La presenza in Sicilia di un elevato numero di vasche scavate nella roccia calcarea, in luoghi difficilmente accessibili, ha incuriosito da sempre gli studiosi. La domanda per quale uso fossero state realizzate, nacque spontanea. Se alcune di esse furono riadattate a palmenti rupestri in un momento di recessione economica dell’isola subito dopo la Grande Guerra, non toglie nulla alla domanda posta dagli studiosi che rimane ancora senza risposta. Noi, come di abitudine, desideriamo condividere con gli affezionati lettori dall’ampia prospettiva, studi, ricerche e intuizioni maturate attraverso l’osservazione del vasto fenomeno rupestre.
Il Rito.
Se dovessimo scegliere di sostenere l’ipotesi che maggiormente viene condivisa dagli studiosi, la realizzazione delle vasche dovrebbe avere avuto come fine lo svolgimento di riti ancestrali. In questo caso non dovrebbe passare inosservato il contenuto di un passo dei Veda, il testo sacro degli Indiani, in cui, inneggiando alla madre terra, si fa riferimento ai sacrifici di vario genere. In uno degli inni – AV, XII,I- viene detto: “Su di lei (la terra) sono eretti la piattaforma e i ripari per l’oblazione; su di lei è innalzato il palo sacrificale”.
Alla luce di quanto affermato nel citato inno vedico, per comparazione, dovremmo spingerci ad ipotizzare che i buchi osservati nella roccia, in numero di tre, ai margini delle vasche rupestri, numerosissime nella Sicilia orientale, di cui siamo venuti a conoscenza diretta, potrebbero essere serviti per introdurvi il palo a cui legare la vittima sacrificale. In questo caso, dunque, l’utilizzo delle vasche, profonde circa trenta centimetri, delle quali la seconda ha un dislivello di una cinquantina di centimetri rispetto alla prima e comunicanti tramite un foro, avrebbero dovuto avere il ruolo di altari, di are sacrificali.
Tradizionalmente, proprio con il nome di Ara degli dèi Palici, viene indicata, presso la città di Adrano, la roccia che
la natura ha posto sul letto del fiume Simeto, in cui sono state ricavate due vasche. Una domanda che ci si pone, nel caso in cui si volesse costruire una ipotesi alternativa a quella di ruolo di ara delle vasche, è quella se queste, generalmente sempre in numero di due e sempre orientate verso il polo magnetico, raramente in numero di tre o di una, avessero lo scopo di contenere acqua?
Ebbene, nel caso in cui volessimo dare una risposta affermativa alla legittima domanda, per avere delucidazioni sul tipo di acque utilizzate, dovremmo ricorrere alle informazioni fornite dallo storico Erodoto e al geografo Strabone. Quest’ultimo, nel suo trattato, Geografia, nel libro III,1,4, descrivendo una località presso Gibilterra, in Spagna, una sorta di Stonehenge iberico, fra le righe di quanto afferma, ci aiuta a comprendere che non tutte le acque potevano andar bene per il rito che si voleva svolgere.
Ciò ci porta a comprendere, sulla scorta di quanto sarà detto più avanti, il motivo della presenza di un modesto canale profondo qualche centimetro, scavato nella roccia in cui venivano ricavate le due vasche, a monte e ai margini della vasca superiore. La presenza di un canale scavato attorno ad un altare è attestata nell’Antico Testamento in Re 18, ove si apprende che è il profeta Elia a realizzarlo. Seppure nel testo biblico non emerge lo scopo per cui il canale viene realizzato, nel caso delle vasche siciliane, il suo scopo appare invece chiaro, come si evidenziera’ più giù. Ma torniamo a Strabone. Il geografo afferma che, chi desiderava visitare il luogo da lui descritto nel suo trattato o andarvi per compiere sacrifici, mancando in quel luogo l’acqua, doveva portarla con sé. Questo passo, letto da chi è privo di una predisposizione all’indagine, potrebbe far credere che la necessità di portare l’acqua con sé derivasse dalla desertificazione del luogo. Ma, avendo verificato in diverse occasioni quanto il geografo fosse insensibile e disattento ai fenomeni che esulavano dai propri interessi di geografo, e, mettendo insieme il passo di Strabone con quello di Erodoto – Storia, I,188-, si comprende che le cose non erano poste in questi termini.
Conoscenze scientifiche dei magi della Persia.
Erodoto, vissuto nel V sec. a.C., nel suo trattato, in riferimento al re persiano Ciro, afferma che il Gran Re, durante le lunghe campagne belliche, era solito portare con sé e per proprio uso, su moltissimi carri tirati da muli, contenuta in vasi d’argento, l’acqua del fiume Coaspe bollita. Ritenendo impossibile che il Gran Re potesse bere quelle enormi quantità d’acqua e ritenendo un inutile spreco ed ingombro che essa fosse contenuta in vasi d’argento piuttosto che in otri di pelle; soffermandosi sui particolari che indica Erodoto riguardo al tipo di metallo dei vasi in cui era contenuta l’acqua, appunto l’argento, e che questa fosse preventivamente o successivamente bollita, induce piuttosto a pensare che quell’acqua fosse funzionale ad esercitare pratiche che stavano al confine tra l’esercizio del sacro e quello della chimica. Infatti, è noto che i Magi persiani, sempre al seguito del Gran Re, erano esperti in molte discipline, tra queste anche quella dell’astronomia. Non si può escludere, dunque, che i Nostri avessero nozioni anche di chimica e di fisica.
L’attento lettore che ci ha seguito nel percorso storico finalizzato a svelare le profonde radici siciliane, si ricorderà, infatti, dell’ipotesi avanzata in articoli precedenti, sulla funzione dei numerosi menhir presenti nell’isola, per formulare la quale ci siamo avvalsi degli approfonditi studi di archeoacustica del prof. Debertolis. Il noto fisico, oltre che insegnare discipline scientifiche nella Università di Trieste, guida una prestigiosa equipe di scienziati con la quale ha raccolto dati in moltissimi templi preistorici sparsi per il mondo, mettendo in evidenza che in quei templi venivano applicate insospettate conoscenze di acustica. Lo studioso, a conclusione delle sue osservazioni scientifiche, si convinse che i costruttori dei templi avevano utilizzato le vibrazioni e le onde elettromagnetiche sprigionate dal sottosuolo per ottenere determinati effetti sulla corteccia cerebrale dei frequentatori dei templi. Ebbene, per comprendere il possibile utilizzo delle nostre vasche, abbiamo invece scomodato Ohm e le sue leggi sull’elettricita’, che però risparmiamo di esporre ai nostri lettori.
Tornando ai magi al seguito di Ciro e all’utilizzo dell’argento nell’ambito delle reazioni chimiche in generale, va notato che la medicina moderna è oggi in grado di utilizzare il proteinato d’argento per trattare la gonorrea. A motivo della sua proprietà battericida viene inoltre utilizzato principalmente come antisettico lo ione di argento, Ag+. Ma non è tutto! Siamo a conoscenza che gli scienziati, da oltre quarant’anni, utilizzano lo ioduro d’argento, sparso nelle nubi con aerei Antonov An-26 per provocare la caduta sulla terra della pioggia.
Chi potrebbe dunque, affermare con assoluta certezza, che i Magi al seguito di Ciro, non conoscessero gli effetti chimici dell’argento e di altri composti? È dunque possibile che l’acqua trasportata in grande quantità in vasi d’argento, lo fosse non per motivi di sterile pomposita’, ma affinché essa assumesse migliore conducibilità elettrica. A questo punto dell’indagine non appare infondato il sospetto che il canale scavato lungo il margine delle vasche rupestri siciliane, avesse lo scopo di impedire all’acqua contenuta dentro le vasche rupestri, trattata con una soluzione a base di sali minerali, di venire diluita dall’eventuale pioggia che, scorrendo lungo la parete rocciosa che si trovava a monte delle vasche, precipitasse al loro interno. Infatti, si sa che l’acqua piovana, priva di sali minerali, è un pessimo conduttore di elettricità.
Che gli antichi avessero nozioni di chimica applicata, è deducibile dalla consultazione delle antiche fonti letterarie. Grazie allo storico greco Polibio, per esempio, si sa che i Cartaginesi, durante il passaggio delle Alpi erano in grado di liberare la via ostruita da rocce calcaree, sfaldandole. Ottenevano questo effetto riscaldando con il fuoco la roccia per poi gettare sopra del semplice aceto.
Vasche comunicanti rupestri. La chimica nella preistoria.
L’elettrolisi dell’acqua è un processo elettrolitico nel quale il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell’acqua in ossigeno ed idrogeno gassoso.
La corrente esce dall’alimentatore (un menhir nelle vicinanze o la stessa roccia su cui è ricavata la vasca rupestre? ) e riesce a fluire nei due cilindri (vasche?) grazie alla soluzione elettrolitica. Ci chiediamo: nel caso delle vasche rupestri, ammesso che sia credibile l’ipotesi dell’utilizzo chimico o elettromagnetico delle stesse, quale potrebbe essere stato il fine della loro realizzazione? Gli studiosi delle sacre scritture, analizzando le vasche rupestri siciliane, potrebbero trovare analogie con l’impiego che fa Elia dell’altare di cui si è detto e meglio esporremo oltre? Non lo sapremo mai con certezza.
Ma siamo convinti, e gli esempi che porteremo saranno loquaci, che gli antichi conoscevano le reazioni chimiche provocate dagli elementi, se opportunamente combinati. Apprendendo dall’Antico Testamento che il profeta Elia riuscì ad accendere un fuoco, gettando sopra a della legna posta su un altare eretto con “pietre” (biossido di manganese?), una certa quantità di “acqua” – I Re, 18-33-, come non concepire la possibilità che il fenomeno dell’accensione del fuoco causata dallo “scienziato” Elia, non potesse essere stata causata da una soluzione chimica a base di biossido di manganese? Ed ancora, ci chiediamo: la pioggia provocata da Elia, come descritto nell’A. T., aveva a che fare con lo ioduro d’argento che i nostri scienziati utilizzano per raggiungere lo stesso scopo ancora dopo tre millenni? Era forse riuscito Elia dove i nostri scienziati hanno fallito?
Tralasciando di soffermarci sui geroglifici di Dendera su cui i pareri degli studiosi sono controversi, i quali sembra che riproducono lampade e rispettivi alimentatori, non possiamo omettere di segnalare ai nostri lettori l’esistenza della pila di Bagdad sul cui utilizzo gli studiosi sono invece concordi. Questa pila, stando agli esperti che l’hanno esaminata, venne realizzata con metodi rudimentali nei primi secoli della nostra era, utilizzando un grezzo contenitore di argilla cotta, rame e ferro e funzionava per elettrolisi. Continuando con gli esempi afferenti alla tesi che gli antichi potessero essere in possesso di conoscenze nel campo della chimica, citiamo ancora la colonna di Indra. Questa colonna realizzata in ferro si trova in India, a Delhi, è antica di mille e seicento anni ed è stata ottenuta da un tipo di ferro che non arrugginisce. Ed ancora, non si trova risposta alla domanda su come sia stato ottenuto il misterioso dicroismo della coppa di vetro di Licurgo. Di epoca romana, questa coppa di vetro è stata ottenuta fondendo microparticelle di oro e argento così piccole da essere visibili soltanto al microscopio. Nel curioso indagatore, osservando i mezzi rudimentali di cui l’autore dei manufatti si è servito per ottenere intricati procedimenti fisici, come per esempio la pila di Bagdad di cui si è detto o le vasche rupestri di cui ci stiamo occupando, concesso che allo scopo rituale di queste vi si possa aggiungere anche quello chimico o elettromagnetico, si fa strada la banale riflessione: forse che ad ottenere simili manufatti siano stati una minoranza di individui, portatori di conoscenze di cui si sono serviti in condizioni di precarietà? magari utilizzando mezzi di fortuna di cui disponevano in un territorio a loro sconosciuto.
Concludiamo la nostra digressione sulle vasche rupestri senza aver trovato una soluzione riguardo al loro certo utilizzo. Ci auguriamo, tuttavia, di essere riusciti a stimolare chi, per autorevolezza e competenza, potrà cimentarsi allo studio del fenomeno, fornendo le risposte a noi precluse.
Ad maiora.
Si ringrazia il presidente di Siciliantica di Castiglione, Salvatore Verduci, per averci fatto da guida tra le sacre vie dell’Orgale e il sindaco di Roccella Giuseppe Sparta’ per l’impegno profuso in seguito alla scoperta della “collina della fertilità”.