Le inspiegabili tecnologie degli antichi.
Perché Lui? si chiederà frastornato il lettore! Perché interessarsi a lui? nessuno lo conosce! né grandi gesta da lui compiute lo pongono al vertice del Pantheon siciliano. Perché i grandi burattinai non calcano mai la scena! risponderemo noi. E ancora perché egli è un dio siciliano che incarna il carattere degli umani abitanti dell’isola sua: calmo, silenzioso e impassibile convitato di pietra, osservatore degli eventi; prende incondizionatamente le decisioni sulla base oggettiva dei fatti che determinarono il nefasto cambiamento.
Nelle gesta degli Argonauti, così come vengono raccontate da Apollonio Rodio, sembrerebbe che Eolo assuma piuttosto le sembianze del deus ex machina, o per restare nell’ambito del cliché siciliano, del padrino che, lucido organizzatore delle azioni che porteranno al successo dell’impresa, pianifica un programma che i sottoposti dovranno attuare attenendosi scrupolosamente ad ogni suo comando. E poi, come vedremo, egli è il silenzioso custode di indefinite potenze che risiedono nel triangolo divino che è la terra di Trinacria; forze occulte che si palesano nel significato del toponimo apposto all’isola. Ebbene, in questa sede indagheremo le qualità di queste forze celate e i parallelismi che pongono la Trinacria e la civiltà sumerica sullo stesso piano di conoscenze.
Eden e Abzu.
Ritenendo inopportuno tornare su quanto è stato indagato circa la sede di questi due luoghi, citati nelle tavolette sumeriche – identificati come un paradiso il primo e un laboratorio sperimentale il secondo-, rinviamo il lettore che volesse approfondire le proprie conoscenze all’articolo: “Dalla Colchide alla Sicania” pubblicato in questo pregevole sito; diamo pertanto per acquisito che il primo fosse ubicato in Mesopotamia e il secondo nel Mediterraneo, dove la terra di Trinacria risulta la candidata più probabile, tenendo conto che né l’isola né il Mediterraneo, avevano a quell’epoca la odierna conformazione. Nell’indagine risalterà subito all’occhio vigile del ricercatore, il parallelismo che intercorre tra la Mesopotamia e la Sicilia, ovvero tra l’Eden e l’Abzu, luoghi in cui si riscontra la presenza di incomprensibili forze di cui diremo più giù, forze che vengono sottratte dai nipoti ai legittimi proprietari.
Le potenze sottratte.
In Mesopotamia, su alcune fra le migliaia di tavolette ritrovate, sulle quali è stata incisa la storia della civiltà sumerica, si apprende che il dio Enki, figlio di Anu, era in possesso di indefinite forze chiamate me. I me vennero sottratti al dio delle acque Enki, attraverso artifizi da femmine, dalla astuta quanto ambiziosa nipote Innanna, la quale aspirava ad avere un regno mondano tutto proprio.
In Sicilia il maltolto era rappresentato da un manto, montone o vello d’oro, che però, se bene abbiamo interpretato il significato del toponimo Trinacria, rappresentava soltanto una delle tre potenze che erano custodite nell’isola, alle quali torneremo. Anche nella sottrazione del vello siciliano – lo definiamo siciliano in quanto era stato ideato o custodito da Eolo, e per altri motivi ancora, che spiegheremo oltre-, come nel furto dei me sumerici, sono coinvolti i nipoti delle divinità gabbate. La coincidenza della presenza dei nipoti coinvolti nel furto – di furto del vello d’oro parla esplicitamente il re Pelia nel momento in cui riferisce a Giasone che da quando il vello era stato trafugato, la terra su cui governava era stata impoverita- ci fu subito sospetta. Per ciò che concerne questi oggetti misteriosi, portatori di poteri o di imprecisate forze, del vello d’oro in particolare, sottratto a Eolo in Sicilia, la cui privazione, ricordiamolo, impoveriva la terra, ci chiediamo: il vello era nella semplice disponibilità del dio siciliano, o forse egli ne era il realizzatore? A dir il vero ciò poco influirà sulla ricostruzione dei fatti qui tentata. Comunque sia, la dimora del mitico Eolo era tradizionalmente collocata presso il vertice orientale del triangolo formato dal perimetro dell’isola siciliana. Apollonio Rodio, nel suo poema Le Argonautiche, pone la sede dei Feaci, a cui gli Argonauti si rivolgono dopo il recupero del vello e a cui forse lo consegnano, nell’estremità occidentale della triangolazione di forze che vi erano, e oseremmo dire persistono, in Sicilia. Le tre estremità del triangolo siciliano corrispondono a Capo Peloro ad oriente, Capo Lilibeo a occidente e Capo Passero a sud-est. Tra le pieghe del racconto di Apollonio Rodio, in due episodi del poema Le Argonautiche, si riesce ad individuare le coordinate geografiche dei luoghi in cui le tre forze sarebbero state collocate in Sicilia. Due dei tre luoghi sono stati sopra citati: Drepane o capo Lilibeo, che rappresenta una delle dodici sedi occupate dai Feaci, come viene sostenuto da Alcinoo nell’Odissea rivolgendosi a Ulisse, e Capo Peloro o isole Eolie, sede del vello d’oro. Va da sé che la terza forza doveva trovarsi nei pressi del terzo angolo del triangolo siciliano: Capo Passero, vicino Siracusa. Questo ultimo luogo risulta altresì coincidente – se si fa passare la ricostruzione del naufragio di Ulisse da noi esposta in altri luoghi- con Siracusa. Scorrendo l’Odissea, si apprende che i Feaci di Siracusa confidarono ad Ulisse che le loro navi (intendasi mezzi di spostamento non necessariamente, o non solo acquatiche) venivano manovrate con il pensiero, non utilizzavano remi. Risulta, dunque, in Omero, ma anche in Apollonio, in quanto il vello era servito a trasportare i due nipoti di Eolo nella Colchide viaggiando per aria, che i Siciliani erano in possesso di tecnologie avanzate, funzionali ad attuare spostamenti veloci per mare, grazie a navi senza remi, e per aria grazie a non meglio identificati mezzi di trasporto, e, forse, anche attraverso la terra, grazie a sospetti veloci carri cui si fa spesso menzione nei poemi.
Ci chiediamo dunque se gli avi nostri, utilizzando il toponimo Trinacria, volessero consapevolmente riferirsi al territorio che ospitava forze capaci di interagire con l’aria, la terra e l’acqua o si riferivano a forze di altro tipo, magari spirituali. La domanda apparirebbe pertinente se si accettasse la traduzione del toponimo ottenuta grazie al metodo da noi elaborato e ormai noto ai lettori.
In tal caso il toponimo potrebbe nascondere tra i diversi significati, anche quello di “le tre potenze celesti” o “le tre forze dell’avo”. Tenendo conto che la lingua sicana era agglutinante, potremo scomporre il toponimo come di seguito: tri con il significato di tre, an con il significato di cielo o Avo, e kr nesso consonantico che nella lingua nord europea indica una forza, che applicata su un oggetto ne produce la rottura, da cui la derivazione del suono onomatopeico delle parole crac, crepa, crampo ecc.
I “ME” delle Tavole Sumeriche.
Ritornando a quanto affermato sopra, tenendo conto di quanto difficile sia approcciare una visione del mondo appartenente a genti che vissero in un periodo storico così distante dal nostro, facciamo rilevare al lettore, che gli indizi afferenti alla presenza di tre potenze presenti nell’isola di Trinacria, ci portano alle non meglio identificate, ma equivalenti forze presenti a Sumer, chiamate “me”. Seguendo il contenuto di una tavoletta sumerica che fa riferimento alla confusione delle lingue, si apprende che la sede di queste forze si trovava su una montagna; assente nelle immense distese del territorio sumerico. I me, viene affermato nel testo, erano nella disponibilità del dio della saggezza Enki. Questo dio, assieme alla sua compagna Ninkhursag, aveva scelto di abitare in un luogo chiamato Dilmun. Questo luogo si trovava nell’Abzu. Nell’Abzu la coppia divina conduceva ricerche di natura botanica col fine di soddisfare le esigenze di approvvigionamento alimentare del genere umano, che si moltiplicava a dismisura, motivo per cui, su una tavoletta, fra i molti appellativi apposti ad Enki appare quello di dio dell’abbondanza. Si ricorderà il lettore, che gli antichi miti greci attribuivano a Demetra l’invenzione del grano, la quale aveva la sua sede a Enna, in Sicilia. Ora, si potrebbe supporre che il furto dei me sumerici e quindi il racconto che è stato elaborato in Mesopotamia, potesse derivare da una trasposizione del racconto del mito siciliano che raccontava della sottrazione del vello o viceversa, oppure si potrebbe ritenere che i due episodi siano indipendenti l’uno dall’altro. Potrebbe allora tornare utile fare dei paralleli con i tempi a noi contemporanei, in quanto la natura umana rimane invariata nonostante il trascorrere dei millenni, e richiamare i moderni casi di cronaca in cui le Nazioni, servendosi di organi occulti, intraprendono azioni di spionaggio nel tentativo di carpire informazioni ai concorrenti stranieri. Nel racconto sumerico a cui si è dato il nome di Enmerkar e il signore di Aratta, nella traduzione del sumerologo Giovanni Pettinato, si legge di una ambasceria: l’ambasciatore inviato al signore di Aratta, avverte quest’ultimo, che il proprio signore di Uruk, che egli definisce “drago che vive a Sumer”, è in grado di polverizzare le montagne come farina. Il lettore é a conoscenza del significato etimologico che abbiamo attribuito (Glossario Etimologico delle lingue antiche, gratuitamente fruibile nei siti www.miti3000.eu – www.adranoantica.it) ai nessi consonantici dr+gr che formano il metaforico nome dell’animale inesistente in natura, per cui questa definizione apposta ad Enmerkar sarebbe suonata metaforicamente minacciosa al signore di Aratta. Ma il signore di Aratta, sicuro di sé, risponde al l’ambasciatore che la regina del cielo Innanna, la quale possiede i “lussureggianti me” (sottratti allo zio, dio Enki) sta con lui. Di conseguenza la sua sottomissione al re di Uruk è fuori discussione.
L’Onomastica decriptata.
Purtroppo nulla conosciamo della storia pre greca siciliana, né della teogonia avendo i Greci cancellato ogni reliquia sicana; tranne che dell’onomastica, rimasta quasi invariata. Ora, facendo nostra l’affermazione del noto sumerologo Giovanni Pettinato, il quale con umiltà e onestà intellettuale riconosce quanto poco agevole sia l’esatta interpretazione dei testi sumeri, riteniamo nostro dovere mettere in guardia il lettore affinché accolga col beneficio dell’inventario anche il modesto nostro tentativo di decriptare l’onomastica sicana.
Lo spazio e le potenze che lo percorrono.
Abbiamo appreso dalla mitologia, che Eolo veniva definito dio dei venti e che aveva la sua sede all’estremità nord orientale della Sicilia. Valutando più attentamente il ruolo del dio dei venti nell’ambito della teogonia sicana, per quel poco che ne sappiamo, riteniamo opportuno conferire a Eolo il ruolo di una divinità che sovrintende allo spazio, intendendo per spazio quella dimensione che sta tra il cielo e la terra e dove, per l’appunto, si formano le correnti d’aria dette venti. Il nome Eolo tradirebbe infatti questo suo ruolo poiché lo si può far derivare da Hell, nome con il quale nella lingua nordica si indicava lo spazio in cui si pensava albergassero delle ingovernabili forze extrafisiche, seppure di ordine spirituale. Anche Cicerone fa riferimento a questo luogo nel suo trattato De Divinazione quando afferma che in quel luogo vagano le anime degli antenati. A Sumer Enlil, il cui nome ha molta assonanza con quello del dio siciliano, si trovava, dopo suo padre Anu, al vertice del Pantheon e veniva considerato, guarda caso, il dio del vento e dell’aria. Il nome della nipote di Eolo, Helle, poi, risulta aderire ancora meglio alla ipotesi sopra esposta. A questo punto dell’indagine si potrebbe supporre che Eolo, avesse potuto affidare alla nipote Helle una missione segreta, quella di recarsi nella lontanissima Colchide, sulla costa orientale del Mar Nero, identificata con l’attuale Georgia, terra ancora oggi fitta di mistero e abitata da sciamani. Per compiere il viaggio, il dio che controllava lo spazio aereo, forniva la nipote Helle di un non meglio precisato veicolo, un montone che si spostava per l’aere. Il veicolo veniva chiamato Ve Hell cioè vello, ovvero traducendo verbum pro verbo “il sacro spazio”, da hell spazio e ve sacro. Che questo oggetto misterioso fosse stato realizzato con delle leghe metalliche tra le quali figurava l’oro, o la ricerca dell’oro fosse l’obiettivo del viaggio di Helle, allo stato della ricerca non ci è dato congetturare. Una cosa appare comunque probabile, che tra la Mesopotamia e la Sicilia, le relazioni erano in corso da lungo tempo, altrimenti non si spiegherebbe il viaggio di Helle in Colchide se questo luogo fosse stato completamente sconosciuto ai Siciliani. Un altro indizio che i testi antichi ci forniscono a conferma delle relazioni esistenti fra le due aree geografiche, deriva dal fatto che Circe, sorella del re della Colchide, ancor prima che Helle venisse inviata in missione nella perduta patria di Circe, aveva posto la sua sede sul monte Circeo, nel centro Italia. Circe era fuggita dal fratello Eeta; il motivo della fuga non lo conosceremo mai, ma il fatto che come luogo del suo esilio la maga scegliesse il centro Italia, corrobora la tesi secondo la quale esistevano relazioni tra l’est e l’ovest, tra la Sicilia e la Colchide, ancor più dal momento che Circe manda sua nipote Medea, in possesso del vello rubato al padre, dai Feaci. Il viaggio di Helle verso il Mar Nero si concluse però con un fallimento a causa di un incidente di percorso (guasto del velivolo?) in cui la giovane perse la vita precipitando nel mare, che da lei prese il nome di Helles Ponto. Il fratello Frisso, che viaggiava assieme alla sfortunata, raggiunse comunque la Colchide. Poiché il giovane venne ucciso dal suocero poco tempo dopo le sue nozze con la figlia Calciope, – forse si trattava di nozze determinate da ragioni di stato- dobbiamo supporre che l’operazione diplomatica finisse con un nulla di fatto, motivo per cui, Eolo fu costretto a ripetere subito dopo l’operazione, utilizzando questa volta le maniere forti, inviando, cioè, un esercito formato dai migliori eroi raccolti da tutto il Mediterraneo, alcuni (secondo Apollonio, che era greco, gli eroi erano tutti Greci) provenivano dall’Hellade cioè dalla Grecia, molti dei quali erano nipoti e pronipoti di Eolo. Anziché per via aerea, questa volta Eolo fornì agli eroi una nave, che come quelle possedute dai Feaci, di cui parla Omero nell’Odissea, aveva qualità fuori dalle consuete tecnologie nautiche dell’epoca: Argo, così venne chiamata la nave, avrebbe avuto una specie di radio di bordo, poiché ad un certo punto del racconto, Apollonio fa parlare l’imbarcazione. Grazie anche al contributo di alcuni nipoti di Eolo figli di Frisso, che si trovavano nella Colchide, l’equipaggio formato dai nipoti chiamati Argonauti, riuscì ad entrare in possesso del Ve Hell. L’equipaggio, con qualche perdita, rientrò in Sicilia con il bottino di guerra. Il fatto che gli Argonauti, che Apollonio Rodio, come si è detto lascia intendere fossero tutti Greci al servizio di Pelia re di Jolco, si dirigessero a Trapani dai Feaci, piuttosto che in Grecia o nell’isola dove Eolo aveva la sua reggia, pone l’enigma se la partenza degli Argonauti, che Apollonio fa avvenire da Ortigia, non fosse avvenuta dall’isolotto siracusano che porta appunto questo nome. Comunque siano andate le cose, l’episodio lascia presupporre che l’isola di Sicania o Trinacria, fosse popolata ancora in quel momento, da genti che formavano una monolitica coesione politica e probabilmente etnica. Questa ultima analisi verrebbe corroborata da un altro episodio svoltosi in Sicilia quasi in contemporanea ai fatti qui raccontati: un altro terribile aggressore, Minosse, re di Creta, veniva reso innocuo dal tentativo di assoggettare la Sicilia da un ignorato quanto potente principe sicano, Kokalo. Vogliamo far notare all’attento lettore, che i re Sicani, che governavano in quel frangente la Sicilia, alcuni dei quali erano Alcinoo, Kocalo, forse Eolo ecc. dissuasero i potenti eserciti di Eeta, re dei Colchi e quello di Minosse dai loro propositi bellicosi, senza utilizzare armi convenzionali, cioè non furono combattute guerre né per mare né per terra, ma gli aggressori semplicemente desistettero dai loro bellicoso propositi. Quali tecniche di persuasione erano in grado di mettere in atto i Siciliani di allora? Gli sventati combattimenti messi in atto dai principi sicani sono da attribuire alla feconda oratoria siciliana che prenderà successivamente corpo nella scuola del siciliano Gorgia? può darsi, ma non può essere qui ignorato il parallelismo che corre con il signore di Aratta in possesso dei misteriosi me sumerici, di cui si è detto sopra, e ci si chiede quale potente deterrente abbiano messo in campo i re sicani per scoraggiare gli aggressori. Ritorna perciò prepotente la domanda: di quali forze dissuasive disponevano i Siciliani? Un residuo di tali forze o di conoscenze per crearne di nuove, si era forse tramandato per vie occulte fino alla storia recente? fino a quando cioè Archimede, da solo riuscì a ostacolare l’ingresso nella Polis agli agguerriti eserciti romani grazie a certe “macchine” da lui create nel III sec. a.C.; macchine che nessuno tra gli storici dell’epoca è stato in grado di descrivere con esattezza, tanto da fare spingere qualche studioso a ipotizzare che perfino il meccanismo di Antichitera, una sorta di computer di bordo dell’età del bronzo ritrovato in una nave affondata, fosse opera dello scienziato siciliano; ed ecco che torna alla mente la nave Argo con la sua radio di bordo. Appare altresì sospetto, che le formidabili armi create per rendere invincibili gli eroi, spesso dèi e semidei, venissero forgiate in Sicilia presso il monte Etna, ritenuto la fucina di Efesto.
Il Tempio di Anu a Dilmun nell’Abzu (?)
Singolare è ancora, che di questo dio fabbro siciliano, Efesto, nel racconto omerico venga affermato che avesse forgiato “(…) due ancelle d’oro, in tutto simili a giovinette vive.. che hanno forza e favella (..,) ” Iliade XVIII. Ma a proposito del monte Etna, è il caso di fare una breve digressione su di esso, in quanto nei testi sumerici ritorna spesso una montagna in cui si recavano spesso gli dèi, pur non esistendo montagne nel territorio di Sumer, tanto che furono innalzate colline artificiali. Al contrario, in Sicilia, non solo la Montagna era nota fra i popoli delle coste mediterranee — nel quattromila a.C., secondo l’affermazione degli studiosi, a causa di una sua parziale implosione, la parte crollata sul mare, aveva provocato un maremoto le cui onde erano giunte fino alle coste dell’Egitto, sommergendo la città di Atlit yam — ma alle sue falde era stato edificato un tempio ad Ano, aggettivato furioso, odhr, famosissimo e, come afferma Plutarco nella vita di Timoleonte, vi affluivano numerosi i pellegrini, provenienti da tutta la Sicilia. Ancora oggi, sebbene la desertificazione in corso ne ha ridotto notevolmente la portata, corsi di acqua dolce, fonti, cascate e fiumi caratterizzano il luogo in cui venne edificato il rinomato tempio. Va ancora aggiunto che il dio Enki, che aveva portato la sua dimora a Dilmun nell’Abzu, luogo delle sue sperimentazioni, era soprannominato acqua, Ea nella lingua sumerica.
Da Est a Ovest.
Tornando al titolo introduttivo di questo breve saggio e alla tesi iniziale, secondo la quale dal Mediterraneo, con la Sicilia quale possibile luogo di propagazione, isola questa, in cui la documentata evoluzione dalla preistoria ai giorni nostri, colma l’incolmabile vuoto cronologico esistente invece in Mesopotamia, dove l’assenza di una evoluzione non giustifica l’improvvisa nascita delle “moderne” città delle ziggurat, una civiltà si sarebbe spostata da ovest verso est, lasciando lungo il suo percorso una moltitudine di indizi storici comprovanti la suddetta avanzata; indizi sul piano culturale, etnico, linguistico, epigrafico che, come le onde provocate da una pietra gettata in uno stagno, si affievoliscono man mano che ci si allontana dalla sede iniziale. Indizi dell’esistenza di una cultura sovrapponibile a quella siciliana si ritrovano abbondanti in Siria, a cominciare dall’antichissima città di Ebla, il cui nome riconduce alle diverse Hible sicule, indizi si ritrovano nel significato del nome Baal, il Signore, il cui appellativo riconduce alla sicula valle (Belice) intitolata ai figli dell’ Anu siciliano, dove dai Sicani veniva appellata furioso. Non più indizi ma prove, si trovano incise su di una tavoletta sumerica a cui si è dato il nome di Lista dei saggi: facendo riferimento ai sette upcalli collegati al dio della saggezza Enki, si legge nella tavoletta, che i saggi si spostarono in oriente provenendo dal mare occidentale (Mediterraneo?), uno dei sette saggi si chiamava Oannes. Questo individuo, definito uomo pesce, forse per la maestria con cui solcava i mari, secondo quanto affermato da Beroso, un sacerdote babilonese dell’epoca di Alessandro Magno, portò la civiltà a Babilonia. Questa civiltà superiore esisteva dunque da prima e altrove. Nella stessa tavoletta si legge ancora che, l’apkallu, cioè il saggio, Nungalpiriggal fece scendere dal cielo nell’Eanna la dea Innanna, equivalente della dea Isthar assira e della greca Persefone, la quale fece costruire una lira di bronzo per Anu. Sia la lira che l’ effige del dio Anu, in Sicilia appellato il furioso, Adrano, sono rappresentati su monete sicule coniate nella zecca della antichissima città di Adrano, la Uruk siciliana, mentre non possiamo non fare la seguente curiosa constatazione: al centro della Sicilia esiste la città di Enna in cui il mito vuole sia avvenuta la discesa agli inferi di Persefone – Innanna. Potremmo continuare all’infinito con le analogie ma concludiamo citando la città di Assoro, facendo notare al lettore l’assonanza del nome con quello che indica il popolo degli Assiri.
L’Oriente come base logistica.
Gli antichi, nel chiedersi come mai il sole che si tuffava al tramonto nel mare occidentale, risorgesse poi dai monti orientali, si dettero la logica risposta che il sole, nel periodo notturno, ripercorreva in senso inverso la terra, invisibile agli uomini in quanto rifaceva il percorso di notte e dalla parte opposta. Ispirandoci a questa intuizione, immaginiamo che la civiltà, un percorso “notturno” lo abbia intrapreso in illo tempore in senso orario, con la variante che noi, col nostro lavoro di ricerca e decodificazione della metastoria, intendiamo gettare luce su ciò che è avvenuto nel buio dei millenni trascorsi. Per finire, lasciando la conclusione al lettore, riportiamo un passo del poema sumerico intitolato Enmerkar ed il signore di Aratta, in cui si legge che: ” l’Eanna di Uruk fu prescelto (..) quando Dilmun non esisteva ancora, quando l’Eanna di Uruk fu fondato (…) Oro, argento, rame, stagno, lapislazzuli (…) non erano stati portati giù dalla montagna”. Da parte nostra interpretiamo il passo riportato, che seppur presentando qualche lacuna non cambia il senso generale del messaggio, come se pur esistendo diversi luoghi chiamati Eanna, una sorta di reggia-tempio-fortezza venisse “prescelto” quello di Uruk in quanto lo si riteneva funzionale allo scopo. È presumibile che lo scopo consistesse nello sfruttamento delle risorse minerarie sopra menzionate; l’Eanna avrebbe dovuto fungere dunque da base logistica in cui sarebbero stati installati stabilimenti per la lavorazione dei metalli estratti. La creazione di basi ad alta densità lavorativa, spiega altresì come mai le città mesopotamiche venissero edificate improvvisamente e fossero concepite già moderne, complete e autosufficienti in un’area prima ignorata da qualsiasi civiltà. Le città sumere appaiono prive di una preistoria! È vero, invece, che la civiltà che avrebbe costruito le basi doveva esistere altrove, come viene esplicitamente affermato nel mito babilonese di Oannes. Crediamo pertanto, che alla fine della glaciazione, essendo le condizioni orografiche del pianeta mutate, come conferma la paleoclimatologia, la quale sostiene che ottomila anni fa il livello dei mari era più basso di circa centoquaranta metri, consentisse gli spostamenti umani. Divenne possibile allora, che nei nuovi insediamenti venissero trasferite e applicate le conoscenze architettoniche e tecnologiche, nonché la toponomastica della civiltà madre. La Sicilia, per l’acclarata presenza di una civiltà antidiluviana nel proprio territorio, evidente anche dalla presenza delle pitture parietali nelle grotte dell’Addaura e di Levanzo, per la presenza di ceramica, opere ciclopiche e per una serie di indizi sopra riportati, è, dunque, candidata ad essere il centro d’irradiazione della civiltà mediterranea.
Ad maiora.
Glossario etimologico.
DILMUN. È il luogo in cui Enki e sua moglie hanno preso dimora e dove svolgono esperimenti di botanica. Il toponimo potrebbe essere formato dall’unione dei lessemi Dell, nascosto, celato e mun mente, pensiero creativo. Il toponimo si presta ad immaginare un luogo celato in cui si effettuano ricerche sperimentali. In Sicilia veniva praticato un culto ai figli di Anu, appellato Odhr il furioso. I figli di Anu venivano appellati, oltre che Palici, cioè i signori (Baal), Delli, cioè i nascosti.
EANNA. Comunemente viene interpretato dai sumerologi quale luogo in cui il dio Anu aveva la propria reggia. Traducendo il lessema verbum pro verbo si ha la sequenza acqua-antenati, lasciando così immaginare un luogo circondato dalle acque. In Sicilia, al centro dell’isola esiste una città chiamata Enna. Un mito narra che in questo luogo, protagonista il lago presso la rocca, avvenisse il ratto di Proserpina. Questa dea greca corrisponde alla dea sumera Innanna nipote di Anu. La conformazione di questo luogo farebbe pensare che con il nome Eanna si intendesse indicare un luogo naturalmente fortificato.
VELLO. L’etimo è composto dal lessema ve che significa sacro e Hell con il quale si indica lo spazio. Con il termine si sarebbe potuto indicare un’area circoscritta e, forse, non accessibile a chiunque: uno spazio vietato.