Raccogliendo lo stimolo all’approfondimento, indotto dall’ottimo dott. Giuseppe Fumia, attento giornalista, baciato dalla Musa, che, oltre a dedicare i suoi ultimi articoli alla vetusta quanto sconosciuta fase evolutiva della primordiale antropizzazione delle contrade etnee, ha voluto toccare con mano le antiche rocce – altari primordiali degli Avi nostri– su cui abbiamo non poco indagato, siamo ritornati sul luogo, dico nelle amene campagne di Castiglione di Sicilia. Ebbene, il benevolo Genius loci, forse in omaggio al nostro intraprendente giornalista che non si accontenta di scalfire la superficie della storia atavica, ci mostrò un nuovo aspetto del luogo che illusoriamente credevamo di ben conoscere. Il dott. Gaetano Tradito, attento osservatore dei particolari, noto’ che
nella roccia di morbida arenaria in cui era stata scavata la camera funeraria, sul lato destro, erano stati creati dei gradini. Questi, ormai consunti dal tempo – erano per questo passati inosservati durante il primo sopralluogo– conducevano alla sommità della roccia. Nel contempo, il sottoscritto, trovandosi “casualmente” nella giusta
prospettiva, notava la forma zoomorfa assunta dalla roccia. Il masso di arenaria, osservato da quella prospettiva assumeva le sembianze della testa di un toro o di un cavallo; i compagni condivisero questa interpretazione. Dal lato opposto a quello dove erano stati ricavati i gradini, di fianco
rispetto all’apertura della camera funeraria, dentro ad una nicchia ricavata nella roccia, ancora il dott. Tradito individuava un bassorilievo dalle evidenti sembianze di un volto umano, realizzato, forse, con intento apotropaico. Dal contenuto di
alcune tavolette sumeriche si apprende che era abitudine dei popoli mesopotamici scolpire dei volti presso il luogo di sepoltura, di solito una grotta naturale, o in parte rimodellata – sulle affinità culturali intercorse tra i Sumeri e i Sicani ci siamo già soffermati altrove-. Saliti i
gradini, notammo che lo scalpello sapientemente guidato da mano umana aveva volutamente percosso la roccia in quella parte che coincideva con la testa del presunto toro, in modo da realizzare un piano perfetto il quale, secondo la nostra interpretazione, doveva servire come piano d’appoggio per le offerte votive ivi deposte. A noi parve, pertanto, che il grande masso avesse avuto la doppia funzione di sepolcreto e di altare per la deposizione delle offerte. Ci rammaricammo che il portellone posto a chiusura della camera sepolcrale non fosse giunto fino a noi, ci saremmo aspettato, infatti, di trovare scolpito su di esso, sulla scia del portellone ritrovato a Castelluccio, un bassorilievo che lasciasse intuire la destinazione d’uso di quel misterioso luogo.
Naturalmente qualsiasi interpretazione da noi oggi tentata di quel luogo, rientra in un mero esercizio di fantasia, e tuttavia, se ben dichiarata, pure l’immaginazione, quale contributo afferente alla decriptazione della funzione della struttura, se supportata dalle discipline scientifiche, torna utile per l’elaborazione di tesi atte ad indagare la nobile weltanshauung degli estinti nostri antenati. Ricostruire quest’ultima, per quanto riguarda i prischi Sicani, per la verità non ci appare un’impresa impossibile e crediamo che molto sia stato da noi già fatto in proposito. Immaginando che la presunta figura zoomorfa modellata nella friabile roccia raffiguri un toro e che essa non sia opera dello sfaldamento naturale dell’arenaria, bensì scolpita dall’uomo affinché il rito assumesse una maggiore efficacia, ci accingiamo ad esporre alcune considerazioni sul simbolismo del toro, associato alla ingovernabile furia dell’autoaffermazione. La rappresentazione di questo animale fu molto presente nel mondo indoeuropeo e nell’area mediterranea in particolare: dall’Anatolia nel sito di Catal Huyuk datato al settemila a. C. accostato alla dea madre quale simbolo di fertilità, alla Grecia, ove veniva utilizzato come animale da sacrificio particolarmente gradito da Poseidone (vedi il mito di Minosse e il sacrificio effettuato da Nestore nell’Odissea), e a Creta, fino all’Iberia e alla Sicania, ove la furia taurina veniva simboleggiata anche attraverso le sole corna di terracotta attualmente esposte in una vetrina, nelle sale del prestigioso museo del Castello Normanno di Adrano, assieme a reperti datati al IV millennio a.C.
L’era del toro.
Proprio da questa data, il IV millennio a.C., vorremmo iniziare il nostro excursus, in quanto questa lontana datazione coincide con l’era zodiacale del toro. Delle dodici case dello zodiaco quella del toro viene a coincidere cronologicamente tra il quattro e il duemila a.C. Questa era dovette manifestarsi, se dobbiamo accettare il simbolismo a cui viene associato l’indomito animale, come un’era di travaglio per l’intero pianeta dal momento che la rappresentazione del toro appare contemporaneamente in tutte le civiltà della terra. All’era del toro sarebbe seguita quella dell’ariete. Quest’ultima si sarebbe conclusa nell’anno zero, che coincideva, come è noto, con l’inizio dell’era dei pesci e con l’instaurazione del Cristianesimo. Ora, noi siamo dell’avviso che ogni era, quale foriera di nuovi accadimenti, veniva celebrata, attenzionata e indagata dai nostri Avi astronomi e ogni era veniva associata ad una particolare divinità: quella del leone in ambito sumerico ad Anu, del Toro ad Enlil, dell’Ariete a Marduk; in ambito semitico il pesce, ritrovato inciso in molte catacombe, al Cristo. Queste affermazioni trovano riscontro nel poema sumerico Enuma elish in cui, alla fine del racconto, la iniziale elaborazione cosmogonica si fonde con quella teogonica al punto che il dio Marduk e il pianeta Nibiru diventano l’uno l’incarnazione dell’altro.
Sumeri e Sicani.
A più riprese nei nostri saggi abbiamo fatto riferimento ad una consanguineità culturale intercorsa tra gli eredi mesopotamici del dio Anu e gli eredi sicani dell’avo primordiale adr. Ano.
L’iniziale evidenza di questa parentela venne successivamente offuscata, in quanto la mitologia sicana fu artatamente rielaborata dagli storici greci a partire dal’ VIII sec. a.C., cioè da quando i profughi e i coloni Greci vennero accolti come supplici dai pii Sicani.
Il tentativo nostro di ricostruire il firmamento teogonico sicano, oscurato dai prezzolati mistificatori greci, si avvale oggi della possibilità di utilizzare le diverse discipline scientifiche che, anche in questa occasione, trovano ampio spazio di applicazione. Inoltre, delle migliaia di tavolette ritrovate in Mesopotamia, incise con caratteri cuneiformi, alle numerose traduzioni effettuate nel secolo scorso dal noto sumerologo Samuel Kramer, se ne sono aggiunte molte altre che hanno contribuito notevolmente ad allargare le conoscenze sulla civiltà sumerica, spostando anche l’ottica interpretativa a un punto di vista più laico grazie al contributo di ricercatori indipendenti dalle ampie vedute. Chi ci ha seguito nelle ricerche sa che le nostre tesi si fondano su un assunto, sull’esistenza cioè di una civiltà globale che conferiva una omogenea forma culturale al pianeta terra fin dai tempi pre diluviani. Dopo il diluvio cominciò una graduale cesura tra i sopravvissuti e un adattamento della primordiale cultura alle nuove esigenze dei popoli che andavano formandosi. Tuttavia abbiamo buone ragioni per credere che fino alla data del quattromila a.C., le civiltà mediterranee post diluviane conservassero ancora lingue e tradizioni affini, sebbene adattate a esigenze ambientali diverse. La vicinanza culturale tra la Mesopotamia e la Sicania è stata da noi indagata abbondantemente, quindi vi faremo qui soltanto brevi passaggi in quanto utili allo studio che questo articolo si è proposto di esporre. La ricerca riguarda una “guerra fredda” combattuta tra due fratelli, iniziata in illo tempore e continuata fino ad oggi dai rispettivi eredi se dobbiamo dare credito alle rivelazioni di Paolo Rumor, rispettabilissimo autore del saggio “L’Altra Europa”. I due fratelli furono conosciuti nell’isola sicana attraverso l’appellativo di Palici, detti anche Delli ovvero i sotterranei, figli di a.dr.Ano; in Mesopotamia i fratelli, figli di Anu, venivano chiamati Enki ed Enlill; in Grecia sarebbero da identificare con Poseidone e Zeus nipoti di ur.Anu. Il lettore avrà notato che An, L’avo, rappresenta il comune denominatore delle civiltà citate. Anche nel centro Italia una primordiale tradizione, poi fatta propria dai Romani, faceva riferimento a due fratelli in conflitto tra di loro per motivi di ereditarietà; anche la stirpe di questi era riconducibile a un dio Ano, appellato dai Latini jah, cioè percettivo, sensitivo, veloce. La casa zodiacale dei gemelli o fratelli divini, faceva ingresso nel 6.000 a.C., circa; il periodo di tempo intercorso tra il seimila e il quattromila prima dell’era volgare, dovette rappresentare, secondo la valutazione del progresso umano avanzante, un periodo di tranquilla collaborazione tra i due fratelli.
L’ era del toro e il simbolo della tirannide.
Ma Ritornando al simbolismo del toro e al suo ingresso nella casa zodiacale avvenuto intorno al 4000 a.C., non può essere qui ignorato lo sfogo avuto col padre dell’adirato Marduk. Questo irrequieto figlio del dio esautorato Enki, “che tanto male procurerà agli Annunaki” e agli umani, volendo riscattare il padre che era stato messo in disparte da Enlil nella gestione del potere, dopo aver condotto una guerra contro lo zio usurpatore, lamentandosi col padre per l’insuccesso riportato, nel ricercarne le cause si sente rispondere che la sua colpa consisteva nella fretta che egli aveva avuto nel dichiarare la guerra. Infatti, Enki faceva mestamente osservare al figlio, che il suo tempo non era ancora giunto poiché non si era ancora entrati nell’era dell’ariete, il suo segno, ma il toro stazionava ancora nella casa dello zodiaco. Infatti, secoli dopo – un secolo degli umani equivaleva a un giorno degli dèi – quando il segno dell’ariete si avvicendo’ a quello del toro nella casa zodiacale, Marduk dichiarata guerra allo zio, effettivamente riportò la vittoria regnando per i prossimi duemila cento sessant’anni, cioè fino all’ingresso dell’era dei pesci. Sebbene nella tavoletta sumerica intitolata La Discesa di Inanna agli Inferi, si legga che Marduk ottenesse i cinquanta nomi o titoli appartenuti a Enlil, dall’ analisi degli eventi successivi si evince che quest’ultimo avrebbe comunque continuato per vie occulte una opposizione nei confronti del nipote (nel mito egizio la contrapposizione tra Set e Horus?). Per ciò che concerne la Sicania, luogo in cui ipotizziamo si trovasse la sede di Enki, denominata Abzu nelle tavolette mesopotamiche, e di cui abbiamo già parlato nei precedenti articoli, riteniamo che i Greci qui giunti nell’VIII sec. a.C., rappresentassero il braccio armato di Enlil (Eolo?) e che avessero avuto la missione di iniziare in Sicilia una azione di intelligence, lentamente sfociata nell’affermazione delle tirannidi, il cui simbolo, come vedremo, era rappresentato dal toro, emblema di Enlil. I Greci, dunque, sotto le mentite spoglie di supplici (vedi Archia a Siracusa) o di coloni (vedi la calda accoglienza riservata ai Megaresi da parte di Iblone), lentamente riuscirono a infiltrarsi nei gangli della politica e nelle corti locali sostituendosi ai politici e ai generali autoctoni alla guida delle Polis, dando vita, come si è detto, alla tirannide, di cui Falaride, tiranno di Agrigento, vissuto nel VI sec. a. C., risulta essere il più orribile rappresentante di questa istituzione sconosciuta ai democratici isolani. Come racconta Polieno, Falaride, famoso per la sua ferocia e per l’invenzione del famigerato toro di bronzo quale raffinato strumento di tortura, aveva portato guerra al principe di Innessa Teuto. Ci chiediamo: Teuto era forse un sacerdote presso il tempio del fratello di Marduk, Thoth per gli egiziani, Teuty per i Greci? Figlio di Enki, Thoth, oltre all’indole compassionevole aveva ereditato dal padre anche la conoscenza delle scienze che lo rendevano potente e temuto. Thoth, come viene affermato nelle tavolette sumeriche, collaborava col padre nella sede dell’Abzu. In questa sede, poco dopo il suo trasferimento, molto tempo prima, Enki era stato raggiunto dalla moglie Ninki col figlio primogenito Marduk. Se abbiamo visto giusto, e l’Abzu è da identificarsi con la Sicilia, ecco che si giustificherebbe la presenza del principe sacerdote Teuto nella città dove sorgeva il santuario dedicato ad Ano (Adrano). Si giustificherebbe così anche l’attacco di Falaride a Teuto essendo devoti a divinità rispettivamente antitetiche. Il lettore non avvezzo agli intrighi dinastici antichi quanto moderni, potrebbe ritenere fantasiosa questa ricostruzione, se non fosse che la storia è cosparsa di operazioni di intelligence. Basti ricordare l’episodio raccontato da T. Livio a proposito di Silla che, intrufolatosi nell’accampamento nemico, aiutato dalle sue caratteristiche somatiche celtiche, spacciandosi per un Gallo, riusci a carpire preziose informazioni o, come abbiamo ricostruito nel saggio Il Paganesimo di Gesù, gratuitamente fruibile nel sito web miti3000.eu, l’episodio di Giuseppe Flavio e Paolo di Tarso, che con la collaborazione di Seneca crearono i presupposti per la nascita di una religione da contrapporre a quella giudaica, giudicata concordemente affetta da un pericoloso fanatismo e quindi da estirpare. Tornando in Sicilia ricordiamo al lettore che non si intende mettere in discussione la fede su un credo o una divinità, ma si vuole, semmai, mettere in evidenza che in nome di essa si schiavizzano ancora oggi gruppi umani e, ricorrendo ai medesimi condizionamenti mentali, si utilizzano sempre le medesime politiche per governare, indebolendo i popoli, indotti a odiarsi e a contrapporsi. Partendo da questa premessa, allora come oggi, non potevano mancare dunque le fazioni. La contrapposizione politica e militare intercorsa in Sicilia tra i Greci e i Sicani, potrebbe essere interpretata come una opposizione già maturata su un piano metafisico, combattuta tra i due fratelli divini appellati in Sicilia Palici e continuata dai rispettivi eredi? Ci appare adesso più che mai appropriata la metafora secondo la quale nella tradizione orale sicana, raccolta da Eschilo nelle sue Etnee, sebbene rielaborata in chiave grecocentrica, i due fratelli, presso l’ara a loro dedicata nella periferia della città di Adrano, occultati nel sottosuolo sotto forma di acque carsiche, nel ritornare alla luce come acque di sorgente venissero appellate chiara l’una e oscura l’altra, proprio a indicare dicotomica visione del mondo.
Ma tornando ai tiranni, come sopra affermato, essi, di etnia greca, rappresentavano in Sicilia il braccio politico e militare del dio Enlil (Eolo?), a tradire tale ruolo è lo stesso etimo. Infatti, l’infame appellativo deriva dal germanico stier che significa toro, animale totemico assimilabile a Enlil/Zeus. Si ricorderà il lettore, che Zeus, nel mito greco, per rapire Europa, fuor di metafora la Sicilia, l’Occidente o il regno del fratello, si trasforma in un toro.
Il toro appare ancora nel poema babilonese di Gilgamesh. Scatenato dalla dea Inanna con il permesso del bisnonno Anu, l’animale appellato toro del cielo ovvero stier.Anu, da cui tir.anu e infine tiranno, verrà abbattuto dall’eroe positivo babilonese. Se nel mito, e la storia concorda in questo, il destino del toro è quello di essere infilzato, sacrificato, abbattuto, sconfitto o domato, ebbene, l’infausto momento storico presente, che ancora una volta lo vede protagonista, non potrà concludersi che con il medesimo rituale della sua inevitabile sconfitta.
Ad maiora