“Cantami o Musa, degli uomini che vissero in questa valle e attinsero da essa le primordiali forze che il lavico suolo ancora potenti riverbera”. Inizierebbe forse così una ipotetica ricostruzione di vita quotidiana dell’uomo del neolitico, l’Omero che mancò ai prischi Sicani abitatori delle sponde del Simeto, fiume della Sicilia orientale che sulle sue rive ospita antichi luoghi di culto ancor visibili seppur nascosti. La presenza di dolmen, pitture rupestri, spirali megalitiche, altari intagliati sul masso e, ancora, laghetti, cascate, pareti a strapiombo che fanno da argini naturali alle furiose acque del fiume nei piovosi mesi d’inverno, sembrano aver cristallizzato un paesaggio che non è mutato negli ultimi diecimila anni.
Il seguente articolo, necessariamente poco scientifico per la tematica trattata, più che proporre al lettore nuovi indizi che possano testimoniare la bontà delle tesi spesso da noi sostenute intorno alla religiosissima ‘gens’ sicana, come tradisce il significato che abbiamo attribuito al nome Sicano (sich-ano, tradotto verbum pro verbo equivale a se-avo, liberamente traducibile con ‘colui che è consustanziale all’ avo’, che ne è l’erede legittimo), ha natura speculativa, raccogliendo emozioni e intuizioni dovute, probabilmente, allo stato di empatia in cui ci si ritrova venendo a contatto con il territorio della contrada Picone nel quale insiste il riparo Cassataro. Poggiando le mani sulle pitture parietali e il cuore sul paesaggio circostante, capita all’osservatore di dismettere gli abiti dell’uomo tecnologizzato per indossare i panni dello sciamano che si immagina aggirarsi col suo tamburo in questo luogo, supponendo nel contempo, che a lui vadano attribuite le pitture sulla parete di arenaria come esposto nel precedente articolo: ” Lo sciamanesimo. Il neolitico tra Etna e Simeto” .
Abbiamo altresì tentato di riprodurre nella nostra immaginazione, osservando la morfologia del luogo e confortati dalla presenza di tracce geologiche, come poteva presentarsi questo luogo nel quale lo sciamano produceva I suoi stati di esaltazione e di rottura dello stato di coscienza, atti a farlo entrare in una dimensione altra, per poi produrre le celeberrime pitture rupestri, prima della parziale desertificazione verso cui la Sicilia si è irreversibilmente avviata.
La notevole distanza che intercorre tra le due sponde del fiume, adatte a contenere le copiose acque invernali del Simeto presso il luogo dove sono riprodotte le pitture sulle pareti, formate da due enormi sassi appoggiati l’uno sul l’altro, dopo essere rotolati dall’alto e che riproducono la forma dell’utero Materno, dove ritornare per ristabilire il contatto con la dimensione extrafisica interrotta con la nascita, il fiume avrebbe dovuto avere una enorme portata, anzi, qui si sarebbe verosimilmente formato un golfo e proprio in questo golfo torreggiava la bianca collinetta del Riparo Cassataro. Le labili tracce di ceramica neolitica che il colono con il suo aratro ha sparso tutto attorno, testimoniano della millenaria antropizzazione del luogo. La rara presenza di ceramica sigillata suggerisce che il luogo sia stato frequentato ininterrottamente fino ad epoca romana ed ancora fino ad oggi lo è. L’antropizzazione del luogo intercorsa senza una soluzione di continuità fino ai giorni nostri appare ovvia, essendo questa area agricola rimasta a seminativo fino al dopoguerra e per le sue caratteristiche dovette contribuire a costruire l’appellativo che definiva la Sicilia granaio dell’impero romano.
Condividiamo quanto ebbe ad affermare Mircea Eliade, autore di molte intuizioni concernenti la sfera del sacro, che nel luogo in cui si sarebbe verificata l’epifania del sacro, in qualche modo, il culto si sarebbe perdurato nel tempo, anche se in quello stesso luogo si fossero alternate civiltà portatrici di differenti concezioni religiose. Le differenti civiltà, susseguitesi, avrebbero tuttalpiù mutato i riti e i nomi al divino manifestato, come si può constatare dalla conversione di templi pagani in chiese cristiane e queste, a loro volta, in taluni casi, in moschee e di moschee in chiese. Pochi metri più in là del riparo Cassataro, infatti, una nicchia scavata nell’arenaria con incisa sul bianco masso una croce sottostante, tradisce la sensibilità religiosa del proprietario del podere che, accanto al simbolo di culto non poté fare a meno di lasciare ai posteri pure le iniziali del proprio nome. Alla pratica dello sciamano, dunque, millenni dopo, per via indipendente, si era sostituita quella di un uomo che, in quel luogo, seppur in modo diverso, aveva avuto la percezione del divino.
Il ritorno all’utero materno.
Pochi metri più in giù dello scomodo incavo denominato Riparo Cassataro, sul cui lato si appoggia la parete sulla quale, dipinti con ocra rossa si trovano le criptiche figure non ancora collocate con certezza dagli studiosi in un preciso arco temporale, vi è una grotta molto ampia dalla volta alta, molto comoda al punto che, nel secolo passato, essa era stata adattata a mangiatoia per asini e muli di cui vi è visibile traccia. L’ampia grotta non reca al suo interno alcun segno di pitture né di incisioni; quella grotta, pur essendo molto comoda, o proprio per questo, non era stata ritenuta adatta dallo sciamano per intraprendere i suoi viaggi extra corporei. In essa, il nostro, non riusciva a provocare quella necessaria rottura di livello tra lo stato sensibile e quello spirituale del proprio essere. Da ciò si comprenderà la risposta fornita da uno sciamano Dakota ad un suo intervistatore meravigliato della scelta di luoghi impervi per gli stati di trance: “Sono I luoghi che scelgono gli uomini e non viceversa”. Che certe grotte venissero scelte dai sensitivi perché rappresentavano la metafora dello stato embrionale dell’uomo è possibile solo congetturarlo. Certo è, che il Riparo Cassataro, come sopra affermato, ha la caratteristica di avere la forma di un utero e quella di essere costeggiato dal fiume, – quasi che questo formasse il liquido amniotico che nutre e protegge il feto-. A questi metaforici simbolismi cui si richiamava lo sciamano del Simeto, avrebbe potuto aggiungersi tutt’attorno la presenza di una ricchissima vegetazione, – oggi convertita in gran parte in frutteti- in parte ancora oggi apprezzabile e che un tempo potrebbe essere stata boschiva.
Gli sciamani dell’Etna.
Allo stato attuale delle ricognizioni archeologiche effettuare lungo le due rive del fiume Simeto, colpisce il fatto che siano stati ritrovati soltanto i frammenti di due scheletri appartenenti ad epoca neolitica, entrambi dipinti con ocra rossa. Uno di questi è stato ritrovato nel territorio di Adrano, l’altro in quello di Paternò, rispettivamente in C.da Fontanazza e Trefontane; I due luoghi si trovano non lungi dalle pitture del Cassataro, il quale oggi fa parte del territorio di Centuripe. La tomba ritrovata in C.da Fontanazza presso Adrano, limitrofa, come affermato, al Riparo Cassataro, ha la forma ellittica. Un’ansa a forma di doppia spirale, è stata ritrovata in contrada Tabana, anche questa poco distante da Fontanazza, mentre a Trefontane, una contrada presso Paternò dove è stato ritrovato il secondo scheletro ocrato, è stato rinvenuto un reperto assai curioso, si tratta di in un lungo collo con in cima una testa che, secondo la descrizione della dottoressa Maniscalco che esegui I saggi di scavo, appariva come una via di mezzo tra la testa di un uomo e quella di un animale, il collo portava una lunga incisione ( un sacrificio per sgozzamento ?). Se si trattasse di una figura teriantropica, sarebbe l’unico caso di manufatto di questo tipo; infatti di solito, le figure teriantropiche sono presenti sotto forma di dipinti parietali. Potrebbe però trattarsi di una figura che riproduce un sacrificio per sgozzamento e nell’intenzione dell’artista vi era la volontà di riprodurre la smorfia di dolore della vittima. Comprendiamo bene che questa ultima interpretazione, considerato che si parla di reperti neolitici, possa apparire assai azzardata sebbene, osservando la precisione stilistica con cui sono state tracciate le figure incise nelle pareti della grotta dell’Addaura, a Palermo, che risalgono al Paleolitico, un dubbio sulla presunta rozzezza stilistica dei nostri antenati preistorici rimane legittimo. Tutte interpretazione rispettabili quelle esposte, ma nessuna di esse può essere suffragate da prove. Da parte nostra intendiamo limitarci soltanto ad esporre delle intuizioni; una di queste intuizioni ritiene che un fenomeno universale, quale è quello dello sciamanismo, non può non avere interessato il territorio etneo, il quale più d’ogni altro, a motivo dei ben noti fenomeni legati alla presenza del vulcano, provoca noti fenomeni di magnetismo.
A questi fenomeni, individui particolarmente sensibili, avrebbero potuto dare risposte fisiche e iperfisiche, come dimostrano nuove discipline scientifiche quale l’archeoacustica. Ne sarebbe prova, a nostro modo di vedere, che qui, e non altrove, venne edificato il tempio del dio nazionale Adrano. Qui, in questo territorio alle falde del vulcano, ricchissimo di sorgenti, cascate e vegetazione, per dirla con Mircea Eliade, si sarebbe potuta realizzare la più importante manifestazione del sacro.
L’uomo che vede
Il significato che si attribuisce al termine sciamano è, generalmente, quello di colui che sa, che conosce. Noi, in virtù del metodo interpretativo messo in atto e che i lettori ben conoscono, lo traduciamo con ‘la mente che vede’ essendo il nome saman composto da sa vede, dal verbo sehen e mn mente. Il termine samana in India viene conferito ai neofiti che intraprendono la via dell’ascetismo. Esaminando I reperti archeologici ritrovati nell’ampio territorio etneo, risalenti al periodo neolitico, si rimane stupefatti dalla inusitata frequenza con cui si trova riprodotto un occhio cigliato stilizzato. Il suddetto occhio è riprodotto secondo lo stile della impressione su ceramica. Si tratta di un occhio stilizzato, realizzato attraverso la figura geometrica del rombo, a volte con due rombi concentrici, l’uno, più piccolo, che funge da pupilla, Inscritto nell’altro, a volte un rombo e un punto al centro di questo,
Poiché l’uomo ha sempre avvertito l’esigenza di trasmettere ai posteri, ma anche ai contemporanei, una propria rappresentazione del mondo esteriore ed interiore attraverso il simbolismo, ci chiediamo quale concetto si intendesse veicolare con la produzione di “un” occhio, forse che vi fossero individui particolarmente carismatici che erano in grado di vedere cose che ad altri non era concesso vedere? Si intendeva veicolare la metafora della presenza di un terzo occhio non fisico, quello della mente? Il mito collegato al Dio Apollo e al dio Pán proprio a questo si riferisce: Apollo, derubando Pán del suo terzo occhio, acquisisce il dono della veggenza. Quanto da noi ipotizzato per semplice intuizione, diventa plausibile se si considera che la pratica sciamanica è universalmente considerata l’arte di entrare nel mondo dell’invisibile. Ecco, dunque, che il concetto di vista entra a far parte del campo semantico dell’aldilà, di una dimensione altra, in cui I semplici organi umani della vista non sono sufficienti per sbirciare.
Il compito dello Sciamano.
Al ritorno dal suo viaggio, va osservato che lo sciamano non ritorna più’ colto, ně più saggio, ma egli ha semplicemente soddisfatto a un compito che il suo ruolo sociale gli ha imposto, egli ha portato a compimento una missione. Il viaggio sciamanico nel mondo dell’invisibile ha dunque lo scopo di indagare, ‘vedere’ e comprendere la causa che ha destabilizzato il mondo visibile abitato dagli uomini e, nei limiti del possibile, contrastarla. Perciò lo sciamano può essere definito un tecnico dell’invisibile. Il prestigio di questo operatore che si destreggia tra le forze che albergano nel mondo extrafisico consiste, dunque, non tanto nella sua capacità di compiere il viaggio nel mondo ultrafisico ove operano forze diverse rispetto a quelle che agiscono sulla terra e tuttavia in grado di influenzarle, – viaggio che sarebbe stato possibile compiere a chiunque avesse fatto uso di droghe, erbe psicogene o altri mezzi-, ma nella capacità di ristabilire l’armonia interrotta contrastando le forze che hanno causato la disarmonia. Per realizzare ciò, lo sciamano avrebbe dovuto interagire con gli elementi extrafisici che erano stati la causa della destabilizzazione. Il ruolo dello sciamano era, perciò, quello di intervenire tutte le volte che incombeva uno stato di disarmonia, a lui erano affidati il benessere e la prosperità del consorzio umano e della natura in cui questo era immerso. Tutte le culture del mondo hanno conosciuto la figura dello sciamano, anche se gli hanno dato nomi diversi, per poi liberarsene in tempi moderni. In Persia erano chiamati maghi, in Palestina profeti ecc. Infatti, esaminando il comportamento, ben descritto in 1Re XVIII 41,46, tenuto dal profeta Elia con il suo abito di pelle di capra, che invocando la pioggia poneva fine alla siccità – tacerò in questa sede della resurrezione del figlio della vedova provocato da Elia e descritto in 1Re 17, che trova anch’esso analogie nelle guarigioni sciamaniche — chi non vi trova una analogia con la danza della pioggia ancora praticata in talune aree geografiche della terra, da tribù che non hanno perso il rapporto con la natura e le forze che la governano?
Ad majora.
Complimenti all’autore del testo. Aggiungerei solo un altro termine oltre a mago, profeta e altro: chiaroveggente da veder chiaro. La pratica della riflessione comporta il vedere attraverso luci specchianti, comunque diverse. Tecniche sperimentali ed esercizi fisiologici lo consentono.
Stimatissimo signor Lo Russo, desideriamo ringraziarLa per il notevole contributo fornito all’argomento. Consideri il nostro sito come un’agorà in cui Le è stato assegnato un posto in prima fila. Pertanto saremo felici di ospitarLa ancora onde, a beneficio dei lettori e nostro, si possano ampliare le conoscenze.
Francesco Branchina