘madre’, come viene definita nell’Eneide- intesa modernamente come loggia — Afrodite a Erice.
Accogliendo le indagini del giudice Carlo Palermo a proposito di mafia, politica e Massoneria, che fanno risalire la filiazione delle cosche a tempi antichissimi, riteniamo probabile che proprio in questa occasione si desse vita a quella Massoneria ante litteram, con ubicazione a Erice, che il Giudice nei suoi saggi afferma rappresentare ancora oggi il crocevia di intrighi internazionali, e che fa risalire la sua fondazione a tempi antichissimi, in cui i nomi con i quali veniva designata mutavano a secondo le nuove esigenze. Alle affermazioni del giudice Carlo Palermo, fanno eco quelle dell’avvocato Paolo Rumor, che nel suo sconvolgente saggio l’Altra Europa, avanza la tesi, adducendo l’esistenza di testi documentali e ricordi di confidenze a lui fatte dal padre Giacomo Rumor, componente nel dopoguerra del gruppo di lavoro per la costruzione dell’Europa post bellica, di certi programmi e operazioni di intelligence di gruppi antidiluviani sopravvissuti fino ai giorni nostri, che mischiando politica ed esoterismo, si ponevano l’obiettivo di ordinare e governare il mondo. Tali gruppi, afferma l’avvocato Rumor nel suo saggio, si formarono in un tempo senza tempo nell’area mesopotamica, per poi diramarsi in ogni dove nell’intero pianeta.
Enea e la Massoneria di Erice.
Dopo dieci anni di conflitti tra l’Est e l’Ovest, tra l’Occidente e il Medioriente, presi da stanchezza o da interessi personali, grazie a una operazione di controspionaggio tra i Greci e uno sparuto gruppo di Troiani, a capo dei quali c’erano Enea e il cugino Antenore, la guerra si concludeva con la vittoria dei Greci e l’azzeramento delle risorse umane e militari dei Troiani e dei loro alleati. La caduta di Troia, se ci è lecito il parallelismo, rappresentava per gli alleati dei Troiani, quello che per l’unione Sovietica ha rappresentato la caduta del muro di Berlino. Da lì a poco, infatti, il caos avrebbe regnato sull’intero Medioriente, provocando la dissoluzione dei regni più potenti di tutta l’area mediorientale, stremati e indeboliti dalla guerra troiana avendo ognuno inviato eserciti e ingenti risorse economiche. Lo sfacelo degli imperi iniziava da quello degli Ittiti e giù via via fino a sfiorare l’Egitto. Tra gli alleati dei Troiani, come si evince dal libro nono dell’Eneide, per i motivi sopra addotti, figuravano i Sicani, guidati da un certo Capi che, stando a Virgilio, era stato cresciuto nella attuale città di Adrano, alle falde dell’Etna – non nominata direttamente nell’Eneide- dove si trovava il santuario dedicato al dio Adrano (la reggia di Enki?). Dunque, i venti di guerra che spiravano da est, in qualche modo giungevano a ovest. Che la Sicilia temesse l’apertura delle ostilità nell’ isola, lo conferma l’archeologia. Infatti, come si evince dai reperti archeologici e dalla produzione di ceramica che si interrompe improvvisamente alla fine del II millennio a.C., di cui è cosparsa la periferia della città di Adrano, i numerosissimi villaggi edificati a partire dal settimo millennio a.C. attorno al grandioso tempio, venivano strategicamente abbandonati e gli abitanti confluivano nella cittadella dove era stato edificato il santuario (Eridu?) dedicato all’Avo, protetta dalle enormi mura poligonali di cui si conserva ancora un lungo tratto.
Il Padrino.
Non può in questa sede passare inosservato, che il nome di Enea sarebbe in realtà un appellativo riconducibile al dio mesopotamico Enki che, bisogna qui ricordarlo ai lettori, secondo la nostra ricostruzione aveva edificato la sua reggia, nominata Eridu, una sorta di laboratorio biogenetico posto nel Mediterraneo (Sicilia?), in un luogo che nelle tavolette sumeriche veniva descritto ricco di acque dolci sotterranee (caratteristica perfettamente adattabile alla città di Adrano); per tale motivo Enki veniva appellato Ea cioè acqua in sumerico. Il nome Enea, composto dall’unione dei lessemi En. Ea potrebbe perciò riferirsi al ruolo esercitato dall’eroe troiano in patria: il primo, il numero uno nell’acqua. Quindi, giocando con la polisemia del nome En. Ea, l’eroe troiano potrebbe essere stato un valente ammiraglio in patria, ma, in pari tempo essere considerato come il numero uno fra gli uomini di Ea/Enki che operavano per suo conto nel Mar Nero, quello insomma su cui Ea faceva affidamento per svolgere il suo programma nell’area mediorientale. Con la caduta di Troia le regole d’ingaggio venivano modificate e a En.ea si assegnava una missione nel Mediterraneo. La missione sarebbe durata dieci anni e sarebbe accaduto di tutto. Il suo primo contatto con i suoi parenti transfughi e cospiratori avviene in Sicilia, dove risiedeva la cupola di Erice, nel tempio della loggia madre dove ad attenderlo c’erano i suoi familiari esuli – dagli Scoliasti viene affermato che a Trapani Enea incontra Egeste ed Elimo- che gestivano le operazioni di intelligence. Ci si ricordi che Diodoro nella sua Biblioteca Historica afferma che a Erice esisteva già il culto di Afrodite ancor prima che vi giungesse Enea, e che erano i Sicani a prendersene cura. A Erice, ascoltato Enea, constatato che gli assetti politici nel Mar Nero erano mutati, si decide di inviare un’ambasciata nell’Africa settentrionale, a Cartagine, a capo della quale c’era Enea. Non siamo in grado di immaginare il contenuto del mandato affidato a Enea, fatto è, che a Cartagine la regina Didone perde la giovane vita. Da quel momento i rapporti tra i Cartaginesi e Siciliani si deteriorano al punto da scaturire in delle inestinguibili guerre. Afferma Diodoro che quella del 480 a.C., che si concluse con la pesante sconfitta dei Cartaginesi, viene meticolosamente preparata da questi per dieci anni, e viene condotta di concerto e contemporaneamente con la guerra che il persiano Serse portava in terra greca. In questa occasione i Persiani e i Cartaginesi, da alleati gestivano in comune la tempistica dell’evento bellico e le strategie militari. Alla luce di questo conflitto appare ora chiara la missione che era stata affidata secoli prima a Enea nel suo viaggio a Cartagine: il suo compito era quello di prendere accordi per formare una coalizione internazionale in chiave anti greca.
Con la caduta di Troia, in terra sicana, ricostruendo i fatti successivi, si desume che la cupola di Erice avrebbe optato per un accordo di non belligeranza tra le fazioni facenti capo a Enlil/Eolo e quelle facenti capo a Enki o Adrano che chiamar si voglia. In quella occasione si perveniva alla necessità di realizzare una fusione rituale tra le due fazioni in opposizione: i Sicani e gli Enliti, da cui nacque un nuovo ordine, una mafia antelitteram, a cui Tucidide, raccogliendo la tradizione orale del luogo, diede il nome di Elimi, anche se a noi pare che il nome di questa artificiosa coalizione conduca a una filiazione sotto la protezione di Enlil Eolo. Concluso in Sicilia l’accordo tra Sicani e Enliti, a Enea si affidava una nuova missione, quella di recarsi nel centro Italia per fondare una nuova ” sede” – non sappiamo con quali fini-. Nel centro Italia, come viene tra l’altro affermato nell’Eneide, esisteva già un piedaterre sicano dal momento che i Latini della prima ora, come i Sicani di Sicilia, onoravano Ano, considerato il loro progenitore, appellato dai Sicani del Lazio jah ovvero sensitivo, percettivo, intuitivo, veloce. Tra l’altro, nel luogo denominato Circeo, aveva verosimilmente posto la propria residenza una sorella dei rissosi fratelli, il cui nome sumerico era Ninmah, ma che dai popoli germanici che abitavano il Lazio veniva appellata Circe. Circa l’implicazione dei popoli germanici nella storia antica, nelle Argonautiche, Apollonio fa risalire il Danubio ai nostri eroi, ma poiché affrontare l’argomento in questa sede ci condurre be lontano dall’obiettivo che questa breve indagine si è posto, consigliamo il lettore a leggere il saggio Dalla Scania alla S(i)cania, gratuitamente fruibile nel sito miti3000.eu). Forse l’appellativo Circe faceva riferimento alla maga quale garante della pace familiare, cioè colei che era deputata a mantenere la concordia nella comunità legata da vincoli di consanguineità. Questo potrebbe essere il motivo per cui Medea dopo l’assassinio del proprio fratello ricorre a lei, sua zia. Dal significato del nome Circe deriva forse il vocabolo tedesco kirche che significa chiesa, comunità. Quanto sopra ipotizzato, sembra confermato da Omero che, nel libro decimo dell’Odissea, fa giungere Ulisse nell’isoletta di Eea presso il Circeo. Mettendo assieme i fatti narrati nell’Iliade e quelli narrati nell’Odissea, sembrerebbe che, come in un moderno film di controspionaggio in cui i protagonisti sono due spie rivali, Ulisse venga messo alle calcagna di Enea, poiché là dove si recava Enea, ecco giungere subito dopo anche Ulisse. Per dimostrare quanto intricati e trasversali siano stati gli interessi nel Mediterraneo durante l’Età del Bronzo, si fa riferimento al libro II, 539 delle Argonaute in cui si narra che Eracle aveva contratto matrimonio in Sicilia con Melite, figlia del re dei Feaci Nausitoo. Dal matrimonio era nato Illo, il quale era stato cresciuto presso la reggia del nonno materno. Il giovane era stato inviato successivamente da Nausitoo, per motivi di politica estera, nel Lazio. Il fatto che il nipote del feacio re si chiamasse Illo, nome accostabile a quello primigenio della città di Troia, Ilio, e che venisse inviato nel Lazio precedendo Enea come il Battista aveva preceduto Gesù nella predicazione che si proponeva lo stesso fine, non può che alimentare il sospetto di un collegamento tra la missione di Illo e quella di Enea, se non addirittura una continuità di intenti.
Anche nel Lazio, sul modello siciliano, isola a cui va il primato della sperimentazione politica se oltre duemila anni
dopo questi fatti, si vedrà nascere il primo parlamento d’Europa, si ritenne opportuno attuare una fusione tra i due rami familiari, tra i Latini seguaci di Ano (Giano) da un lato e i nuovi arrivati dall’altro, portatori di istanze innovative fuori dalla tradizione dichiarata ormai obsoleta. Così, come narra Tito Livio, le due logge, quella troiano/ericina e quella latina si fusero, col patto però, come si afferma nell’Eneide, che lo statuto a rimanere in vigore fosse quello Latino. È plausibile che
l’accordo sigillato presso il tempio di Giano garantisse un periodo di tranquillità e prosperità, ricordato o associato al mitico periodo dell’età dell’oro, periodo in cui nel Lazio governavano di comune accordo due re dèi: Saturno e Giano Bifronte (una tavoletta sumerica porta l’immagine di una divinità con due facce).
È possibile, dunque, che agli scorci del II millennio a.C., alla iniziale guerra fredda in corso tra i due fratelli (appellati Palici in Sicilia, figli della lupa nel Lazio), seguisse una tappa di arresto e si addivenisse ad un giuramento reciproco di non belligeranza. Il giuramento veniva altresì sancito anche attraverso la fusione delle due famiglie, realizzando matrimoni misti. Infatti, apprendiamo dalle tavole sumeriche, che il figlio di Enki, Dumuzil, convolava a nozze con la nipote di Enlil, Inanna (la Proserpina siciliana?), e che altri figli e figlie dei due fratelli si sposavano tra loro.
Guerra e pace eterna.
Da quanto sopra affermato sembrerebbe che i problemi siano stati risolti, ma i figli sono portatori per i genitori di gioie e dolori e le loro ambizioni superano spesso quelle dei padri. Marduk, figlio di Enki, non si ritiene soddisfatto delle condizioni che conducono alla pace familiare, in quanto il ruolo a lui assegnato viene ad essere marginale rispetto a quello ottenuto dai cugini. Egli desidera di più! Attraverso una guerra non più politica ma distruttiva, il giovane principe riesce a spodestare lo zio. Probabilmente la guerra raccontata nelle tavolette mesopotamiche è la stessa di quella vergata nei papiri egiziani in cui lo scontro avviene tra Set e suo nipote Horus; nel Lazio riportata da T. Livio, dove Romolo depone lo zio e ripristina il trono usurpato, e ancora in India quella descritta nel Mahabharata tra i Kurava e i Pandava; in Persia tra Ciro e il nonno materno ecc. In effetti Marduk non aveva forse tutti i torti a lagnarsi per il suo ruolo di sottordine. Infatti, come si apprende dalle tavolette sumeriche, era stato suo padre Enki ad avere avuto il mandato dal nonno Anu di migliorare le condizioni di vita sulla terra e portare l’ordine fra i rissosi dèi che cominciarono ad abitarla, e infine creare l’uomo, salvandolo poi dall’estinzione che gli avrebbe provocato il diluvio e risolvendo un bel po’ di problemi terrestri. Per complicati meccanismi di ereditarietà, però, ad avere il comando sulla Terra veniva designato il fratello minore di Enki, Enlil. A questi era stato dunque servito su un piatto d’argento un regalo così grande quanto immeritato. La guerra condotta contro lo zio, come confermato dai miti di tutto il mondo ed esplicitamente messo per iscritto nel racconto sumerico denominato Enuma elish, si conclude con la schiacciante vittoria di Marduk.
Ripresa delle ostilità: nuova guerra fredda.
Naturalmente Enlil cede a malincuore a Marduk il posto al vertice del Pantheon. Egli, tra l’altro, nei suoi taciti programmi aveva destinato in cuor suo ai propri eredi il regno terrestre. Pertanto, gli Enliti non rassegnati alla schiacciante vittoria ottenuta da Marduk, cominciano a cospirare contro il nuovo signore. Ancora una volta le ostilità riprendono in modo velato dalla Sicilia, forse decise nella loggia ericina. A metà del principato di Marduk, che aveva spostato la sua corte a Babilonia, facendola diventare capitale del nuovo regno, in quanto la Sicilia tradizionalmente era sede del padre Enki/Adrano ed era considerata neutrale in forza del divino giuramento, gli Enliti brigano con i Greci perché questi si sostituiscano ai prischi Sicani nel governo dell’isola.
Iniziava il gioco sporco! Si erano rotte le regole, violati i giuramenti sacri: l’intoccabile terra, dimora di dèi, non veniva ora risparmiata dalle guerre combattute con le armi. Nell VIII sec. a.C. nasceva in Sicilia la tirannide sotto l’emblema del toro. L’animale facente parte della costellazione dello zodiaco, era il segno che caratterizzava Enlil. I Greci (la Grecia veniva chiamata Hellade forse in omaggio alla stirpe degli Enliti loro patroni) riuscivano a infiltrarsi in alcune coorti sicane. Vantando legami di parentela con i pii re sicani, lentamente e in modo prima indolore, si sostituivano a questi. L’isola si divideva ancora più nettamente in due fazioni. Il prezioso racconto dello storico Polieno, che si sofferma sullo scontro avvenuto nel VI sec. a.C., tra il sicano Teuto e il tiranno di Agrigento Falaride, ci permette di individuare gli schieramenti contrapposti grazie ai vessilli che le parti schierano tra le loro fila: Falaride aveva come emblema il toro di Enlil. Anche grazie a Diodoro è possibile individuare nella sua Biblioteca Historica gli schieramenti che nell’isola si distribuivano a macchia di leopardo. L’epicentro delle forze Enkite rimarrà fino alla venuta dei Romani nel 263 a.C., il luogo in cui era stato edificato il suo santuario nell’attuale città di Adrano, che tutti i tiranni greci da Falaride a Jerone, da Dionigi a Iceta con alterne fortune tentarono di Espugnare, e i Sicani, da Teuto a Ducezio di difendere. Il resto è storia: i Romani, che a buon titolo si dicevano discendere da Enea, riuscivano a realizzare il Nuovo Ordine Mondiale, insediando nei regni di tutto il mondo allora conosciuto, reucci fantoccio ai loro comandi. Non andremo oltre la constatazione che oltreoceano, da tempo si investiga sugli errori commessi dai Romani che causarono la caduta dell’impero, affinché il vertice del nuovo Ordine non abbia a ripeterli oggi.
Gli antichi venti di guerra.
Ci chiediamo se i venti del terrore contenuti nell’otre, consegnati a Ulisse senza che questi riuscisse – o non intendesse– a sortire gli effetti desiderati dal mandante, se quelle armi che Enlil avrebbe voluto criminalmente e cinicamente utilizzare in odio al genere umano, eufemisticamente chiamate “il sacro vento”, Ve. Hel, vello e Furore, si trovano ancora nell’isola, nelle mani scellerate degli eredi dell’odiatore dell’umanita’. Sono forse quelle armi nascoste nel sottosuolo di Sigonella, puntate ancora in direzione dell’antica Colchide, contro il re Eeta oggi Putin? Noi, eredi del dio protettore dell’umanità, Adrano, del compassionevole Enki, vi ammoniamo: che non sia il sacro suolo siciliano a dover pagare il prezzo della vostra scelleratezza. Sappiate voi demoni del male, ovunque vi nascondiate sotto mentite spoglie, che l’ira del giusto trascende ogni potenza di cui il malvagio si avvale, vi riconosceremo, vi scoveremo. Con l’autorevolezza che promana dal giusto, non acconsentiremo che questo nostro paradiso venga sacrificato a Molok per questioni di effimero potere. Perciò terremo saldo il polso del dio Mitra, guideremo il pugnale che bandisce sicuro verso il collo del toro, lo sacrificheremo al dio compassionevole che ha a cuore le sue creature e, come recita il passo biblico, le forze del male non prevarranno. Come riconoscere queste ultime ci si chiederà. La domanda legittimamente posta in un contesto di mistificazione quale è quello odierno, trova la risposta nel simbolismo, che difficilmente può essere mistificato, e quello negativo della furia incontrollabile del toro è oggi più che mai palese. È questo simbolo, il toro scomposto nella furia del suo scalciare, l’emblema del dio che intende decimare l’umanità. Egli, il dio zaratustriano della distruzione, si ripropone oggi con la stessa furia manifestata millenni fa, evidenziando gli atteggiamenti di sempre: uso della violenza, indifferenza alle altrui sofferenze, cinismo, sterminio indiscriminato, invenzione di strumenti segregativi, controllo dispotico del sottoposto, magistrale utilizzo dei doppiogiochisti, gestione della ricchezza e suo utilizzo quale strumento di ricatto e di corruzione. “Dai suoi frutti si riconosce l’albero”.
Ad maiora.
CHIARIMENTI E CHIAVE DI LETTURA.
Chiediamo venia al lettore se in qualche luogo della rilettura degli eventi, sopra azzardata, la farraginosita’ dell’esposizione dei fatti ha creato qualche contraddizione irrisolta. Ma non poche sono state le difficoltà in cui siamo incorsi nel tentativo di comparare le divinità locali che sarebbero scese in lizza nei conflitti tra le nazioni, fornendo il loro sostegno ora all’una ora all’altra fazione. La stessa difficoltà si è avuta nella ricostruzione genealogica dei personaggi chiave e la esatta cronologia dei fatti raccontati. Il tentativo, poi, di separare il loglio dal grano, ce ne rendiamo conto, è rimasto irrisolto in alcuni casi, come quello degli dèi Palici in Sicilia. Forse in questo mito sono confluiti eventi simili svolti in tempi diversi. Il mito siciliano dei Palici, potrebbe aver fuso in un unico evento il conflitto avvenuto tra i fratelli Enki ed Enlil e quello successivo avvenuto tra Marduk e Thoth figli di Enki, cresciuti entrambi in Sicilia, a patto che non si sia incorso in errore nell’identificare l’Abzu con la Sicilia. Una ulteriore complicazione l’ha fornita il termine Anu, che da sostantivo, riferito al genitore di Enki e Enlil, potrebbe essersi trasformato in aggettivo applicato a Enki. Infatti, il termine Ano, che nella lingua tedesca parlata nel medioevo significava nonno, progenitore, avo, antenato (Ahne nel tedesco moderno), potrebbe essere stato applicato a Enki con il significato di creatore dopo che, stando al mito sumerico, egli aveva creato gli esseri umani. L’atto creativo, descritto nei testi sumerici come una serie di tentativi attraverso manipolazioni genetiche, avrebbe conferito una paternità al dio, e gli uomini lo avrebbero ricambiato conferendogli affettuosamente l’appellativo di nonno, avo, antenato, Ano appunto. Questo ha fatto sì, però, che il teonimo Adrano, composto dall’unione dell’aggettivo odhr furioso, con il sostantivo Ano avo, non rendesse chiaro quando, di volta in volta, l’appellativo si riferisse al padre piuttosto che al figlio. Lo stesso vale per il toponimo Adrano, non si riesce a comprendere se la città venisse intitolata al padre o al figlio. Una ulteriore difficoltà consiste nel fatto che le divinità venivano evocate utilizzando molteplici appellativi, alcuni dei quali venivano assunti poi anche dai governanti umani. Così come i Greci per Poseidone utilizzavano appellativi quali l’Ennosigeo piuttosto che Maremoto o dio dalla capigliatura azzurra, non escludiamo che lo stesso avvenisse per Enki detto Ea e forse, come sopra affermato Ano e ancora Al Cened (Alcinoo) e tanti altri fino a quaranta, numero assegnato al suo rango divino. Si tenga infatti presente, che ci è pervenuta la lista dei cinquanta nomi con cui i Sumeri appellavano Marduk.
Tuttavia, riteniamo che qualora qualche quesito sia rimasto irrisolto, tale deficit, nell’economia generale della interpretazione dei fatti storici e mitologici tentata attraverso i nostri articoli, atti a dissipare le tenebre che avvolgono la nobile storia degli antenati, non andrebbe a minare la bontà di quanto fin qui è stato realizzato. .
Una ulteriore difficoltà deriva dalla polisemia di taluni vocaboli. Tuttavia, tale difficoltà si dipana nel momento in cui il vocabolo viene contestualizzato nel senso generale del discorso in cui è inserito.
Per ciò che concerne la longevità delle ostilità qui narrate, presentate una come conseguenza dell’altra, cosa che potrebbe creare qualche remora di credibilità nel lettore, crediamo che essa sia resa possibile nella misura in cui la visione del mondo, basata sulla dicotomia o necessità degli opposti: luce buio, notte giorno, bene male, salute malattia, spirito corpo, faccia parte dell’essere di ogni individuo. Eternamente gli individui, per affinità elettiva, vengono chiamati a schierarsi da una o dall’altra parte, come la notte che eternamente insegue il giorno, alternandosi nella “vittoria”.
Per ciò che concerne l’ipotesi che alcune parole potrebbero presentarsi come parole in codice o metafore – metodo utilizzato da sempre in ambienti di intelligence e negli scenari di guerra fin da quella del Peloponneso raccontata da Tucidide o gallica da Cesare- come vello, otre ecc. il lettore conosce già il nostro metodo interpretativo che utilizza la lingua germanica come lingua di riferimento, ritenendola quella che più ha conservato familiarità, a nostro avviso, con una lingua primordiale parlata dai popoli prima della deriva linguistica. Il linguaggio in codice, rinvenuto nei testi esaminati, è, a nostro avviso, perfettamente compatibile con gli eventi narrati e la loro interpretazione coerente. Il termine otre, per esempio, da noi tradotto come contenitore il cui contenuto se lasciato libero provocava un vento furioso, mortale, trova tale logica interpretazione nel momento in cui si accetta la traduzione del termine fornita da Adamo da Brera. Lo storico tedesco afferma che Odino, quando scatenava la sua ira veniva aggettivato il furioso, odhr. Poiché abbiamo sostenuto l’affinità linguistica tra i Sicani e i popoli germanici, ecco che il termine otre si adatta perfettamente alle caratteristiche del recipiente consegnato da Eolo a Ulisse e ben descritte nell’Odissea. L’otre, ancora oggi utilizzato in Sicilia come contenitore, viene realizzato esattamente secondo le modalità descritte nell’Odissea. Lo stesso ragionamento va applicato al termine vello, anch’esso spiegabile utilizzando la lingua germanica. Si tenga conto che nell’Iliade, Omero faceva già riferimento ad una lingua parlata dagli dèi, di cui il poeta lasciava tracce nel poema, non riportando la traduzione del termine che, probabilmente, non aveva corrispondenza nella lingua greca.
Per ciò che riguarda gli schieramenti che si combattono per affermare la propria visione del mondo, l’adesione all’uno o all’altro dipende da un sincero riconoscersi nel programma portato avanti per governarlo. Crediamo di non essere incorsi in errore se per riconoscere gli schieramenti ci siamo avvalsi del simbolismo a cui, crediamo, i poeti hanno velatamente fatto ricorso. Nel simbolismo si rende altresì manifesto il metodo che si intende adottare per risolvere gli eterni problemi che affliggono l’umanità, e che sono sono sempre i medesimi: disordine, sovrappopolamento ecc. Le due fazioni entrerebbero dunque in contrapposizione sul metodo da adottare per raggiungere il medesimo fine, come farebbero due medici di scuola diversa per guarire un arto malato: optando per l’intervento chirurgico l’uno, per la medicina curativa l’altro. Crediamo di non aver errato e se al simbolo del toro abbiamo associato il metodo violento, traumatico, forse più facile e veloce per risolvere il problema. Chi si contrappone al metodo violento, è altrettanto individuabile per il tipo di lotta che mette in atto per ostacolare la violenza: Gilgamesh, Mitra, Giasone, Teseo, forse Mosè sacrificano il Toro, lo vincono nello scontro o lo aggiogano. Dal sacrificio del toro che arriva puntuale dopo che la furia dell’animale ha sconvolto il mondo per un certo periodo di tempo, si desume il giungere della vittoria finale da parte di chi compassionevolmente intende preservare il genere umano. Se, dunque, il Toro è l’emblema di Enlil, il sacrificio dell’animale non può rappresentare che l’offerta fatta a Enki, che nel mito conserva sempre il ruolo di difensore del genere umano.
Nella versione greca, Enki/Ea dovrebbe corrispondere al dio delle acque Poseidone: a questa divinità greca Nestore, nella spiaggia di Pilo sacrifica un Toro; Teseo è uno dei suoi figli, concepito con una mortale, anche lui sconfigge un toro custodito dal re di Creta Minosse.
Il viaggio compiuto dagli Argonauti appare fin dal suo inizio, attraverso l’invocazione di Apollo e la promessa di Giasone di sacrificagli i tori al suo ritorno, una operazione atta a ristabilire l’ordine compromesso. Argo, il costruttore della invincibile nave che da lui prende il nome, porta sulle spalle un mantello ricavato dalla pelle di un toro scuoiato.
Ad maiora.