Il nostro lettore, abituato ormai alle ricerche border line che temerariamente esponiamo a chi ci segue da anni, non si stupirà di quanto verrà affermato nell’esposizione che segue. La città ove venne innalzata l’ara dedicata all’avo della stirpe sicula, Adrano, è la più antica della Sicilia e la città di Catania la ebbe quale modello e riferimento religioso, culturale e mitologico, tanto da mutare, in un particolare momento storico, il proprio nome in quello di Etna, già appartenuto alla città sede dell’Avo, come meglio esporremo più avanti.
Maggiore vetustà delle città dell’entroterra rispetto alle città costiere.
Come viene continuamente confermato dagli studiosi, dai ritrovamenti archeologici e da noi accennato nell’articolo “I Feaci”, il vulcano siciliano, intorno al IV millennio a. C., implose. In parte sprofondando a formare l’odierna Valle del Bove e in parte scivolando sul mare, provocò delle onde così alte da sommergere le coste e le città del Mediterraneo che erano state edificate in prossimità della costa. Atlit Yam, che ora giace sotto la sabbia in fondo al mare egiziano, è una di queste. Imparata la lezione, che non era stata l’unica né la prima inflitta agli abitatori della costa siciliana, i quali, durante i periodi di glaciazione e interglaciazione susseguitisi nei millenni, avevano osservato salire e poi ridiscendere il livello del mare, gli abitanti dell’isola, i Sicani, da quel momento costruirono le loro città all’interno dell’aurea isola di Sicania, sugli alti colli, come afferma Diodoro siculo e come confermano i reperti archeologici ivi rinvenuti. Il territorio adranita in particolare, ha restituito, nei circa dodici villaggi che lo ricoprivano, reperti archeologici datati a partire dal 7.000 a.C., come abbiamo argomentato nell’articolo “Adrano, il pagus e il territorio”. I su detti villaggi, a partire dalla media età del bronzo, vennero abbandonati dai loro allarmati abitanti. Questi ritennero più sicuro, a ragione, di trasferirsi nell’unico villaggio fortificato con poderose mura ciclopiche, centro cultuale della stirpe sicana. In questo villaggio, abitato esclusivamente da “adranitani” ovvero i sacerdoti di Ano, l’avo, veniva praticato il culto nei confronti dell’ avo divinizzato Adrano, il primo uomo, il capo della stirpe dei Sicani che riuscì, attraverso il superamento di prove al lui imposte dagli dèi, ad ascendere e a loro rendersi simile. Per comprendere il motivo per cui i sapienti sacerdoti “adranitani”, comparabili alla casta sacerdotale degli annunaki sumeri e ai druidi celti, scelsero il sito dell’attuale città di Adrano (nel tempo, la città dell’Avo avrebbe subito diverse rinominazioni) per edificare il tempio più importante della Sicilia, sede di pellegrinaggio da parte degli abitanti dell’isola, rimandiamo chi desiderasse saperne di più alle tesi esposte nell’articolo citato.
La nascita delle città portuali.
Quando i villaggi dell’interno dell’isola progredirono demograficamente e i commerci aumentarono notevolmente, negli anfratti costieri, dove prima vi era un semplice approdo per le barche che solcavano i navigabili fiumi dell’entroterra fino al mare aperto, come si evince ancora in epoca romana in cui Cicerone nelle verrine afferma che la nave dei Centuripini era la più veloce – Centuripe è una città dell’entroterra sotto la quale confluiscono i fiumi Salso e Simeto -, sorsero le città; Catania fu una di queste.
Le due Etna.
Dunque, sulla base dei reperti archeologici raccolti, delle fonti letterarie consultate, degli indizi colti e delle deduzioni tratte, è possibile affermare che, ancora prima di pensare ad una fondazione della città di Catania, i prischi Sicani avessero concepito, appena giunti nell’isola di Trinacria, ovvero l’isola delle “tre potenze”, di erigere il tempio dell’Avo nella città di Innessa, primo nome dato alla città di Adrano. Questa, come afferma Diodoro siculo nel capitolo dedicato al principe siciliano Ducezio, senza soffermarsi sul motivo del cambiamento, aveva mutato il proprio nome in Etna e dopo ancora in Adrano secondo le conclusioni a cui siamo pervenuti con le nostre ricerche, i risultati delle quali sono state sottoposte al vaglio di un attento uditorio in diversi incontri culturali pubblici e privati e pubblicate infine sui siti web miti3000.eu e Adranoantica.it. Ora, si dà il caso che nel 470 a. C., la città di Catania assumesse il nome di Etna prima appartenuto, come sopra affermato, alla futura Adrano, e poiché l’antico adagio recita che il meno viene tratto dal più, si intuisce che se Catania abbandonava – o gli veniva imposto di abbandonare–il proprio nome per assumere quello di Etna, certamente questo cambiamento avrebbe dovuto significare per i Catanesi o per l’ispiratore del cambiamento, un salto di qualità in termini di prestigio, in quanto la città di Etna, ex Innessa, avrà dovuto rappresentare nell’immaginario collettivo isolano, una città portatrice di carisma e prestigio, comunque superiore a quello della città portuale. Ciò appare plausibile se si considera che a Etna, oltre che essere presente il tempio dell’Avo, gli abitanti avevano portato, appena dieci anni prima, quando cioè a dirigere le operazioni militari vi era Gelone, il fratello di Jerone che avrebbe mutato il nome di Catania in Etna, un notevole contributo nella battaglia di Imera combattuta tra gli alleati siciliani e i Cartaginesi, anzi, nelle pagine di storia vergate da Diodoro, emerge che, grazie al contributo militare degli Etnei, le sorti incerte della battaglia mutarono a favore degli alleati. Non è tutto. Attraverso il racconto dello storico Polieno – Stratagemmi- si evince che la città di Innessa/Etna, era la più ricca fra quelle Etnee se non proprio della Sicilia tutta, tanto da indurre il tiranno di Agrigento Falaride a un tentativo di rapina nei suoi confronti. La presenza della enorme ricchezza nei forzieri della città stato di Innessa/Etna/Adrano non deve stupire, in quanto a motivo del tempio dedicato al culto nazionale e della inespugnabilità del sito di Adrano, anche le città limitrofe deponevano il proprio oro cittadino presso il tempio, così avveniva anche a Delfi nel tempio dedicato ad Apollo. Di conseguenza, si può ben essere certi, che ad Adrano come a Delfi, si fosse allora costituita una anfizionia a protezione del tempio, cioè era stata costituita una guardia formata da militari provenienti dalle città che partecipavano del culto. Il tiranno agrigentino, riconoscendo l’impossibilità di un successo militare se si fosse avventurano in una guerra aperta contro la città dell’Avo, fece ricorso ad uno stratagemma per appropriarsi degli ori del tempio, unico suo cruccio. Sorvolando sulla perfidia del tiranno greco che ognuno può verificare leggendo il testo di Polieno, a noi preme ricostruire in questa sede i fatti storici che videro protagoniste le città di cui ci stiamo occupando. Dal racconto di Polieno si può appurare che il re sicano Teuto aveva una figlia da maritare, e molti erano i pretendenti nell’isola. Secondo la nostra ricostruzione, esposta nell’articolo “Un matrimonio illustre nella Adrano del IV sec. a.C.” , risulta probabile che la principessa di Innessa si chiamasse Etna e che avesse sposato un illustre cittadino catanese, magari il figlio di Caronda, che visse nello stesso periodo dei Nostri. Riteniamo pertanto plausibile che, la città di Innessa facesse parte della dote che il re Teuto aveva messo a disposizione della figlia, con la promessa che essa sarebbe diventata regina di Innessa dopo la propria morte, essendosi interrotta la discendenza patrilineare per mancanza di figli maschi nella casa regnante. Le relazioni tra la città dell’Avo e Catania, prima che questa venisse completamente grecizzata nel periodo di cui ci stiamo occupando, dovettero essere assai buone e ciò si evince dal nome del mitico fiume Amenano che un tempo scorreva a Catania. Allo stato delle ricerche, per ciò che concerne il nome del fiume, il cui significato riconduce ad un lessico sicano, ci limitiamo a menzionarlo, epperò vi ritorneremo nel capitolo seguente.
Dando per buona la ricostruzione fin qui proposta, è ipotizzabile che i Catanesi non abbiano sollevato alcuna obiezione a Jerone che rinominava la città in Etna, riconoscendo nella principessa adranita la propria “Ava”. La prestigiosa posizione di Teuto e di Etna, regnanti, e, probabilmente, pontefice e sacerdotessa del culto nazionale, in una fase aurea della storia siciliana, dovette condizionare assai lo jerofante Jerone che, sebbene fosse un pessimo regnante, dovette certamente essere stato assai edotto in ambito religioso come si evince dal significato del suo nome. La conferma di una sua profonda conoscenza delle sacre cose, ci proviene dalla constatazione che nel programma del re catanese vi era quello di consolidare i rapporti tra la città di Etna e Catania, se non addirittura fondere politicamente l’una città all’altra, utilizzando la mitologia sicana opportunamente rielaborata in chiave greca, che, come vedremo, era alla base del prestigio della prima e di cui si sarebbe nutrita la seconda. Le due città consorelle, ricordiamolo, si trovavano in quel momento storico, – 470 a.C. -, sotto la giurisdizione politica e militare di Jerone; Diodoro afferma infatti che, per il re, l’aver ottenuto di installare sull’acropoli della libera città di Innessa/Etna, una semplice guarnigione militare, il successo divenne motivo di grandi festeggiamenti. Il tentativo di rielaborare la mitologia sicana, doveva avere, come sopra affermato, quale fine del programma esteso da Jerone, quello di unire in un abbraccio politico la sicana Innessa/Etna (futura Adrano) alla sede regia di Catania. Il compito di rielaborare il mito sicano viene affidato ad un esperto in ambito religioso, iniziato ai misteri di Eleusi e già sospetto ai sacerdoti di Delfi per il suo vezzo di svelare ciò che doveva rimanere velato, Eschilo. Questi compone per il re l’opera teatrale le “Etnee”, incentrata sul culto degli dèi Palici, figli dell’avo Adrano. Il culto a cui erano interessati il re catanese e il tragediografo, e che si prestava allo scopo, si svolgeva nella città di Etna (futura Adrano), come si evince dal suo contenuto. Infatti, in esso, si fa tra l’altro riferimento alle fonti dei gemelli Palici, che scorrono nella Valle delle Muse, sulla riva sinistra del fiume Simeto nei pressi di Adrano e di cui parlerà anche Virgilio nel libro IX dell’Eneide. Del contenuto del mito rielaborato da Eschilo in chiave filo greca, purtroppo, ci sono arrivati soltanto pochi frammenti provenienti da citazioni di autori posteriori, ma sufficienti per permetterci la qui tentata ricostruzione dei fatti.
Ad Eschilo parve bene intitolare la sua opera “ le Etnee” , giocando così sulla ambiguità di un nome che sarebbe appartenuto sia alla città dell’Avo che, successivamente, a Catania quello di Etna. In comune, le due città avevano avuto anche l’Ava, Etna (?) figlia di Teuto, grazie al matrimonio da Lei contratto con un Catanese (?). Ma un’altra Etna, che i Greci intendevano condividere con i prischi Sicani di Innessa/Etna/Adrano entrava in gioco nella rielaborazione eschilea; era, questa, la Ninfa di cui i Palici erano figli e Adrano era sposo, appunto la ninfa Etna. La ninfa Etna, nella mistificazione mitologica messa in scena da Eschilo, avrebbe fatto da trait d’union tra la cultura sicana e quella greca, tra la sicana città di Innessa/Etna e quella greca di Catania/Etna, concependo al greco Zeus i gemelli Palici che il sicano dio Adrano avrebbe preso in adozione. A noi, eredi dei prischi Sicani, piace credere che l’Avo abbia punito, per l’infame mistificazione mitologica messa in atto dai perfidi greci, il re Jerone condannandolo ad una meritata damnatio memoriae, e il tragediografo Eschilo, disperdendo l’indegna sua opera teatrale.
Amenano
Allo stato delle ricerche, per ciò che concerne il nome del fiume catanese, il cui significato riconduce ad un lessico sicano, ci limitiamo a tentare una analisi etimologica dello stesso, esternando in pari tempo ai nostri lettori alcune intuizioni sul motivo che avrebbe portato i Sicani di Catania alla scelta dell’idronomo.
Il mitico nome del fiume catanese avrebbe implicazioni assai importanti con la cultura sicana, mettendo altresì in evidenza le origini pre elleniche del sito e della cultura catanese.
Infatti, il nome del divino fiume risulta formato dall’accostamento dei lessemi MN e ANO. Traducendo l’appellativo verbum pro verbo, esso può essere così formulato: mente/avo. Volendo invece esercitare la libera interpretazione del significato del nome, azzardiamo per esso il significato di “ La memoria dell’Avo” o “In memoria dell’Avo” . La apparente, leggera differenza della traduzione del nome ha implicazioni assai più profonde di quanto sembri. Infatti, recenti studi di prestigiosi ricercatori fanno cenno ad una memoria dell’acqua, e se, forzando ulteriormente il significato attribuito al nome del fiume, mettessimo questo significato in relazione alle affermazioni fatte dagli scienziati, potremmo ancora una volta ipotizzare che le conoscenze da noi attribuite alla casta sacerdotale degli “Adranitani”, non fossero per nulla inferiori alle conoscenze dei moderni scienziati e a quelle attribuite agli omologhi sumeri, egizi, celti, iraniani etc. Le conoscenze attribuite a questi, analizzate alla luce di recenti tecnologie e con una mente laica più di quanto lo sia stata in passato, stanno facendo riscrivere la storia.
Ma torniamo al nome del mitico fiume che un tempo scorreva nel villaggio catanese, l’Amenano. Grazie all’idronomo si può dunque immaginare che il conio fosse stato apposto al fiume in una epoca in cui l’isola era denominata Sicania, ovvero la terra dell’Avo o, comunque in una epoca in cui le tradizioni sicane erano ancora predominanti nell’isola. Infatti, il significato del sostantivo Ano, nell’alto antico tedesco, lingua che noi abbiamo ipotizzato essere la più aderente a quella parlata dai Sicani (vedi l’articolo: “Jam akaram, la lingua dei Sicani”) significava avo, antenato, nonno. Il sostantivo in questione, unito ad aggettivi, preposizioni, avverbi etc. va ancora a formare i nomi dei fiumi Ana-po, che scorre nei pressi di Siracusa e che traduciamo con: “procedente dall’avo” (Ana-ab) ; Adr-ano che un tempo scorreva nella omonima città; lo ritroviamo anche nel fiume Adrana (oggi Eder), in Germania, citato da Tacito); anche in Spagna, ancora oggi, scorre un fiume Adrano. La traduzione da noi proposta per il nome Adrano è quella di Avo furioso, significando l’aggettivo odhr appunto furioso.
Ma non è soltanto il sostantivo Avo che ritroviamo a formare il nome dell’antico fiume ad essere condiviso da Adrano con Catania. Pare che un più lungo cordone ombelicale che porta fino ai giorni nostri unisca le due città, anche se, successivamente, a ruoli invertiti.
Ansgerio vescovo di Catania e priore di Adernò.
Questo vescovo inglese, venuto in Sicilia al seguito del Gran Conte Ruggero, come era di abitudine nell’era di mezzo, venne insignito dal suo signore di una moltitudine di titoli tra i quali compariva quello di Priore di Adernò, nome quest’ultimo, di Adrano, storpiato dalla pronuncia francese della lingua parlata dai Normanni. Il titolo assunto dal vescovo conferma l’importanza politica, religiosa e militare, che Adrano conservò immutata nei millenni. Per ciò che concerne il ruolo militare di perno degli eventi isolani, della città dell’Avo negli eventi isolani, mai dismesso fin dalla battaglia di Imera del 480 a.C., a cui si è accennato sopra, e poi ancora del 344 a.C., combattuta da Timoleonte per la cacciata dei tiranni dalla Sicilia e vinta grazie alla anfizionia che era a guardia del tempio del dio Adrano, come si evince da Plutarco nel ‘Timoleonte’, non vi sono più dubbi. Approfittiamo dell’argomento qui trattato per esprimere la convinzione che il Gran Conte Ruggero avesse già trovata edificata la torre di guardia, convinzione suffragata da vari elementi, tra i quali la data del 1009 incisa nella pietra della porta del gran maniero adranita, ed egli si fosse limitato a riadattarla, ampliarla e modificarla secondo le nuove sopraggiunte necessità.
Ordini Cavallereschi.
Se da un lato la città di Catania diventava grande e ricca per i commerci che la mutata era metteva al primo posto nella nuova concezione del mondo, ad Adrano rimaneva il prestigio fornito da importanti famiglie, prelati, ordini cavallereschi che l’avevano abitata a partire da Adelicia, nipote del Gran Conte, che dalle sale della sua torre normanna, elargiva donazioni a chiese e altre ne edificava. Se affermiamo che il prestigio adranita rimaneva inalterato a partire dall’immediato insediamento sicano e dalla costruzione del tempio dedicato all’Avo, non è da considerarsi tale affermazione una iperbole o dettata da cieco amor patrio, altrimenti non si spiegherebbe come mai proprio ad Adrano, dopo quella fondata a Palermo pochissimi anni prima, si decidesse di fondare la più prestigiosa confraternita a carattere filantropico che portava il titolo di Confraternita dei Nobili Bianchi e alla quale potevano aderire, come si evince dal nome, per statuto, soltanto coloro che potevano certificare la propria nobile origine. Uno statuto così concepito risale agli ordini monastico cavallereschi che presero vita in terra Santa e, però, in Europa trovarono il vero campo d’azione. Ma di ciò è stato sufficientemente scritto altrove.
Ritornando alla nascita della prestigiosa Confraternita ad Adrano, ebbene, soltanto dopo seguì la formazione di quella di Catania. Non si spiega ancora come potesse essere stato possibile che nella “oscura” e modesta cittadina di Adrano si potesse costruire un teatro che, soltanto anni dopo, la grande metropoli catanese, prese a modello per costruirne uno uguale seppur in scala più grande. Parliamo del teatro Bellini. A proposito di teatro, segnaliamo in questa circostanza alla sovrintendenza, che la struttura muraria circolare, di cui emergono pochi metri nei pressi di via Catania e di cui la sovrintendenza è bene a conoscenza in quanto, in illo tempore, intervenne per bloccare i lavori di una costruzione abusiva a ridosso di questi ruderi, trattandosi a nostro avviso degli ipotetici gradoni di un anfiteatro, attendono di essere portati alla necessaria visibilità, affinché possano testimoniare, assieme ai notevoli resti di altre strutture, di quale prestigio poté vantarsi la patria della civiltà sicana, Adrano.
Ci preme riaffermare che le nostre non sono deliranti supposizioni di un febbrile amor patrio, ma tesi, frutto di studi e ricerche poste in essere attingendo alle discipline capaci di contribuire a disvelare la vetusta storia adranita e, per riflesso, quella dell’isola. Concludiamo ponendo ai lettori l’ultimo arcano: come è stato possibile che l’oscura cittadina di Adrano abbia espresso nel XIX secolo dell’era volgare un esagerato numero di sedi massoniche capaci di interloquire con forze d’opposizione politica sparse in Italia? Se non possedessimo la documentazione epistolare intercorsa tra alcuni dei nostri concittadini Adraniti con esponenti della Giovine Italia, anche queste potrebbero apparire illazioni. Tralasciando ogni giudizio in merito, in attesa che vengano fuori nuovi documenti, che magari dimostrino un forte contributo adranita alla politica isolana, a noi piace far notare ai nostri concittadini, che delle sei logge massoniche presenti ad Adrano, una di esse si chiamava “Levana”. Era questo il nome dell’antica dea preposta ad assistere le partorienti. Il nome, oltre che a ricondurre ad un concetto esoterico, in coerenza con le intenzioni della loggia, di portare in vita o alla luce ciò che è celato, riflette la necessità di utilizzare non solo i miti ma una lingua primordiale ancora non completamente in disuso, la lingua sicana, che meglio veicola gli inesprimibili concetti superiori. Infatti nel nome Levana si può rintracciare la radice AN. Ana significa ava, antenata, nonna. L’aggettivo leu-lug-luk, con il significato di luce, conferisce dunque all’Ava la doppia veste di custode della vita fisica e di quella metafisica. Essa è dunque preposta all’iniziazione del neofita che, tramite suo, rinasce a nuova vita. Essendo Levana la portatrice di luce, quei concittadini, evocandola, si riproponevano forse di diffondere la luce che si “levava” dal tempio dell’avo primordiale Adrano?
Ad majora.