Nel nostro precedente articolo, “Quando gli Arabi erano biondi”, abbiamo tentato di dimostrare, opponendo alle tesi canonizzate in certi ambienti intellettuali, le nostre argomentazioni circa la formazione dei nomi di alcune città siciliane, toponimi che si credevano di derivazione araba mentre, a nostro avviso, essi erano riconducibili ad una lingua parlata in occidente. Alcuni di questi toponimi, infatti, appaiono in Sicilia già in tempi anteriori all’arrivo degli Arabi. Avendo dimostrato dunque, in quella sede, che i toponimi di Calatino citato da Tito Livio e quello della città di Calacta fondata da Ducezio nel V secolo a. C., citata da Diodoro, esistevano da oltre un millennio prima che giungessero gli Arabi nell’isola, a noi parve legittimo mettere in discussione l’attribuzione agli Arabi dei toponimi formati con il radicale “Cal”. Non avendo del tutto esaurito l’argomento ed essendoci inoltrati sempre più nella ricerca, ci siamo imbattuti nella cittadina di Caltavuturo, nome composto dall’unione di più lessemi il cui significato ci è sembrato essere collegato ad un evento specifico che più giù esporremo. Pertanto, come è nostra consuetudine, condivideremo la seguente intuizione con i nostri affezionati lettori che ad ogni ora ci manifestano il loro consenso.
Il sito ove sorge l’attuale cittadina di Caltavuturo risulta, come affermato, strettamente collegato ad un episodio di guerra, anzi crediamo che il toponimo sia stato apposto al sito in occasione proprio di quell’episodio per l’eccezionalità’ dei fatti ivi accaduti, fatti che colpirono profondamente l’immaginario collettivo da spingere lo storico siciliano Michele Amari a richiamarli nella sua ponderosa opera intitolata, I Musulmani in Sicilia. Il Nostro, a sua volta, riprese l’episodio attingendo da una agiografia greca e da una araba.
LA PORTA DEL CIELO.
Lo storico siciliano, nel suo prezioso volume descrive i dettagli di una battaglia combattuta nel 882 fra l’esercito bizantino e quello Arabo in un luogo che, secondo quanto riportato dallo storico, avrebbe preso il nome di un comandante arabo, un certo Abu Thur che in nulla si sarebbe distinto, se non per l’aver perduto il proprio esercito fatto a pezzi dai Bizantini e che in nessun altro luogo della storia siciliana trova posto. Poiché il nome del fantomatico Abu Thur oltre che apparire più di origine germanica che araba, non viene citato nella battaglia combattuta nel sito di Caltavuturo, non avendo lo stesso avuto alcun ruolo, a noi stupisce che gli si fosse intitolata una fortezza nella quale egli non mise piede; piuttosto, analizzando i fatti, a noi sembra che il nome del presunto comandante arabo sia stato utilizzato dallo storico per spiegare il significato del toponimo che egli traduce con la ‘rocca di Abu Thur’, traducendo a sua volta Abu Thur con ‘Quel del toro’ . La farraginosità della costruzione onomastica e toponomastica di cui si è servito il Nostro, ricorda l’espediente con cui gli antichi scrittori greci, non sapendosi spiegare le origini etimologiche dei nomi di certi popoli oggetto della loro indagine, liquidavano il problema inventandosi dei patronimici, pertanto si inventano un capostipite per i Siculi di nome Siculo; Italo per gli Itali; Teucro per i Teucri e così via.
Ma andiamo ai fatti svoltisi a Caltavuturo. In breve, lo storico siciliano racconta che durante i combattimenti i comandanti dei due eserciti che si fronteggiavano sul campo, ebbero contemporaneamente delle visioni: il bizantino quella di Sant’Ignazio patriarca di Costantinopoli che gli annunciava la prossima vittoria nonostante le difficoltà in cui il comandante versava, suggerendogli addirittura la strategia di manovra bellica da adottare; dall’altro schieramento l’arabo, rimasto gravemente ferito, in coma o in uno stato di premorte come diremmo oggi, ebbe la visione di una schiera di fanciulle che, salendo e scendendo da scale appoggiate tra il cielo e la terra, portavano su in cielo i caduti sul campo di battaglia.
UN CASO DI PREMORTE.
L’arabo da cui viene raccolta la narrazione si chiamava Abu-Hasan-Hariri. Egli aveva partecipato alla battaglia di Caltavuturo ove i Musulmani erano stati sconfitti. Nel raccogliere i cadaveri per dargli degna sepoltura, Hariri trova semi morto il compatriota Abu-Abd+Selem-Moferreg. Fra le lacrime questi racconta di una mirabile visione: creduto morto, stava per essere condotto in cielo da una delle Huri – così venivano chiamate queste valchirie arabe-, che già lo teneva fra le braccia, quando accortasi che lo sventurato era ancora vivo, pronunciando parole di biasimo per sé stessa in seguito alla propria inavvedutezza e per l’errore fortunatamente stornato, se ne salì a mani vuote in cielo.
Al di là del fatto miracoloso occorso, oggetto del contenuto dei due episodi raccontati da autorevoli biografi, uno dei quali era il bizantino Niceta Davidde di Plafagonia, da cui ha attinto lo storico Michele Amari, a noi preme porre l’attenzione sull’aspetto linguistico, tenendo conto che vi furono linguaggi che per erosione si ridussero a frammenti lessicali, uno di questi, crediamo, possa ritenersi l’arabo. In questa lingua si trasferì il termine protogermanica Kalla akta che ritroviamo, come sopra affermato, in Sicilia nella variante kale akte o kalacta come riporta Diodoro (Qal’at in arabo).
Dall’analisi etimologica comprenderemo se il toponimo Caltavuturo apposto a quel luogo in seguito alla battaglia svoltasi, possa essere tradotto, secondo il nostro metodo interpretativo di cui si è fatto riferimento spesso nei nostri articoli, “Calate dal cielo” con riferimento alle fanciulle che curiosamente portano un nome a noi familiare. Tra le numerose analogie ricorrenti tra la cultura medievale occidentale e quella araba messe in evidenza nella ricostruzione storica qui proposta, risalta quella tra le Huri arabe e le Walkirie germaniche deputate a svolgere il medesimo ruolo, quello cioè di raccogliere gli eroi caduti sul campo di battaglia per condurli nei rispettivi paradisi. Non meno curiosa è l’affinità tra il nome delle fanciulle arabe, Huri, e il nome Urio della divinità sicula che Cicerone cita nelle verrine, divinità che trovava sede a Siracusa ed era oggetto di pellegrinaggio da parte della popolazione sicula della Sicilia. Il lessema Ur nella lingua germanica significa antico, primordiale.
VANDALI ED ARABI IN SICILIA
Prima di continuare nel nostro excursus, e al fine di trovare il trait d’union delle analogie che intercorrono tra la cultura araba e quella occidentale europea, è bene ricordare che diversi popoli, muovendo dall’estremo nord Europa, citati da Erodoto, Diodoro ed altri storici antichi, scorrazzavano fin da tempi antichissimi nei territori del Medio Oriente rendendoli tributari e, con tutta probabilità, lasciandovi dei prestiti culturali e linguistici che i popoli indigeni avrebbero potuto raccogliere e fare propri; tanto per citare un esempio in cui tali prestiti appaiono evidenti ricordiamo che i romani, utilizzando il carro da trasporto introdotto dai Germani, il rada ovvero ruota, introdussero il nome dell’attrezzo di locomozione nel proprio lessico. Tra i popoli germanici che scorazzavano per l’Europa e l’Oriente, più di tutti si distinsero i Goti provenienti dal Gotland, un’isola della Svezia, tanto da far dire allo storico Giordane che i Goti rappresentavano la vagina dei popoli. I Vandali, che erano un ramo della grande famiglia gotica, scendendo attraverso la Spagna, attraversarono Gibilterra e si stabilirono nel nord Africa nel 429 con un contingente di ottanta mila teste. I Vandali erano i discendenti di quegli Arii di cui riferisce Tacito che preferivano attaccare di notte con il corpo dipinto di nero e che adoravano Wotan-Odino. Forse Sant’Agostino morì di afflizione quando li vide sotto le mura di Cartagine urlando i loro terribili peana o per il terrore che il crudelissimo Genserico incuteva. Roma si trovò costretta a riconoscere ai Vandali, tranne che Cartagine, i possedimenti nordafricani reclutando, tra l’altro, nel proprio esercito questi ingestibili Germani. Dopo la presa di Cartagine – val la pena sottolineare quanto segue per comprendere il futuro rapporto che i Vandali stringeranno con gli Arabi e la condivisione di molti aspetti religiosi oltre che obiettivi politici-, verrà intrapresa una persecuzione dei cristiani in terra d’Africa. Genserico, al fine di controllare capillarmente l’intero territorio nord africano, insediò i suoi ottantamila individui al seguito, a gruppi di mille, di cui duecento fra questi erano temibili guerrieri. Introdusse i rigidi costumi atavici: stabilì una austerità quasi monastica facendo chiudere i lupanari, abbattendo gli anfiteatri, condannando l’adulterio e deportando gli omosessuali. Dopo la conquista di Cartagine il Vandalo espulse i romani e nel 440 intraprese una incursione dimostrativa in Sicilia. Nel 455 ‘vandalizzò Roma e fece del regno africano un regno ricchissimo. I Bizantini non potevano restare a guardare. Nel 476 con la morte dell’ottantenne Genserico il regno iniziò la sua parabola discendente e i Bizantini non lasciarono cadere l’occasione. Nel 527 l’imperatore Giustiniano inviava la sua flotta a Cartagine che cadeva nel 533. I guerrieri Vandali furono assorbiti nell’esercito bizantino. Quando vi giunsero i Musulmani nel 652, venuti dal Medioriente, Michele Amari afferma nel suo trattato che l’Africa era tenuta da quattro popoli diversissimi tra loro e così si esprimeva: “La più moderna era un pugno di gente germanica che alcuni autori chiamano Franchi; e Leone Affricano, Goti: senza dubbio gli avanzi dei Vandali”. L’Amari continua la sua descrizione affermando che un’altra stirpe che avanzava le altre per numero, si era stanziata fin da tempi antichi nel nord Africa provenendo dalla Media, a questa lo storico attribuiva caratteri somatici caucasici ed era soprannominata Berbera, storpiamento del termine barbaro. La schiatta romana e la fenicia, così come la nera, erano ininfluenti in quella società.
Questi furono dunque i popoli che nel VI secolo si unirono agli Arabi muovendo dal nord Africa verso la Sicilia agli inizi del VII secolo.
Anticipando quanto diremo più giù, facciamo notare che la conflittualità tra le fazioni arabe, quando queste si impadroniranno della Sicilia, raggiunse livelli tali che gli Arabi scacceranno le tribù berbere dalla Sicilia. Le espulsioni si spiegano alla luce delle differenze culturali mai appianate tra questi eterogenei alleati. In Sicilia dovevano già esservi insediate comunità vandale che, a partire dall’invasione vandalica del 440, facevano da testa di ponte col Magreb. Se gli Arabi, appena giunti nel Maghreb sono in grado di passare in Sicilia, poiché è nota la ripugnanza degli Arabi per il mare e notoria la dimestichezza acquisita dai Vandali nel percorrere le liquide vie, non lo si può attribuire che all’esperienza marinara dei Vandali. Si spiegherebbe così la meraviglia espressa dallo studioso Umberto Rizzeri (La Sicilia islamica) nel notare “ l’improvvisa comparsa del naviglio arabo sulla ribalta del Mediterraneo”. A conferma di quanto qui supposto, si tenga conto che le imprese per mare condotte dagli Arabi e il successivo dominio del Mediterraneo da parte dell’Islam, inizia con la conquista del nord Africa. A questo punto della ricostruzione storica, i nostri lettori non avranno difficoltà ad accettare l’ipotesi che fra le fila dei Saraceni militassero elementi gotici, quei Vandali cioè, che per pragmatismo politico avevano abbandonato Odino per abbracciare l’arianesimo appena giunti nel continente e che ora non si facevano scrupolo di gettarsi fra le braccia di Allah, trovando nei cristiani un comune nemico. Sulle basi dei trascorsi storici del nord Africa, caratterizzati dall’ avvicendarsi e/o dal fondersi dei popoli dominatori, come sopra esposto, sarebbe lecito supporre che Vandali di confessione ariana potessero essere i protagonisti del racconto dei fatti di Caltavuturo, come si potrebbe dedurre dai loro nomi, Hariri (cioè Ario), Moferreg (l’etimo potrebbe essere stato trascritto sulla base della corrotta pronuncia del vocabolo tedesco Morr-verlegen, ove con Moor si indica un terreno paludoso e verlegen significa differire, rimandare con riferimento alla morte scampata del protagonista) e in qualche modo anche quello di Ab(u) Thur, dalla porta, accettando per il Nostro un ruolo diverso da quello fornito dal racconto, forse mal compreso dallo storico siciliano.
Trascurando che la versione araba dell’episodio raccontato, possa essersi ispirata al mito di Er di cui parla Platone nella Repubblica; nel mito greco si fa infatti riferimento a una esperienza di premorte di un milite sul campo di battaglia, se i fatti raccontati aderissero alla nostra ricostruzione, non sarebbe peregrina la formulazione dell’ipotesi che il toponimo Caltavuturo fosse stato apposto al luogo in seguito ai prodigi di cui si è detto. Nella lingua di Hariri, di Moferreg e di Ab(u) Thur, se essa fosse stato il vandalico, Kalla-ab-tur, corrotto in Caltavuturo, tradotto verbo pro verbum significa “chiamare evocare, far discendere – dalla – porta (del cielo)”. Ricordiamo ai lettori che era una abitudine consolidata presso le varie civiltà, nominare un luogo in base l’eccezionalità dell’esperienza vissuta. Infatti, apprendiamo dall’ Antico Testamento che Giacobbe, – Genesi 32,26- dopo aver ingaggiato una lotta con un angelo col fine di non lasciarlo partire senza avergli strappato una benedizione, pose il nome di “Fanuel” al luogo ove si verificò il prodigio. Che la lingua vandalica potesse sopravvivere ancora un secolo dopo l’arrivo degli Arabi nel nord Africa, ci sembra una probabilità assai ragionevole per un popolo, quello dei Vandali, che, come abbiamo esposto sopra, era fortemente radicato nel territorio.
KALAT : IL CASTELLO
Attingendo ancora dal prezioso saggio dello storico siciliano, si può ben osservare che il termine kalat, che dovrebbe essere stato utilizzato per indicare un castello, una rocca o una fortezza, come si pretende in certi ambienti culturali, non viene utilizzato per tutti i siti espugnati dagli Arabi caratterizzati dalla presenza di una fortificazione: non viene utilizzato per rinominare, secondo l’uso arabo o a loro attribuito, l’inespugnabile castello di Gagliano detto, appunto, castel ferrato e che, invece, a detta dell’Amari, lo stesso viene appellato in lingua araba Kasr-el-Hedid; né viene utilizzato per rinominare Castelmola e molti altri siti che ben avrebbero meritato l’appellativo di kalat, castello. Molti dei luoghi in cui gli Arabi costruirono fortificazioni, invece, non vennero paradossalmente appellati con il termine kalat; è il caso dell’accampamento che gli Arabi installarono nel 670 nel castello romano presso Susa, in Tunisia, che chiamarono Kamunia; poi, ancora, citando il Fazello lo storico siciliano, facendo riferimento alle conquiste siciliane da parte di Abramo Halbi nel’827, afferma che si inviava in Sicilia il capitano Halcamo il quale edificava un castello che da lui prendeva il nome, nome che, se stiamo a quanto affermato dagli studiosi circa la formazione dei toponimi, si sarebbe dovuto chiamare Calatalcamo. L’Amari, per rendere autorevoli le affermazioni del Fazello da cui egli attinge, sostiene che questi avrebbe appreso dagli annali maomettani quanto raccontato. Sembra incongruente che l’Amari, nel riferire della caduta in mani arabe – riportiamo le sue parole- di “molte castella dell’isola: Platani, Caltabellotta, Caltavuturo, Sutera, una terra che non so se vada letta Ibla, Avola o Entella” e continuando con l’elenco dei castelli: “kalat-A d-El-Mumin e altre città di cui non si dicono i nomi che tutte avevano promesso obbedienza e tributo ai Musulmani” faccia il nome arabo soltanto di uno dei castelli, forse perché l’unico realmente edificato dagli Arabi? ciò significa che le altre città non lo erano? non lo erano dunque Caltabellotta, Caltavuturo, né Calatabiano, così come non lo erano Calatino, né la duceziana Calacta come sostenuto all’inizio della nostra digressione. Nel formulare la detta conclusione ci soccorre l’autore delle cronache di Cambridge. Infatti, nell’ affermare che nel 938 gli Arabi “sottomettono tre rocche, cioè Caltavuturo, Qal’at ‘as Sirat e Isqlaf.nah”, implicitamente l’ autore delle cronache conferisce origini indigene al toponimo di Caltavuro. Se non bastasse quanto fin qui sostenuto, aggiungiamo che lo storico arabo ‘An Nuwairi riporta in una cronaca che, presa Taormina si pose l’assedio a Rametta ove il comandante Ibn ‘Ammar, “si fece fabbricare un qasr” cioè un castello.
INFLUENZA DELLA CULTURA ARABA IN SICILIA
Esprimendo fino in fondo le convinzioni maturate dalla ricerca, affermiamo di essere dell’avviso che l’influenza della cultura araba in terra di Sicilia sia stata modesta, in perfetta coerenza con l’aforisma coniato dai Siciliani “Calati juncu ca passa la china” ovvero: Chinati giungo e aspetta che la china del fiume sia passata per ritornare irto più di prima” nella saggia consapevolezza della transitorietà di ogni evento. Pertanto affermiamo che la suddetta presunta influenza culturale araba non sia entrata in profondità nel tessuto connettivo isolano, ma sia entrato a far parte, piuttosto, dell’immaginario collettivo a motivo dell’orrore e del terrore provocato dalle violente incursioni che, queste sì, rimasero profondamente impresse nella memoria degli abitanti. Le conquiste e assoggettamento dei territori Siculi, sì ci sono state, ma non per un periodo così lungo da poter consentire ad una cultura plurimillenaria quale era la siciliana, già avvezza alle dominazioni, di essere permeata in profondità. Fino al 740 infatti, si può parlare di scorrerie arabe nel territorio siciliano, incursioni veloci e di breve durata con immediato rientro in Africa. Le incursioni avevano l’unico scopo di fare una gran messe di prigionieri, merce ritenuta preziosa, e di tesori oltre che rendere tributarie quanto più possibile le città isolane. Il cronista che compose il codice di Cambridge, di cui non si conosce l’etnia, ma si sa che era cristiano e visse a Palermo verso la metà del 900, fa iniziare la conquista dell’isola dal 827. Lo sbarco avviene a Mazara: l’anno 831 viene conquistata e fortemente arabizzata Palermo che fungeva di capitale del nuovo impero e di base operativa. Dalla capitale siciliana le incursioni si spingevano verso l’entroterra siciliano; il più delle volte gli eserciti arabi rientravano a Palermo sconfitti; in alcune occasioni i villaggi dell’interno venivano conquistati per un breve periodo e perdute nuovamente come viene affermato nel succitato codice per la città di Noto. Alcune città, pur di evitare spargimento di sangue preferivano rendersi spontaneamente tributarie conservando la libertà. Prima della presa di Palermo gli Arabi erigevano i loro accampamenti in aperta campagna bivaccando sotto le loro tende. La Sicilia orientale, l’area etnea in particolare, rimase libera per lungo tempo: fino all’860 i musulmani occupavano Palermo e non più di una trentina di città , il resto della Sicilia era libera. Enna viene assediata nel 859; Messina viene espugna nel 843 ma non Milazzo né Rametta; Siracusa nel 878; Taormina viene conquistata soltanto nel 908 e non per molto visto che nel codice di Cambridge si legge che nel 919 gli Arabi stipulano una tregua col popolo di Taormina e le altre rocche tenute dai Cristiani per essere presa – probabilmente si era interrotta la tregua – nel 962. In questa occasione essa viene rinominata ‘Al Muizziah dal nome del suo conquistatore ‘ Al Muizz. Nella suddetta cronaca, si apprende che nel 951 i Musulmani assediarono, “senza alcun frutto”, la rocca di Gerace ben difesa dai Cristiani. Alcuni decenni dopo questi ultimi eventi, un periodo temporale che riteniamo troppo breve per poter pensare ad una arabizzazione dell’isola, la Sicilia passava sotto il dominio degli uomini del nord, I Normanni, pronipoti di quei Vandali che, muovendo dalla Scandinavia sei secoli prima, erano passati in Africa di cui erano diventati signori, per passare due secoli dopo la conquista nelle file musulmane e, sebbene si fondessero con gli islamici, non avrebbero del tutto reciso il cordone ombelicale che li univa culturalmente ai consanguinei uomini del nord.
Ad majora.