Lo Sciamanesimo.
Il Neolitico tra Etna e Simeto.
Stupirà il titolo di questo articolo il lettore? Se egli ci ha attentamente seguito in tutte le tappe delle ricerche condotte fin qui e ha acquisito dimestichezza con il nostro metodo di approccio alla ricerca e all’investigazione, non lo crediamo. Inizieremo questo articolo ricordando a chi ci segue, che l’antico territorio di Adrano presentava caratteristiche tali da potere influenzare, indirizzare o stabilire un rapporto privilegiato con il fenomeno divino, al punto che gli antenati, consci che lo spazio non è omogeneo, ma presenta delle rotture dentro le quali si manifestano fenomeni non comprensibili dalla mente razionale, vi edificarono un tempio, un tempio caro a tutti gli abitanti dell’isola. Era, questo tempio, o più verosimilmente un’ara, dedicato all’Avo primordiale Adrano. Si ricorderà il lettore, che in altri numerosi nostri articoli erano state descritte le caratteristiche che rendeva particolare la casta sacerdotale deputata al culto dell’Avo. I componenti di questa erano definiti gli evocatori del furore dell’Avo, cioè Adraniti. Ma poiché, come è ovvio che sia e come sempre presumiamo sia stato, la religiosità scaturisce da quel moto dello spirito individuale che si manifesta con modalità differenti, è plausibile che ognuno la viva a modo proprio e, a volte, fuori dai parametri canonizzati da secoli di trasmissione. Fu per tale irrequieto moto spirituale, infatti, che sorsero gli ordini monastico cavallereschi nel Medioevo; per tale sentimento si fecero strada forti personalità che preferirono portare all’estremo l’esperienza di vita attraverso il romitaggio; e così avvenne pure per quella categoria, forse la più antica fra tutte quelle apparse sulla terra, gli sciamani, scomparsi nel tecnologico, evoluto, emancipato occidente, ma ancora molto attivi in centro America, Africa ed Europa dell’est. Di quest’ultimi abbiamo scelto di occuparci nell’arduo tentativo di comprendere e ricostruire meccanismi antropologici che caratterizzarono il territorio preistorico non soltanto etneo. Ebbene, abbiamo motivo di credere che questa categoria di sensitivi fosse stata presente in Sicilia dagli albori del mondo fino all’età del bronzo, per poi sparire, sopraffatta verosimilmente dalla raffinata organizzazione di una casta sacerdotale che, emulando l’organizzazione a cui era approdata la casta guerriera, tentava di darsi un proprio assetto gerarchico. Pertanto, la realizzazione di questo ambizioso progetto non prevedeva la presenza di “ostacoli” in corso d’opera che lo impedissero, lo ritardassero o lo modificassero.
Ma tornando all’argomento dello sciamanesimo praticato là dove il culto primigenio, quello dell’Avo Adrano, molte migliaia di anni prima dell’era volgare si impose nell’isola con l’apparire dei Sicani, bisogna affermare che non si riuscirebbe a comprendere del tutto il fenomeno senza il soccorso di diverse discipline scientifiche.
Infatti ognuna di esse tornerà utile per colmare le lacune che inevitabilmente si riscontrano analizzando un così ampio arco temporale, cioè quello che faremo iniziare con il ritrovamento dei più antichi reperti archeologici che corrispondono al neolitico, fino all’età del bronzo.
I REPERTI DEL VII MILL. a.C.
I più antichi reperti ritrovati nel territorio adranita sono stati datati dagli studiosi al VII mill. a.C. Ma poiché esistono reperti ancora più antichi in Sicilia, come le pitture e le incisioni rupestri dell’Addaura e di Cassibile, risalenti al 20.000 a. C., la presenza di una tale raffinata cultura ci induce ad ipotizzare che, non solo questa civiltà sia più antica della data riportata, e ciò dovuto al motivo di un periodo di incubazione della stessa, ma che anche il territorio adranita fosse stato antropizzato fin da quella data pur non avendo ancora rinvenuto reperti ad essa riferibili. Ma ciò rimane tuttavia un argomento di second’ordine rispetto alle tesi che formuleremo qui di seguito.
Il 7.000 a.C. rappresenta un periodo in cui è possibile rintracciare, in aree geografiche distanti tra loro, numerosi punti di contatto. Citeremo quale esempio la evolutissima cultura di Mergahrt in Pakistan, di Alaca Huyuk in Anatolia, ed ancora di Moenjo-daro e di Harappa poiché nel nostro museo archeologico, ospitato nelle prestigiose sale del castello costruito dagli Altavilla nell’XI sec., si conservano reperti di terracotta, di cui diremo più giù, sui quali vi sono impressi simboli che riconducono alle culture su citate.
Ma torniamo all’esamina del territorio di nostra pertinenza. Tutto attorno al nucleo abitativo della Adrano neolitica in cui sorgeva il santuario, omphalos della collettività, verosimilmente abitato soltanto da sacerdoti, vi fu un lungo periodo di antropizzazione senza soluzione di continuità, protrattosi a cominciare dal neolitico fino all’età del bronzo come si evince dagli studi della dottoressa L. Maniscalco pubblicati sulla rivista Tra Etna e Simeto. Nel corso del II millennio a.C., venne a modificarsi, secondo le nostre ipotesi, la geografia dell’antropizzazione del territorio. Infatti, del periodo successivo all’età del bronzo antico non verrà più rinvenuto alcun reperto in situ.
Il motivo del grande cambiamento potrebbe essere stato causato, secondo la nostra ricostruzione, dai rumori di guerra che giungevano dall’oriente, causati dagli appetiti di conquista di quei popoli nei confronti dei vicini, Sicilia inclusa, dei quali l’episodio di Minosse re di Creta, giunto in Sicilia per assoggettarla, é forse soltanto il più noto giunto fino a noi. Gli abitanti dei circa dieci villaggi sorti nei pressi del tempio dell’Avo Adrano, ritenendo che questi fossero poco difendibili (vedi l’articolo: il pagus è il territorio. Adrano antica) li abbandonarono aggregandosi attorno alla fortezza naturale della Rocca a sud dell’ampio territorio adranita. Qui, come già detto, sorgeva il tempio edificato sull’acropoli ed il villaggio, verosimilmente abitato dai soli addetti al culto e dagli inservienti. Come d’uso in quell’epoca il tempio doveva essere circondato da un recinto sacro costituito da un alto muro. Il recinto era edificato con enormi pietre poligonali sovrapposte, e dovrebbe coincidere con quello ancora esistente in C.da Difesa. Il tempio era circondato da un esteso bosco sacro attraversato da ruscelli. In esso pascolavano allo stato semi brado le vittime selezionate per il sacrificio. Duemila anni dopo l’epoca qui analizzata, Eliano, rifacendosi a Ninfodoro, potrà affermare che vi era la presenza di mille cani a guardia del tempio. L’acropoli così descritta, con molta probabilità avrebbe conservato la caratteristica di una cittadella, una città nella città, come appariva al visitatore l’acropoli di Atene e il Campidoglio a Roma. Plutarco, nella vita di Timoleonte nel definire città sacra Adrano, aveva forse in mente la cittadella dell’acropoli. Con il trasferimento dei cittadini dei villaggi limitrofi nel nuovo sito si ritenne probabilmente necessario ampliare la fortezza preesistente dell’acropoli, realizzando così una doppia cerchia muraria. Il villaggio dunque, si era adesso trasformato in una città con un numero di abitanti che variava da quindici a venti mila individui (per la formulazione di quest’ultima tesi consultare l’articolo: I Sicani in Adrano: il pagus è il territorio) numero notevole per quei tempi. Prima che avvenisse il radicale cambiamento, é probabile che al culto ufficiale tributato all’Avo, gestito dai sacerdoti, nei villaggi vicini in seguito abbandonati, si affiancasse una pratica gestita da figure enigmatiche, una pratica che fosse una via di mezzo tra il magico e il religioso. A loro volta questi manipolatori di forze extrafisiche assumevano un ruolo che stava tra lo psicopompo, il taumaturgo, il prete; abbiamo descritto l’antichissima figura dello sciamano.
Interrotta la vita del villaggio, come affermato sopra, non accettati dalla casta sacerdotale ufficiale che deteneva il monopolio del sacro e condivideva quello politico con il principe e il senato degli anziani, gli sciamani si ritrovarono sempre più emarginati nella società e mano a mano si estinsero.
Riparo Cassataro. Lo Sciamano di Adrano.
Tollerati all’inizio e, come ipotizzato sopra, emarginati in seguito, nel nuovo centro urbano formatosi dalla riunione dei villaggi circostanti, questa obsoleta categoria di individui ebbe vita difficile: degli sciamani, non oltre la decina, qualcuno scelse di vivere in romitaggio, altri si adeguarono al nuovo corso degli eventi fino all’estinzione. Ci chiediamo: fu uno di questi ultimi sopravvissuti sciamani a dipingere con l’ocra rossa le figure su una delle pareti della roccia di arenaria del Riparo Cassataro? Il luogo ove potrebbe essere vissuto il presunto eremita, luogo in cui fu rinvenuto l’unica sepoltura di cui diremo oltre, presenta infatti le caratteristiche morfologiche e paesaggistiche ideali per ottenere gli stati di estasi attraverso i quali lo sciamano raggiungeva la dimensione ultramondana. Infatti, questo luogo caratterizzato dalla presenza di due enormi rocce poggiate l’una sull’altra, sembra formare un utero dentro al quale lo sciamano, durante gli stati alterati di coscienza, sarebbe potuto ritornare allo stadio prenatale.
Se siamo giunti ad avanzare una così “bizzarra” tesi lo dobbiamo alla grande mole di indizi che abbiamo trovato a suo supporto e che continueremo ad elencare in seguito.
Comparazione e analisi dei reperti neolitici.
Il primo indizio che ci ha indotto a formulare la tesi esposta consiste nel ritrovamento, in C.da Fontanazza, nelle vicinanze del Ricovero Cassataro, di uno scheletro – si tratta, come affermato, dell’unica tomba scoperta nel villaggio neolitico di Fontanazza – colorato con ocra rossa. Il corredo funebre deposto accanto allo scheletro era poverissimo, cosa che ben si adatta ad una vita vissuta nel modo più austero possibile quale era quella vissuta da monaci, sciamani, filosofi di ogni epoca. La ceramica sparsa nel villaggio in cui si rinvenne lo scheletro era impressa con decorazioni che in una ottica più laica viene valutata quale una prima forma di scrittura ideografica o comunque un simbolismo che veicolava concetti di ordine metafisico. Gli studiosi fanno risalire la ceramica impressa al periodo neolitico (Laura Maniscalco Tra Etna e Simeto). Lo scheletro, come affermato, era stato trattato con ocra rossa, anche i dipinti del Riparo Cassataro erano stati realizzati utilizzando questo minerale ferroso. L’ocra rossa è stata utilizzata anche per le pitture che si trovano sulle pareti delle grotte paleolitiche di molti luoghi in Europa. Pech Merle, in Francia, risalente a venticinquemila anni fa é solo una tra le tante. Lo scheletro, come affermato, è stato ritrovato nella contrada Fontanazza, adiacente al Riparo Cassataro, dentro ad una fossa ellittica ( recinto sacro? I druidi durante le loro pratiche rituali, prima di iniziare, tracciavano col lituo, un cerchio attorno.) foderata di lastroni, con frammenti di ceramica a decorazione impressa, tra essi una ciotola – oggi, forse, grazie ad un nuovo approccio nei confronti della ricerca e una diversa valutazione delle conoscenze scientifiche possedute nel mondo antico, da parte degli studiosi, si sarebbe stati più attenti al contenuto della ciotola, se ve ne fosse stato, e, analizzato, chissà, magari si sarebbero potuti trovati i resti di sostanze psicoattive. Infatti, è appurato che gli sciamani di tutte le coordinate geografiche del mondo, per favorire i loro viaggi extracorporei utilizzavano piante psicoattive: dal peyote del centro America, all’ayahuasca dell’Amazonia -.
Il Riparo Cassataro si trova sulla riva destra del fiume Simeto, ad un centinaio di metri dal suo letto. Ma quello che assume ai nostri occhi l’importanza di un indizio è dovuto alla presenza dell’ocra rossa sullo scheletro dell’illustre defunto. Infatti, questo minerale viene utilizzato per veicolare, in termini simbolici e metafisici, il valore del sangue vivificatore del corpo. Esso, utilizzato sullo scheletro, assume il valore di auspicio per una rinascita dopo la morte. Un indizio ulteriore che ci porta a formulare l’ipotesi sopra esposta circa la frequentazione di luoghi carichi di forze, ce lo fornisce Cicerone nel De Divinazione. Il famoso romano, che al suo tempo fu pretore anche in Sicilia, faceva un lungo elenco delle nazioni straniere in cui saggi, sacerdoti, re, uomini di stato, si recavano per un periodo di tempo in luoghi isolati fuori dalla città, per meditare. Presso il popolo Veda, il re, in vecchiaia, quando percepiva l’approssimarsi della propria fine, abbandonava il proprio regno consegnandolo all’erede, per recarsi fra le montagne dell’Himalaya dove, vivendo da eremita dentro una delle numerose grotte montane, attendeva la morte.
Significato del simbolismo dipinto nel ricovero Cassataro.
I dipinti sulla parete del rifugio, rimangono non soltanto enigmatici, ma persino sulla loro datazione i pareri degli studiosi sono discordanti. La dottoressa L. Maniscalco avvalendosi del metodo comparativo propone per i dipinti la datazione del neolitico medio. Lasciando la disquisizione cronologica agli accademici, noi ci occuperemo del rebus che circonda le pitture in questione. Lasciando sospesa la difficile interpretazione della figura umana presente sulla parete che potrebbe rappresentare lo stesso sciamano protagonista del dipinto e la metafora, a motivo della inarcatura delle braccia sui fianchi, della danza circolare che egli compie, e quella che riguarda le altre figure sbiadite dal tempo, ci soffermeremo sul disegno del reticolo ad alveare. Dipinti reticolari appaiono in diverse pitture parietali di grotte distribuite in varie parti del mondo; a Catal Huyuk per esempio, in Anatolia. Il sito di Catal Hujuk è, probabilmente, da identificarsi con una necropoli, una “città dei morti” risalente al 7.000 a.C. Le case o cappelle ivi costruite, in alcune delle quali vi sono contenute le ossa dei defunti e in altre simboli cultuali, sono tutte unite tra di loro, appoggiate l’una all’altra, parete contro parete, senza alcun corridoio che separi l’una cappella dall’altra, insomma, un reticolo impenetrabile in cui l’accesso ad ogni camera era consentito soltanto attraverso una apertura praticata nel tetto, e grazie ad una scala che conduceva dall’apertura alla Camera funeraria.
Ci chiediamo: avrebbe forse indicato anche nel Ricovero Cassataro, quel reticolo dipinto in ocra rossa sulla parete, una dimensione ultraterrena? Quella dei morti? Nella quale lo sciamano, durante i suoi viaggi fuori dal corpo sarebbe dovuto entrare in contatto con i defunti? Presso gli sciamani jacuzzi della Siberia, lo sciamano, nell’intraprendere il suo viaggio nell’aldilà, nel regno dei morti, si affida allo spirito guida dei propri familiari defunti: al nonno (non è un caso che nella teogonia delle civiltà antiche vi sia sempre il riferimento al nonno quale capo e protettore della stirpe. Il lessema nonno viene reso in alto antico tedesco con il termine Ano. Ur-Ano, Jah-Ano, Odhr-Ano, Ano… per Greci, Latini, Sicani, Sumeri.. ebbero tale ruolo.
Lo sciamanesimo nell’antica Grecia.
Ad un viaggio nel regno dei morti intrapreso dai vivi si fa riferimento sovente nella letteratura greca. Il viaggio nell’Ade rappresenta una tappa necessaria per coloro che anelano di conoscere il futuro. Nelle narrazioni greche, oltre al riferimento di diverse figure incontrate dal viaggiatore, non è mai assente la figura chiave del congiunto defunto: ad Ulisse, che ha il padre ancora in vita, appare “ l’indovino” Tiresia e comunque in contemporanea a questi la madre; a Dante, da buon esoterista qual’era, farà da guida il padre spirituale Virgilio; ad Enea appare il padre Anchise, garante della stirpe, anch’egli guiderà l’eroe e la ninfa che lo accompagna.
A proposito del viaggio di Enea nell’oltremondo, non ci sembra fuori luogo aprire qui una parentesi. Infatti ci sembra alquanto sospetto ciò che viene affermato nel sesto libro dell’Eneide in cui, Enea, assecondato nella sua richiesta dalla Sibilla – sciamana(?) – viene invitato a cercare una pianta che, una volta trovata, consentirà ad entrambi di scendere nell’Ade. Infatti, come emerge alla fine del VI libro, nell’oltremondo l’eroe viene accompagnato dalla Sibilla o sciamana. Vediamo ora come Virgilio descrive la pianta: essa ha delle bacche gialle e cresce sui tronchi delle querce. Coincidenza vuole che anche i druidi, che credevano nella sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo, raccoglievano il vischio che cresceva sulla corteccia della quercia o verosimilmente, raccoglievano la pianta appena descritta. Che quello dell’eroe greco possa essere stato un viaggio onirico indotto da sostanze psicogene, lo conferma, tra le righe, lo stesso Virgilio alla fine del VI libro, quando descrive le due porte per le quali si accede al sogno: per l’una si accede ai sogni veri, per l’altra a quelli falsi.
Ma anche alcune pratiche apparentemente religiose riscontrate in Grecia sembrano alquanto simili a quelle sciamaniche a noi note. Le danze frenetiche praticate al suono martellante del tamburo durante i riti bacchici avevano lo scopo di provocare una rottura nello stato di coscienza del danzatore per entrare in uno stato di trance. Le frenetiche danze al suono del flauto, lo strumento del dio Pan, divinità del caos e della frenesia orgiastica, osservate da Senofonte durante l’attraversamento della Paflagonia e raccontate nell‘Anabasi, sembra si pongano sullo stesso piano. Non meno sospetta ci appare la danza in circolo che Orfeo impone ai più giovani fra gli Argonauti. Il suo fine, a detta del narratore, ha lo scopo di fare cessare la tempesta consentendo alle navi di salpare per la Colchide. Orfeo, suonatore di lira, lo strumento che emana note armoniche, in quella circostanza fa battere con forza le spade sugli scudi. Da allora, afferma l’autore del poema, Apollonio Rodio, i Frigi onorano Rea col suono di trottole e tamburi. La danza dello sciamano Orfeo – secondo quanto tramanda la mitologia anche lui avrebbe intrapreso un viaggio nel regno dei morti-, ci ricorda la Danza del Sole praticata dalla tribù dei dacota, in America, durante la quale si ottengono visioni. Anche i magar del Nepal utilizzano strumenti a percussione per raggiungere il mondo degli spiriti grazie ad una alterazione della coscienza. Mezzi alternativi alle piante psicoattive, oltre alle danze accompagnate da ritmi frenetici, possono essere l’iperventilazione, il digiuno, la privazione del sonno, la disidratazione. Per mezzo di droghe, piante psicogene o danze frenetiche lo scopo che raggiunge lo sciamano vuole essere il medesimo: un viaggio nel mondo degli spiriti ritornato dal quale, come hanno osservato studiosi occidentali che hanno osservato il fenomeno, lo sciamano dipingeva sulle pareti rocciose le scene che avevano visto nel loro viaggio.
Sa. Man ovvero il conoscitore.
Nel tentativo di ricostruire un periodo storico e culturale così lontano nel tempo, abbiamo intrapreso un percorso circolare per finire, citando Senofonte, nel luogo in cui la pratica dello sciamanesimo o, rifacendoci ad Apollonio Rodio, della magia, persistono ininterrottamente dai suoi inizi fino ai giorni nostri: la Siberia. Già la vicina regione della Georgia (si pensa che questa regione corrisponda alla mitica Colchide) come anticipato sopra, veniva citata da Apollonio rodio nelle Argonautiche per essere stata la patria delle maghe Circe e Medea, quest’ultima nipote della prima. Il termine sciamano lo si fa derivare dalla lingua tungusa, passato successivamente a quella russa con il termine saman.
La parola “sciamano” deriverebbe dalla lingua tungusa e indica qualcuno che sa. Pur rimanendo d’accordo sul significato, non concordiamo circa la sua derivazione. Il termine deriverebbe, a nostro avviso, dalla lingua germanica e risulta composto dall’unione dei lessemi sa dal verbo sehen vedere, nell’accezione metafisica di conoscenza, e dal nesso consonantico mn (riscontrabile nel teonimo Mnemosine) mente, liberamente traducibile con colui che vede con l’ausilio della mente. Calza perfettamente a tal proposito quanto affermato da Pausania circa l’antro della Beozia attraverso il quale si accedeva agli inferi. Prima di entrarvi bisognava bere a due fonti: una chiamata Lete, la dimenticanza (della vita vissuta), l’altra Mnemosine per ricordare ciò che si sarebbe visto nell’aldilà. Ma al di là del dibattito semantico sul termine sciamano, a noi preme stabilire la correlazione tra questa categoria di sensitivi nei diversi luoghi geografici e la produzione dei disegni a loro attribuiti negli stadi di trance: scale, reticoli, rombi, quadrilateri, zigzag, figure teriantropiche ecc.
Il terzo occhio.
Concluderemo la nostra ricostruzione con l’analisi di un frammento di ceramica ritrovato fra il misero corredo funebre dello scheletro ocrato che si collega al concetto di mente e alla sua capacità di vedere oltre. Il frammento presenta, realizzato attraverso la tecnica della impressione, un occhio romboidale. Ci chiediamo: possiamo considerare, a motivo del simbolismo riprodotto, questo frammento un ulteriore indizio a carico della tesi sopra esposta? Nell’immaginario collettivo (o dovremmo dire fra le consapevolezze degli antichi?) appartenente a molti popoli antichi si era fatta strada l’idea che vi fosse un terzo occhio, non umano, l’occhio onnisciente che ritroviamo nella iconografia di diverse civiltà antiche, avrebbe permesso a pochi individui dotati di particolari sensibilità, di attivarlo, di “vedere’ ciò che l’occhio umano non avrebbe potuto vedere. Era questo un vedere metafisico. Alcune frange di Indù sono ancora talmente convinti di questa asserzione che dipingono di “rosso” un cerchietto opportunamente praticato sulla loro fronte, imitando (o evocando) la presenza di un terzo occhio. Gli scienziati, da un altro canto, cominciano a scoprire le incredibili e numerose funzioni a cui la ghiandola pineale, che si trova nell’ipotalamo, sarebbe deputata. Una di queste funzioni consiste nel fare interagire il corpo con la mente favorendo uno stato meditativo di quest’ultima. Alcuni studiosi si sono spinti ad ipotizzare, proprio per le straordinarie caratteristiche appartenenti alla ghiandola pineale, che il terzo occhio possa essere la trasposizione mitologica di questa ghiandola dalla forma di una pigna (il rombo impresso nella ceramica neolitica?) di cui si trova una copiosa iconografia in tutti i popoli e in diverse epoche.
Ad majora.