Le divinità sicane erano ormai invecchiate e stanche, quando nel 263 a.C., dalle vette dei Peloritani, si affacciavano nuovi e vigorosi dèi che camminavano sulle robuste gambe dei legionari romani. Si addivenne allora a un compromesso: alle giovani divinità venne fatto spazio nell’isola divina; a loro si eressero splendidi templi di umana ingegneria là nelle pianure, accanto ai porti, nelle città affollate, presso i mercati, mentre gli antichi dèi si ritiravano presso le cattedrali che la natura aveva scolpito per loro fra boschi, ruscelli e antidiluviana arenaria. Gli dèi sicani erano sì vetusti, ma ancora vigorosi e temuti, e quando nel 213 a.C. si aprirono in Sicilia nuove ostilità con i Romani, con i quali si era proficuamente convissuto per cinquant’anni grazie alla lungimiranza del saggio Gerone II, il padre degli dèi sicani Adrano era talmente temuto dai legionari che, constatato come dai suoi santuari provenisse una tale energia da rendere invincibili le schiere di soldati siciliani, il Senato Romano delibero’ di chiudere quei luoghi al pubblico culto.
Alla fine, le vetuste divinità sicane vennero però sopraffatte dai giovani dei romani. Le antiche divinità che per millenni erano riuscite a contenere le invasioni straniere, compresero l’irreversibilita’ degli eventi e si ritirarono allora sui monti, permettendo che il fato si compisse. Le primordiali divinità sicane sonnecchiano ora nelle acropoli di Nicosia, Nissoria, Cerami, Assoro, Gagliano… Castiglione di Sicilia. In quest’ultima nel 2004, il proprietario di estesi terreni di noccioleti e vigneti, il signor Nunzio Nicolosi, durante alcuni lavori di routine, escavando parte del suo terreno, dovette certamente irritare il Genius loci, Bacco, uno di quelle giovani divinità che, avendo sconfitto gli antichi dèi sicani, si erano radicate nelle amene contrade castiglionesi. Si imbatte’, infatti, il Nostro, in alcuni enormi tini di epoca romana, seppelliti nel terreno affinché il vino, come era di gusto per i commensali, invecchiasse per decenni prima di essere degustato nei luculliani convivi romani. L’onesto e patriota signor Nunzio Nicolosi, avvertì immediatamente la Soprintendenza ai Beni Culturali di Catania. Gli archeologi effettuarono subito dopo un sopralluogo e successivamente furono fatti dei saggi di scavo. Purtroppo una lettura completa della storia del luogo e della società dell’epoca, non è possibile effettuarla sulla base dei pochissimi indizi a nostra disposizione. Da una nostra superficiale ricognizione dei luoghi fatta oggi in compagnia del dott. G. Tradito, presidente dell’associazione Trinacria di Calatabiano, appare tuttavia evidente che una antropizzazione del territorio di Castiglione di Sicilia, non solo la si può con certezza fare risalire fin dal periodo neolitico, ma si può affermare che non vi sia stata soluzione di continuità abitativa fino ai giorni nostri e che la vita in quei luoghi sia proceduta seguendo l’evoluzione dei tempi: dai tini di terracotta romani fino ai silos di lucente acciaio delle prestigiose e numerose cantine vinicole dei giorni nostri, che numerose insistono sul territorio dell”‘elegante” villaggio di Solicchiata.
Il lusso delle ville romane in Sicilia.
Molti cavalieri romani, al pari di quel prestigioso Lollio, citato da Cicerone nelle verrine, che ottuagenario ormai,
dava ancora filo da torcere al ladrone Verre, abitante nella città di Etna, antico nome di Adrano a cui Cicerone fa riferimento per uno escamotage dialettico e di strategia processuale per enfatizzare il nobile ed eroico trascorso della vetusta città che ospitava il santuario dedicato al primordiale antenato dei Siciliani, Adrano, grazie all’ ausilio di manovalanza a basso costo rappresentata dagli schiavi, che in gran numero provenivano dai territori conquistati in oriente, avevano probabilmente continuato e perfezionato la viticultura che i Greci di Sicilia avevano a loro volta impiantato nei territori sicani. I su citati cavalieri romani, pari per rango ai Senatori, avevano raggiunto in Sicilia uno stato di benessere economico, evidente nel resoconto ciceroniano delle verrine, tale da potere quasi certamente attribuire a qualcuno di loro la proprietà della Villa del Casale di Piazza Armerina ed ora quella di Castiglione, i cui scavi, è bene ricordarlo in questa sede, non sono mai stati condotti scientificamente, alle quali vanno aggiunte le numerose ville ritrovate ad Adrano durante il periodo economicamente florido degli anni settanta e ottanta, che vide una selvaggia cementificazione, e che ora giacciono silenti sotto le colate di cemento delle prestigiose quanto abusive abitazioni di Via Catania. Chiudendo l’oscura pagina dello scempio culturale, storico e archeologico commesso da individui senza onore e senza patria, appartenenti a tutti i livelli sociali, eredi di quei reduci delle guerre servili capeggiate in Sicilia dal sirio Euno, al quale, segno dei tempi, è stata eretta una statua nella città di Enna, a noi non passa inosservato il fatto che, nonostante i Greci fossero rinomati produttori di pregevoli vini al tempo dei Romani, – nell’Odissea ricorre spesso la citazione dei vini che provenivano da Chio, Nasso, Rodi, Cipro ecc.. – tuttavia Omero, fa trasparire una superiorità della qualità dei vini siciliani rispetto a quelli greci e una tradizione enologica più antica dei posseduta dai primi. Infatti, nel capolavoro del poeta cieco, l’Odissea, viene mostrato dai Feaci all’ammirato e incredulo Ulisse, come essi fossero assai avanti nell’arte della vinificazione. Da ciò che ci è dato di poter interpretare dal racconto omerico, sembrerebbe che i Feaci fossero in grado di realizzare diverse qualità di vino. Dalla descrizione che fa il poeta greco del momento della vendemmia, si evince che in Sicilia si facessero più raccolte di uva a motivo della selezione dei vitigni utilizzati e a motivo della gradazione e del sapore che si voleva raggiungere. L’affermazione, poi, che si pigiavano uve che non erano volutamente lasciate maturare, ci ha indotto a sospettare che i Feaci producessero una qualche qualità di vino spumante.
La viticoltura a Castiglione durante il periodo romano.
Dopo la conquista dei territori del nord Africa da parte dei Romani, il grano siciliano ebbe un crollo del mercato, tanto da diventare antieconomica la sua coltivazione. Emblematico è l’episodio raccontato da Tito Livio circa un carico di grano proveniente da Cartagine e diretto in Sicilia. A conti fatti il ricavato della sua vendita non sarebbe bastato a pagare il costo del pedaggio e della mano d’opera necessaria per scaricarlo, tanto da indurre i commercianti importatori, di lasciarlo interamente nelle stive della nave come pagamento all’ammiraglio. Alla luce della mutazione della domanda del mercato, va da sé che la scelta di produzione dei beni agricoli da parte degli agricoltori siciliani, venne indirizzata su un altro genere di prodotti. Pertanto si dovettero adattare le colture dei campi alla domanda delle nuove classi sociali divenute più abbienti grazie alle conquiste di nuove e sempre più numerose nazioni. Si incremento’ così la produzione di olio d’oliva e si impiantarono nuovi vitigni. Nel campo dell’enologia, i Romani, diventati i padroni del mondo, dediti, come si evince dal “De re rustica” di Columella, ormai ai piaceri della tavola più che ai doveri nei confronti dello Stato, potevano inventarsi nuove figure come quella del degustatore di vini, chiamato “haustores”. Non ci soffermeremo sulla professionalità maturata in tempi non sospetti da questa antica figura che farebbe impallidire gli odierni sommelier a cui non era certo da meno. Per quanto riguarda la vinificazione, già nel periodo augusteo vengono contati decine di qualità di vino per colore, sapore e gradazione: vinum porpurum, sanguineum, album (bianco)… vinum dulce, vinum pretiosum (morbido), vinum humecti (insaporo), consistent, solidum… Come sopra affermato, i Romani prediligevano vini di lunghissimo invecchiamento, come per il Falerno che non si beveva prima di dieci anni d’invecchiamento o i vini di Sorrento invecchiati fino a venticinque anni. Questi due esempi ci fanno comprendere come la vitivinicoltura fosse diventata appannaggio di una classe abbiente che poteva permettersi lunghe attese per ottenere poi un lauto profitto economico. Lo stesso fenomeno si riprodurra’ durante il basso Medio Evo. In questo periodo, tutt’altro che buio, come si evince dal prestigioso trattato posto in essere dal Barone Arnaldo Spitaleri, Mille Anni di Storia Dei Migliori Vini dell’Etna, si evince che erano gli Ordini Cavallereschi Monastici, in particolare Templari e Ospitalieri oltre che i monaci Benedettini, ad avere il monopolio della coltivazione gradita al gioioso e giovane Bacco.
Concludendo il nostro excursus con la citazione del dio più gradito all’opulenta civiltà cristiana, la quale mutuandolo dal biblico re Melchisedek, millenni fa inserì durante lo svolgimento di in un rito questo felice quanto controverso prodotto della natura, a noi che è stato concesso di fare un tuffo nella Sicilia degli Avi, di inoltrarci tra i secolari boschi di querce e noccioleti, tra le fenditure delle pluri millenarie rocce di arenaria che si ergono come testimoni e in pari tempo custodi di storie umane e divine, piace credere che le rigorose divinità sicane, sorseggiando un rosso dell’Etna, osservino divertite, dalle antidiluviane vette dell’Orgale e della contrada Crasa’, luoghi fiabeschi del territorio di Castiglione di Sicilia dove esse si sono ritirate, gli ebbri Satiri al servizio di Bacco, inseguire per gli ordinati filari di viti che con sicura geometria attraversano i vulcanici pendii, le giovani Ninfe pigiatrici.
Ad maiora