Timoleonte: un greco sotto la protezione di un dio sicano.

“In quel tempo (Timoleonte) se
la passava tra gli Adraniti in garanzia
del Nume (Adrano)”
.
Plutarco, Vita di Timoleonte.

Fa spece constatare che a interessarsi di un evento storico così importante, quale è stato quello che vide una guerra di liberazione delle città sicule, dalle tirannidi da cui erano vessate, sia stato un greco d’oltremare, Plutarco, piuttosto che un greco di Sicilia. Diodoro, storico che ebbe i suoi natali ad Agira, città della provincia di Enna, nella sua corposa Biblioteca Historica dedica pagine e pagine alle mitiche storielle dell’Asia, alla regina Semiramide, alle Amazzoni e al mito di Eracle, e sorvola, quasi, su episodi decisamente significativi per la storia isolana quali furono I fatti riconducibile al 344 a. C., eventi che videro protagoniste prestigiose città della Sicilia. Tocca dunque a noi, seppur distanti millenni dai fatti storici di cui tratteremo, leggendo tra le righe del racconto plutarcheo, il compito di tentar di fare chiarezza su ciò che è stato omesso  o non sufficientemente chiarito, intorno ai fatti salienti di quel momento decisivo della politica isolana. Nel corso della tentata ricostruzione che faremo dei fatti e dei luoghi citati da Plutarco, vanno considerati tre aspetti fondamentali: lo storico greco non conosceva il luogo ove si svolsero i fatti da lui raccontati; mise per iscritto i fatti da lui raccontati quattro secoli dopo che questi si erano svolti; gli premeva mettere in evidenza più le gesta dell’eroe suo connazionale che le vicende siciliane.

Timoleonte a Taormina.

La componente sicula dei  killiroi (Cilliri) e dei Gamoroi –  vedi l’articolo –  che non era scomparsa dopo il colpo di stato perpetrato da Archia, ospite del magnanimo principe siculo Iblone nel 723 a. C., ma era stata relegata all’opposizione politica dopo la presa del potere di Archia, approfittando del momento politico favorevole, chiese alla città di Corinto, città che come altre poleis greche aborriva l’odioso istituto della tirannide, di inviare un contingente di uomini in soccorso dei democratici di Siracusa che si opponevano all’inviso Dionigi il giovane il quale, seppur migliore del padre e in odor di filosofia, rappresentava pur sempre, l’emblema della tirannide. Il senato corinzio si trovava da anni in un grande imbarazzo poiché, come racconta Plutarco, il rampollo di una delle famiglia più in vista della città, se da un lato aveva salvato Corinto dall’istituto della tirannide, contribuendo ad eliminare il responsabile del tentativo di instaurarlo, dall’altro era incorso nel delitto familiare, essendo l’aspirante tiranno proprio il fratello. L’ambasciata siciliana arrivava dunque quanto mai opportuna; nessun uomo meglio di Timoleonte poteva essere garante della democrazia e, inviandolo in Sicilia, Corinto si sarebbe liberata di un peso. Giunto in Sicilia, la prima città che accolse il condottiero corinzio fu la sicula Taormina governata da Andromaco, considerato il primus inter pares secondo le democratiche istituzioni sicule.

Alla volta della sacra città di Adrano.

Timoleonte però, per essere dichiarato la guida di una coalizione di città, aveva bisogno dell’investitura ufficiale di ‘Dictator‘. Questa investitura, che doveva avvenire attraverso il rito della consacrazione, (vedi l’articolo “Gli dèi Palici e le sacre sponde del Simeto. Ducezio principe e sacerdote) poteva avere valore soltanto se sancita nella città “sacra”, come la definisce Plutarco, di Adrano e poteva essere conferita al Duce soltanto dal pontefice massimo responsabile del culto tributato al capo della stirpe dei siciliani, Adrano, ovvero l’avo primordiale. Purtroppo vi era un piccolo problema: la città di Adrano, in quel momento era sotto l’influenza politica di Siracusa la quale, nell’acropoli, aveva installato una propria guarnigione militare. Tuttavia il contingente  siracusano formato da molti mercenari campani pronti a vendersi al migliore offerente, fu facilmente debellato e Timoleonte poté entrare in città sotto i  migliori auspici. Il primo atto del condottiero, una volta accolto nella città sacra, fu quello di rendere onore al dio Adrano che, secondo l’interpretazione degli auguri adraniti e della stessa convinzione del corinzio, lo aveva aiutato durante lo scontro col nemico svoltosi presso le mura della città di Adrano.

Il tempio del dio Adrano o l’ara degli dei Palici?

A questo dilemma ci sottopone il racconto plutarcheo circa il luogo dove sia avvenuta l’investitura del condottiero. Il motivo per cui ci soffermiamo su un particolare che ad una superficiale analisi potrebbe essere considerato irrilevante, è dovuto al fatto che, chiarendo questo episodio, si potranno meglio comprendere la concezione del sacro, le istituzioni politiche e l’etnia di appartenenza della prisca stirpe dei Sicani, primi abitatori dell’isola. Naturalmente, soltanto ad un ricercatore che abita e conosce  le nostre contrade può essere concesso di cogliere le piccole incongruenze del racconto plutarcheo, che, se da un lato nulla tolgono e nulla aggiungono alla bontà del racconto, dall’altro lasciano, se chiarite, meglio interpretare, come sopra affermato, gli aspetti del sacro che caratterizzarono il vetusto territorio adranita. Siamo certi che nella parte del racconto in cui si fa riferimento all’investitura militare e alla consacrazione di Timoleonte,  lo storico abbia fuso in uno due episodi svoltisi in luoghi e tempi diversi. Probabilmente i due diversi riti celebrati per imprimere i crismi della sacralità e, dunque, di una guerra santa condotta dal “Dux” consacrato, si svolsero in due aree sacre diverse: una si trovava dentro le mura, ed era quella ove insisteva il tempio del dio Adrano, l’altra si trovava fuori le mura presso il fiume Simeto, ove insisteva l’ara degli dèi Palici. Nella prima, a nostro avviso, si svolse la consacrazione del guerriero che diventava il braccio armato del capo della stirpe sicula, nella seconda avveniva l’investitura politica e il riconoscimento di Dux da parte dei rappresentanti delle città che partecipavano alla missione di liberazione dalle tiranidi.

L’ara degli dei Palici

Siamo giunti a queste conclusioni sulla base dei precedenti studi, pubblicati su diversi siti che si occupano della materia e su saggi gratuitamente fruibili, studi che ci hanno indotto a ritenere nord europee le origini  del popolo sicano. Tali origini, come spiegheremo sotto, risulteranno congrue con le prassi tradizionali sicule che emergono dal racconto dello storico di Cheronea nella “Vita di Timoleonte“. Descrivendo fin nei particolari l’attentato che il Duce avrebbe dovuto subire durante la sua investitura, ad opera di due prezzolati sicari venuti da Lentini, per fortuna sventato da un terzo Lentinese, lo storico di Cheronea afferma che quest’ultimo, dopo aver calato un fendente sul capo dell’ attentatore, salvando involontariamente la vita a Timoleonte, salì su un’alta rupe che era li vicino e si strinse all’ara, (l’ara era dunque all’aperto) chiedendo la protezione degli dèi e di poter raccontare il motivo della sua azione.

Ara dei Palici

Non solo risulta difficile immaginare un’alta rupe accanto al tempio del dio Adrano, edificio che doveva essere stato edificato in un ampio spazio e che la tradizione orale vuole trovarsi nel luogo ove attualmente sorge la Chiesa Madre, anzi, le dodici colonne della navata, secondo la stessa tradizione, sarebbero ciò che resta dell’antico tempio (vedi l’articolo: “Dove è finito il tempio dell’Avo Adrano?), ma chi ha visitato l’ara degli dèi Palici, formata da un grande masso di arenaria che si trova sul greto del fiume Simeto, non ha difficoltà ad immaginare la scena raccontata da Plutarco svolgersi proprio in quel luogo.

A quanto fin qui sostenuto, si aggiunga il particolare, non poco trascurabile, in cui lo storico afferma che l’uccisore del sicario si strinse all’altare e da questo inviolabile luogo invocava l’immunità. Questo particolare ci riporta a quanto afferma Diodoro nella sua Biblioteca Historica. Nel capitolo in cui lo storico di Agira descrive il rito e l’architettura del tempio dei Palici di Palagonia, emerge che presso il tempio degli dèi Palici trovavano rifugio i servi che fuggivano dai padroni e i malfattori che cercavano l’immunità. Plutarco continua il racconto della vita di Timoleonte affermando che, alcuni astanti sosteneva che era vero quanto affermava  l’omicida andava circa le motivazioni del suo gesto. I dettagli messi in evidenza da Plutarco e da noi raccolti, ci riportano all’idea che nel luogo ove avvenne il mancato attentato, vi era in corso una assemblea e che questa si stava svolgendo in un ambiente all’aperto, in uno scenario agreste dove non mancavano rupi e dove era possibile che gli astanti fossero armati e schierati. La presenza, in questa occasione, di molti partecipanti venuti dalle città vicine, cui fa riferimento Plutarco, ci induce a immaginare che la scena descritta dallo storico, sia quella dello svolgimento di un’assemblea passata alla storia col nome di simmachia ovvero la coalizione delle città libere della Sicilia, qui riunite in arme per acclamare il ”Duce” e seguirlo nell’impresa che prevedeva la cacciata dei tiranni e dei Cartaginesi dall’isola. Un ulteriore indizio ci induce a credere che nel formulare questa possibile ricostruzione siamo nel giusto. Questo indizio prende corpo dalla tesi secondo la quale la cultura sicana trae le sue radici da quella nord europea. Se fosse così, allora si vedrebbe una origine comune con i riti d’investitura che si svolgevano presso i popoli del nord Europa. In Svezia, per fare un esempio, territorio in cui abbiamo trovato sostanziali affinità con l’antica cultura sicana (vedi il saggio “dalla S(I)cania alla Sicania) i re si recavano nella prateria di More, presso la città sacra di Upsala. Qui, in una valle, vi era una grande roccia nella quale i re salivano per ricevere l’investitura ed essere acclamati dal popolo in arme rumoreggiante.

Il tempio adranita a Siracusa (?).

Poiché gli storici greci avevano il vezzo di non mettere troppo in evidenza la cultura degli autoctoni, e Plutarco non fa eccezione, non potendo fare a meno di omettere che Timoleonte si ritenne un protetto del dio Adrano che per ben due volte, nei pressi della città eponima, gli aveva mostrato la sua protezione, afferma che, divenuto signore di Siracusa, fece costruire presso la sua reggia, un tempio dedicato alla divinità sicula che Plutarco genericamente definisce Fortuna, la quale, come detto, lo aveva protetto fin dal momento in cui aveva messo piede nel territorio dell’Avo primordiale, Adrano. Senonché, duecento anni dopo la presa di Siracusa da parte degli alleati, ritroviamo quale genero del tiranno siracusano Gerone II, un certo Adranodoro. Questi, per dignità, come afferma Tito Livio nella storia di Roma, era secondo soltanto al tiranno. Non si fa perciò fatica ad immaginare quale carica potesse ricoprire Adranodoro nella polis più potente dell’isola: era il pontefice massimo. Dal momento che gli Adraniti fra gli altri, seguirono Timoleonte a Siracusa, è plausibile immaginare che vi fossero sacerdoti Adraniti addetti al culto che si svolgeva nel tempio che Timoleonte aveva fatto erigere preso la sua reggia. Ma uno con il nome di Adranodoro, non poteva essere che il ministro del culto esercitato nei confronti dell’Avo Adrano. Altri indizi ci portano a formulare la tesi testé sostenuta: appena cinquant’anni dopo la morte di Adranodoro, Cicerone, che ben conosceva la Sicilia per essere stato pretore e che proprio a Siracusa aveva soggiornato, ci fa sapere attraverso il famoso processo intentato a Verre, che I Siculi dei paesi limitrofi si recavano a Siracusa per rendere onore ad un dio chiamato Urio, divinità ‘antichissima’ che gli isolani avevano in grande onore e che la statua, trafugata successivamente da Verre, aveva la posa di guerriero, tanto da essere definita, in un altro passo del processo, statua di Giove imperatore. Era questa, a detta di Cicerone, uno dei  tre esemplari che rappresentavano la medesima divinità, più “antiche” del mondo. Ora, non si fa fatica a realizzare che l’aggettivo Urio fosse riferito ad Adrano. Infatti Ur, nella lingua germanica, lingua che secondo la nostra tesi era parlata dai Sicani (vedi l’articolo “jam akaram, la lingua dei Sikani“), significa antico, primordiale, mentre il sostantivo Ano che segue l’aggettivo odhr (furioso) , nella stessa lingua significa Avo, antenato, dunque antico.

Ad majora.

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