Il Matriarcato.
Sugli studi e le opinioni fornite da illustri sociologi e antropologi, circa la visione del mondo che ha interessato alcune civiltà arcaiche, denominata con l’alto sonante appellativo di matriarcato, ben poco abbiamo da aggiungere rispetto a quello che è stato autorevolmente affermato dallo studioso svizzero J. J. Bachofen (Das Mutterrecht, Stoccarda 1861) a cui rimandiamo quanti volessero approfondire l’argomento. A motivo degli interessi più circoscritti che questo breve excursus si pone, ricordiamo soltanto ai nostri lettori che il mito greco afferma come la Sicilia sia stata donata da Zeus a Proserpina quale dono per il suo matrimonio con il dio del sottosuolo Ade. Demetra, a sua volta, fu grandemente onorata per il dono dei cereali che i Siciliani da lei ricevettero per primi. Gli isolani, per ricompensare la dea del dono ricevuto, le tributarono un culto nel territorio di Enna che raggiunse fama in tutto il mondo e fu mutuato successivamente in Grecia e conosciuto con il nome di misteri eleusini. Ad Erice, era famoso il tempio dedicato alla madre dell’eroe Troiano Enea, Afrodite. Nelle recondite sale del tempio della dea dell’amore si praticava la prostituzione sacra, un istituto importato in Sicilia dall’Oriente. In fine, ma non ultimo, ricordiamo la presenza di Cretesi, giunti al seguito di Minosse intorno al XIII sec. a.C. e rimasti nell’isola dopo la morte del loro re. Essi introdussero nelle contrade che abitarono, come afferma Diodoro Siculo, il culto delle madri, erigendo in loro onore splendidi templi. Tuttavia, nonostante le numerose testimonianze mitiche e storiche, alcune delle quali sopra riportate, riteniamo che possa considerarsi patriarcale il culto largamente diffuso nell’isola di Sicilia e minoritario il culto tributato alle divinità femminili, se teniamo in conto il fatto che l’isola derivava il proprio nome dall’Avo Adrano (vedi glossario etimologico della lingua Sicana miti3000.eu), tanto da essere appellata in suo onore come afferma lo storico greco Tucidide, Sicania, ovvero la terra dell’Avo. Ma nello stesso tempo non si può negare che, come sopra affermato, in Sicilia si celebrassero riti di natura agricola propiziatori della fertilità e della riproduzione. Noi siamo fermamente convinti che la collina nei pressi di Roccella Valdemone rappresenti, facendo nostra l’intuizione avuta dalla dott.ssa Tatiana Melaragni, uno dei luoghi più arcaici in cui venivano svolti riti della fertilità legati al culto della dea madre. Il luogo in questione, a motivo della recente scoperta, non è stato ancora studiato dalle autorità competenti a cui lo abbiamo segnalato – si tratta di un’intera collina cosparsa di manufatti simbolici- noi ci siamo limitati ad una ispezione sommaria di parte di essa e tuttavia sufficiente per renderci conto dell’importanza cultuale che il sito ricopre.
Un giudizio sommario sui reperti è stato fornito da archeologi di provata esperienza, sulla base delle foto che abbiamo sottoposte; essi attribuiscono i reperti al periodo eneolitico e le incisioni praticate nelle numerosissime rocce di arenaria, fanno riferimento senza ombra di dubbio all’organo femminile della riproduzione. La scelta della roccia da parte degli artisti nostri progenitori, quale materiale su cui rappresentare l’organo femminile della riproduzione, riconduce al mito greco di Deucalione, presente anche nella mitologia nordica, secondo cui gli uomini sarebbero stati creati dalla trasformazione di pietre, cioè creati direttamente dalla madre terra. In effetti, osservando la posizione del presunto organo femminile della riproduzione inciso nelle suddette pietre, rispetto al terreno sembra che le pietre stiano per partorire e la terra sia lì pronta a ricevere il frutto del loro parto.
Il segno dei tempi.
Il rinvenimento dei manufatti sulla collina che abbiamo battezzata della fertilità,
coincide a nostro avviso con un momento in cui l’elemento femminile ha preso il sopravvento nella nostra tanto discussa società. In essa la donna. mascolinizzata, al centro di malinteso emancipazione e indipendenza irrompe nei settori un tempo esclusivo campo d’azione degli uomini, in quanto ritenuti a lei inopportuni se non sconvenienti perché abbrutenti per loro natura, come quello della politica e degli affari. L’aver involontariamente destato il “genius loci” della collina di Roccella, vorrebbe essere da noi interpretato come un auspicio, affinché il ruolo della donna nella nostra società torni ad essere quello che la natura le ha assegnato, consapevoli che ogni forzatura coincida con una distorsione e provochi una rottura dell’armonia universale.
Il Patriarcato.
Come affermato sopra, il culto dedicato all’Avo divinizzato, in età antichissima si esprimeva anche attraverso il simbolo solare del menhir. Questo simbolo di pietra poteva essere naturale, nel caso in cui nel luogo che irradiava forze solari percepite dagli Avi, vi fosse stata la presenza di una roccia che aveva caratteristiche adeguate, o poteva venire modellato parzialmente o totalmente dalla mano umana. Come si può facilmente constatare, in molte zone del nord Europa, attorno ad un luogo di culto, che, come sopra affermato poteva essere un semplice menhir, si poteva erigere un recinto sacro. Lo scopo del recinto era quello di “contenere” le influenze emanate dal luogo affinché queste non nuocessero chi non era in grado di controllarle.
Mannara Gesuitto: Roccella Valdemone.
Da fonti letterarie, si apprende che un grandioso menhir si trovava nel luogo dove oggi vi è un ovile dismesso, presso Roccella Valdemone.
I muri del recinto adibito ad ovile, sono stati realizzati con ciclopiche pietre. Alla sommità del muro sono poste trasversalmente lastre di calcare del peso di alcune tonnellate – una inspiegabile anomalia per il modesto uso dell’opera, considerando le risorse economiche e fisiche occorse per realizzarla-. L’imponente recinto che per modalità di costruzione richiama i famosi menhir di Carnac,
a quanto affermano gli eredi, fu realizzata intorno agli anni trenta del novecento da don Giuseppe, loro Avo. Non saremo mai in grado di contestare né di confermare quanto asserito dagli eredi, a motivo dei rimaneggiamenti continui che il sito ha subito, non ultimi gli scavi per l’installazione di un metanodotto un po’ più a monte dell’ovile, e l’ inspiegabile atteggiamento ostile dei suddetti eredi nei confronti di chi avrebbe soltanto voluto studiare il sito e ripulirlo dai rovi. Certo è, ed è quello che a noi preme qui stabilire, che il terreno su cui insiste anche l’ovile, venne antropizzato fin da epoca neolitica. Quanto da noi constatato per via autonoma e qui esposto, è stato precedentemente intuito e poi messo per iscritto nel suo libro, dallo studioso astronomo dott. Pantano.
Conclusioni: La collina della fertilità.
Riteniamo, in base alle tracce ritrovate, di cui abbiamo resi edotti i nostri lettori, che l’ampia area archeologica da noi indagata, insistente nell’attuale comune di Roccella Valdemone, sia stata interessata dallo svolgimento di una devozione cultuale e rituale del popolo indigeno dei Sicani. Il culto ivi praticato, verteva sul concetto di complementarità che spesso ritorna nella visione del mondo sicana e di cui abbiamo ampiamente trattato nei nostri molti articoli. È pertanto probabile che il principio virile e solare espresso dal simbolismo del menhir, di cui riferisce il dott. Pantano nel suo studio, trovasse nella contrada Portella Zilla la sua migliore collocazione, mentre più in là sulla collina da noi battezzata della fertilità, a meno di un chilometro dal punto in cui esisteva il menhir, trovava espressione invece il culto dedicato alla dea madre. Se volessimo tentare una interpretazione di carattere metafisico del rito che si svolgeva, potremmo presumere che idealmente, secondo una concezione magico evocativa a cui gli Avi nostri facevano riferimento, si svolgesse una unione sacra tra il divino maschile e quello femminile. Per analogia, la sacra unione tra il dio e la dea, tra il principio virile e quello femminile, ripetuta idealmente tra Cielo e Terra, faceva sì che venisse garantita la fertilità di ogni cosa vivente sulla terra. Una traccia del culto agrario primordiale, è ancora ravvisabile durante il periodo romano nel rito della primavera sacra. In primavera il dio sole feconda la terra, questa, subito dopo, dona agli uomini il frutto della divina unione. Sono moltissimi i santuari
sparsi per l’isola in cui simbolicamente si consumava l’atto divino, e in essi troviamo le “pietre perciate”, consistenti in rocce nella quali veniva scientemente praticato un foro in modo tale che nel equinozio di primavera, questi fori venissero attraversati da un raggio di sole il quale, colpendo la terra, penetrando in essa, la fecondasse e la rendesse fruttifera.
Ad maiora.