I millenni trascorsi hanno sovrapposto dei veli ai profondi significati nascosti del nome del dio Adrano che, come argomentato in precedenti studi, riteniamo identificabile con L’avo dei prischi Sicani in generale e degli Adraniti in particolare. Lo studio appassionato della storia avita, se unito all’ardore che collega i discendenti agli antenati, consente tuttavia di eliminare uno ad uno questi veli.
Il culto riservato agli Avi dai nostri antichi progenitori sopravvive ancora nel rito celebrato a Novembre. Fino alla precedente generazione esso si trasmetteva immutato nel suo profondo valore religioso. I nostri progenitori, esattamente come i Latini di due o tre millenni fa, accendevano delle lucerne sotto i ritratti degli avi, che erano perennemente collocati in un luogo vicino al focolare domestico, il davanzale del camino per i più abbienti: il fuoco fisico alimentava idealmente l’ardore che univa gli Avi agli eredi. Il legame tra gli uni e gli altri trapela dal concetto, espresso da Plutarco nella Vita di Camillo, di moto generazionale contenuto nel vocabolo gentes. L’etimo del termine, la cui pronuncia originaria era caratterizzata dal suono gutturale della consonante “g”, riconduce infatti al verbo gehend, di derivazione protogermanica, lingua comune a latini e Sicani della prima ora, col significato di andante. Sulla derivazione protogermanica della lingua sicana non diremo altro, avendo riservato all’argomento approfonditi studi nelle nostre pubblicazioni. Anche il lessema gene è riconducibile al verbo gehend, infatti il gene “va”, si trasmette cioè dall’avo all’erede, facendo rivivere in qualche modo l’Avo attraverso il discendente, non solo relativamente alla trasmissione degli aspetti somatici ma anche tramite il passaggio di quelli spirituali, conferendo in tal modo l’immortalità agli antenati. Non a caso il Romano definì il primogenito “figlio del dovere”, in quanto con tale concepimento il padre assolveva il suo compito nei confronti degli Avi, garantendo loro la sopravvivenza, il “cammino”; qualora poi non avesse potuto procreare avrebbe fatto ricorso, con divina intuizione, al sacro istituto dell’adozione, considerato come un innesto che, una volta attecchito, si sarebbe fuso con il corpo della pianta, rendendo impossibile distinguere la marza dal porta innesto.
Ma il grande miracolo, per noi uomini moderni, è che a distanza, forse, di sei mila anni, il lessema, riscontrabile anche nell’antico alto tedesco, anu/o, contenuto nel nome dell’Avo divinizzato, dell’avo primigenio (Adrano, Giano, Inanna, Nannar, Etana … ), continua a vivere nel vocabolo nonno (ahn in tedesco moderno), rappresentante per antonomasia dell’istituto più sacro che la società umana abbia mai spontaneamente concepito, la famiglia, la quale ha mantenuto il suo ruolo fino alla nostra era infausta, che sta per dare vita ad un nuovo ciclo cosmico, quello dell’acquario, che diluirà ogni sacra istituzione, facendo della stessa famiglia un ibrido, un mostro a due teste, con due padri o due madri. Nei giorni dedicati ai defunti, la cui festività cade nei primi giorni di Novembre, la tradizione voleva che si andasse al cimitero per fare visita ai nonni defunti. Questo periodo era inteso, in Sicilia così come in Scandinavia e nel mondo germanico, come il momento favorevole per creare un contatto con l’aldilà, per aprire una porta, un varco, uno stargate capace di collegare il mondo col sovra-mondo, il discendente con l’anu, il nonno per eccellenza, l’avo primigenio che, essendo in contatto con le forze del sovramondo, poteva intercedere a favore dei discendenti.
Il lessema Odhr – che, unito ad ano, dà vita al nome del dio Adrano– era un attributo riferito all’avo stesso, definito “furioso”. Del resto un sacro furore, probabilmente a motivo delle leggi di ereditarietà, caratterizzò sempre gli Adraniti, già a partire da quel lontano 480 a. C., in cui essi, a fianco di Gelone, nella battaglia di Himera, con il loro coraggio ebbero un effetto propulsore nei confronti degli scoraggiati alleati greci, cambiando le sorti della battaglia; oppure quando, sostenendo il condottiero corinzio Timoleonte, cacciarono i tiranni greci dall’isola; ed in fine quando, purtroppo, alimentarono con un furore non più sacro il fenomeno del banditismo del dopoguerra, che vide negli Adraniti i più numerosi e carismatici aderenti.
L’eredità della lingua sicana, a sua volta riconducibile ad una primigenia lingua nord-europea o protogermanica, diffusasi successivamente, con le migrazioni, sino in area mesopotamica, sopravvive tutt’oggi, a motivo dell’utilizzo rituale e dunque immutato di tale lingua nel prestigioso tempio del dio Adrano, fino al 213 a.C. (data in cui il tempio viene chiuso dai romani al pubblico culto). Il lessema e il concetto di ninna nanna riportano infatti molto indietro nel tempo: con questa cantilena si invitava il neonato ad “entrare” nel mondo “dei nonni”, dal quale proveniva. Inna Ana è infatti traducibile in a.a.t. letteralmente con “dentro” – così da indicare una fase di compenetrazione del neonato nel mondo ultra fisico – e “Antenato”. Non è un caso se tra i Sumeri ritroviamo la dea Innanna, garante tra l’altro della fecondità, considerata, come il suo nome stesso indica, la custode dei valori ancestrali degli Avi, come la latina Vesta, detentrice del sacro fuoco che alimenta la stirpe, la “gentes”, gli Avi. La ninna nanna, νάνι νάνι in greco, Nani Nani in rumeno, aveva dunque alle origini lo scopo di indirizzare e condurre a buon fine il viaggio onirico del neonato, di farlo entrare in contatto con quel mondo, evocando l’ano.
Si noti che tale pratica è oggi riscoperta, per i suoi effetti terapeutici, anche in medicina. Si suggerisce infatti ai parenti di un individuo che riversa in stato di coma permanente di parlare col malato, evocando ricordi piacevoli della sua vita, provocando in tal modo il rientro dello spirito nel corpo. Una pratica simile è descritta nel Libro egiziano dei morti, scritto un paio di millenni prima della nostra era, in cui si suggeriva al parente prossimo del defunto di parlargli all’orecchio, onde guidarlo nel cammino dell’aldilà. Non è neanche un caso che il dio della luna sumero – e si noti che la luna è collegata all’attività onirica – si chiamava Nannar. A proposito di luna e di astri, ci piace far notare inoltre che gli Adhranhiti, cioè i sacerdoti del dio Adhrano, come i sacerdoti sumeri, gli Annunaki, non dovevano essere a digiuno delle scienze astronomiche. Lo testimonierebbe la numerosa simbologia ritrovata nel territorio di Adrano, incisa su manufatti come capitelli, arenaria e ceramiche.
Sono infatti numerose le incisioni che raffigurano stelle e soli a raggi nei pesetti da telaio; la croce potenziata è raffigurata in uno splendido phytos del III millennio a.C.; ancora una croce, sullo stile di quello utilizzato dai cavalieri di Malta, su un piatto del III millennio a. C.; il carro del sole e la spirale che rappresenta la forma delle galassie, sono incisi negli splendidi capitelli di duro basalto ritrovati nel sito del Mendolito posti su colonne ottagonali; in ultimo, la doppia spirale raffigurata in un’ansa del VII millennio a. C. che, con la sua forma ad otto riconduce alla legge dell’ottava e ripropone il concetto di infinito, indicando pure, con questo simbolismo universale, il respiro del mondo che identificava Adrano, sede dell’Avo, con il polmone dell’universo.
Ad majora.