Da un decennio, a partire dalla pubblicazione del saggio “Adrano dimora di dèi nella storia del Mediterraneo greco”, apportando numerose prove circa l’impossibilità di una fondazione Dionigiana della vetusta città di Adrano che ospitava l’atavico tempio sicano dedicato all’Avo, sosteniamo che il tiranno non si sarebbe potuto trovare nelle condizioni ottimali per costruire le mura ciclopiche della città di Adrano, a lui indebitamente intitolate durante gli anni Settanta. Il perimetro delle poderose mura, avrebbe infatti inglobato al proprio interno un’area stimata di circa sessanta ettari. Per lavorare le pietre poligonali, alcune di diverse tonnellate di peso, con le quali è costruito il muro, sarebbe stato dunque necessario attingere da più cave e ciò necessitava di lunghi periodi di pace durante i quali scalpellini, ingegneri e manovalanza varia potessero dedicarsi alla costruzione. Ma su ciò sia sufficiente quanto abbiamo affermato nel citato saggio e in molteplici articoli apparsi sul web; in questa sede vogliamo invece riprendere brevemente l’argomento per segnalare ai nostri assidui lettori, come da un errato inizio segua una fine disastrosa. Pertanto è nostro obiettivo evitare che il rimedio offerto dagli accademici, che di seguito esporremo, sia peggiore del male che si intende curare.
LE INCONGRUENZE DELLE TESI ACCADEMICHE.
Nel corso del convegno tenuto il 13 febbraio 2020 nelle prestigiose sale del dongione normanno di Adrano, che ospita l’importante museo archeologico, la relatrice, dottoressa La Magna, che da quattro lustri si interessa alla vastissima area archeologica adranita, finalmente, sosteniamo noi pionieri della tesi, affermava che non poteva essere stato il tiranno siracusano Dionigi il vecchio ad aver eretto le mura poligonali di Adrano. Se tale affermazione ci faceva sperare in una revisione della tesi che attribuiva ai Greci la costruzione, certi che si sarebbe anticipata la data della messa in opera della ciclopica muraglia, la delusione non si fece attendere nel constatare che archeologi di tale prestigio si lasciassero andare a tesi prive di fondamento in cui non si teneva affatto conto del contributo offerto dalla multidisciplinarietà. Dimostreremo qui di seguito che, come gli accademici errarono la prima volta attribuendo a Dionigi la costruzione delle poderose mura, in un errore ancor più grave cadono adesso posticipando la costruzione di esse in epoca ellenistica.
DA DIONIGI A GERONE II.
in una visione grecocentrica della storia isolana di cui neanche gli accademici riescono a liberarsi, notando le evidenti incongruenze nella tesi che vedeva Dionigi quale ecista e costruttore della fortezza adranita, nella su citata conferenza si tentava di ripiegare su Gerone II pur di far rimanere in ambito greco il prestigio di una costruzione che, per dirla con il famoso visitatore del ‘700, J. Houel, “sono veramente mura meravigliose, unico genere in tutto il mondo. Né le basature del Pantheon, e del Colosseo, e della mole Adriana, né il foro romano, e gli anfiteatro del mondo antico, né i ruderi dei più vetusti templi di Segesta e di Selinunte in Sicilia, né le macerie di Ercolano e di Pompei prestano un simile spettacolo! Queste mura colossali par che emettano il grido: Noi siam fattura dei Giganti! Le generazioni umane non ci curarono, ma noi sfidiamo i lunghi secoli, eccoci restammo immobili! ” S. Petronio Russo, Storia di Adernò. Analizzando velocemente gli eventi storici che si sono susseguiti nell’area adranita a partire dal V sec. a.C., raccontati dagli storici del tempo tra i quali Diodoro, Plutarco, T. Livio, emerge che le ciclopiche mura erano pre esistenti all’epoca ellenistica e che Gerone II ancor meno di Dionigi il vecchio, sarebbe stato nelle condizioni di poterle erigere, preso com’era dagli eventi bellici che lo vedevano contrapposto prima ai Romani e, successivamente, dopo aver stretto alleanza con questi, ai Punici. Ma andiamo per ordine.
Escludendo che per i motivi da noi esposti da un decennio a questa parte, e dalla dottoressa La Magna il 13 Febbraio 2020, la costruzione delle mura possa essere attribuita a Dionigi o a suo figlio che cedette a Timoleonte nel 344 a.C. la signoria delle città sottoposte alla tirannide siracusana, si potrebbe immaginare che la loro costruzione fosse stata intrapresa durante il felice periodo timoleonteo. Infatti, questo breve periodo, come dedotto dagli studi del dottor Barresi (Dall’Etna al Simeto), vide la città di Adrano al centro di una ripresa economica dopo la riconquista della perduta democrazia da parte delle città siciliane sottoposte alla tirannide siracusana. Tuttavia, se un’opera così imponente fosse stata costruita durante il periodo in cui il condottiero greco cominciava da Adrano la sua ascesa militare e politica (qui si era infatti recato, presso il tempio dell’Avo divinizzato Adrano, per essere investito dalla casta sacerdotale adranita e nello stesso tempo per aver affidato un esercito formato dagli Anfizioni onde appoggiare la campagna anticartaginese – Diodoro, Biblioteca Historica lib. V, cap. XV-) , Plutarco, lo storico greco che ci lasciò la biografia del condottiero di Corinto, non avrebbe potuto evitare di fare riferimento ad un’opera titanica che avrebbe implicato l’apertura di cantieri e l’impiego di migliaia di operai necessari per la costruzione delle mura adranite così come, Diodoro siculo, non si lasciò sfuggire l’occasione di esaltare Dionigi per la costruzione delle mura siracusane. Alla morte di Timoleonte la città di Siracusa riprende il vezzo di generare tiranni, ma nemmeno Agatocle (317-304) avrebbe potuto aver il tempo né tanto meno la voglia di aprire un cantiere così impegnativo preso com’era a fare guerra ai Punici, trovandosi spesso in pericolo di morte anche a causa dei suoi oppositori politici. Dopo la morte del tiranno più crudele tra quelli apparsi a Siracusa, la Sicilia si trovava nel caos più totale tanto che si dovette ricorrere a Pirro (278-276) per mettere ordine. Durante il regno di Gerone II, a partire dal 262 a.C., le condizioni sarebbero state propizie. Infatti, dopo che il tiranno riuscì a firmare un’alleanza con i Romani, il regno diventò il più ricco e longevo tra quelli che lo avevano preceduto. Tuttavia un episodio ci spinge a credere che le mura fossero più antiche: l’assedio di Adrano del 263 a.C. ad opera di seimila legionari ben agguerriti e in possesso di moderne macchine belliche con le quali ‘presero d’assalto la città”. Infatti, una città si può assediare soltanto se questa è fortificata. Inoltre, I Romani, che dopo l’ occupazione del 263 a. C. controllavano politicamente la Sicilia e avevano concesso al tiranno siracusano, venuto a patti, di imporre il suo protettorato ad una esigua fetta del territorio della Sicilia orientale, nel quale vi era probabilmente incluso quello adranita, non gli avrebbero certamente concesso di fortificare una città rendendola inespugnabile dopo l’esperienza vissuta nel 263 a.C.
LE MURA DI ADRANO, FORTIFICAZIONE O RECINTO SACRO?
La datazione delle mura in epoca ellenistica viene stabilita dagli archeologi, come la relatrice ha affermato la sera del 13 febbraio 2020, sulla base dei reperti, dediche votive, rinvenuti lungo il perimetro delle mura. Questi reperti sono stati datati alla metà del terzo secolo.
Per quanto ci è dato sapere, gli scavi sono stati realizzati a macchia di leopardo, non sono numerosi e tramite di essi, della città greca non si è potuta realizzare una mappatura scientificamente sostenibile. Tanto che perfino il sito del mirabile tempio dell’avo Adrano, oggetto di un importante pellegrinaggio da parte dei devoti che giungevano da tutta la Sicilia, come si evince in Plutarco (vita di Timoleonte), rimane per gli archeologi un mistero, eppure, tenendo conto di un approccio col passato utilizzando le diverse discipline scientifiche: l’ edilizia sacra secondo i canoni antichi, le fonti storiche, le tradizioni orali, basterebbe, a nostro avviso, scrutare con occhio scientifico le pareti, le colonne e l’ipogeo della Chiesa Madre sita sull’antica acropoli della vetusta città di Adrano, per trovarvi indizi sufficienti.
Analizzando la parte delle mura ciclopiche rimaste, circa seicento metri, è possibile dedurre, dalla diversa tecnica della lavorazione delle pietre che le costituiscono, che esse sono state realizzate in periodi di tempo diversi poiché differente è la tecnica di lavorazione dei colossali poligoni lavici così come diversa appare la consistenza e il taglio dei poligoni. Entrando ora in punta di piedi in un argomento che potrebbe apparire poco scientifico, non può essere tuttavia taciuto che in quelle arcaiche società il concetto del sacro permeava la vita quotidiana delle comunità al punto che ogni atto, sia esso pubblico che privato, non veniva intrapreso se non trovava il consenso divino dopo che la divinità era stata adeguatamente interrogata in proposito. Il dialogo avveniva nel luogo ove il sacro si era manifestato la prima volta. Lì si era eretto tutt’attorno un recinto di pietre. Come è testimoniato dalla edilizia sacra a cui ricorsero gli antichi, di solito le manifestazioni del divino avvenivano nei luoghi più elevati: Abramo, Mosè, Salomone si recavano sulle alture per incontrare il divino. L’altura diventava l’acropoli delle città che venivano costruite tutto attorno, in modo che le abitazioni fossero equidistanti dalla fonte divina; attorno all’acropoli veniva edificato un muro che divideva l’area sacra in cui risiedeva il divino da quella profana in cui risiedevano i cittadini.
Le fortezze o mura che in alcuni luoghi antichissimi ancora oggi si possono notare e che circoscrivono le acropoli, non sempre e non necessariamente furono dunque costruite per lo scopo di difendere la città da pericoli militari esterni. Spesso esse servivano a racchiudere uno spazio sacro dal quale si irradiavano, secondo la credenza degli antichi, potenti e indefinibile forze extrafisiche che, se non si era in grado di gestire, potevano perfino nuocere, come accadeva spesso quando incautamente si avvicinavano all’arca alcuni sacerdoti ebrei (A. T. Esodo 30,17/ Levitico 10,1.) . A conferma di quanto queste credenze facessero parte del tessuto culturale dell’epoca, citiamo lo storico romano T. Livio che racconta come nel 213/11 a. C., perfino un popolo pragmatico quale era quello romano, si facesse prendere da tale scrupolo religioso o superstizioso. Infatti, lo storico narra che i Romani, credendo che dal tempio del dio Adrano venissero emanate delle forze che sostenevano gli eserciti dei Siculi, alleati dei Punici, eressero tutto attorno un muro, al fine di contenere le forze all’interno del tempio.
Ora, noi riteniamo che lo spazio sacro dell’acropoli circoscritto dalle mura, venisse chiamato cittadella da Plutarco, (città abitata dalle divinita?) termine che, utilizzato dallo storico di Cheronea per la città di Adrano, ha creato confusione, come ha candidamente affermato la relatrice nel suo intervento del 13 febbraio. Infatti gli studiosi non si spiegavano come i sessanta ettari inclusi all’interno delle mura potessero essere definiti una piccola città dallo storico greco. Abbiamo buoni motivi per credere che Plutarco, vissuto nel I sec. dell’era volgare e che con il sacro aveva molta dimestichezza avendo ricoperto per venti anni il ruolo di jerofante nel santuario di Apollo a Delfi, chiamando cittadella Adrano, in realtà si riferisse alla sola acropoli di essa, luogo in cui sorgeva il tempio dell’Avo con l’enorme boschetto sacro intorno, perimetrato dalle mura poligonali. Riteniamo perciò probabile, che un’altra muro potesse circoscrivere la città vera e propria. Quanto qui dedotto circa il lessico utilizzato da Plutarco, prende corpo se si nota che lo stesso termine di cittadella viene utilizzato dallo storico di Cheronea per indicare Roma. In questo caso, parlando della città più grande e popolosa del mondo al tempo di Plutarco, appare evidente che lo storico si riferisca al solo colle del Palatino ove i senatori ogni giorno si riunivano per deliberare i loro precetti rivolti al popolo, prendendo gli auspici secondo il volere di Giove Ottimo Massimo che aveva in quel sacro monte il proprio tempio.
Concludendo il nostro excursus auspicando che i passi successivi che gli accademici possano intraprendere, stimolati dall’amministrazione adranita, siano quelli di rimuovere la segnaletica che indica come dionigiane le mura sviando così il turista e lo studioso, rinominandole con l’antico nome di ciclopiche o poligonali che meglio si addice alla tipologia di costruzione; di pronunciarsi sulle rovine che il rinvenitore presuppone appartenere ad un ponte romano eretto sul Simeto nei pressi della chiesetta dedicata a S. Domenica; della pietra arenaria
sul fiume Simeto presso la valle delle Muse in cui vi sono incisi dei simboli che gli studiosi, consultati dal suo rinvenitore hanno attribuito a mani umane; le tre arcate, probabili resti delle terme romane riprese in
un acquarello dal pittore del ‘700 J. Houel; il sito in cui potrebbe celarsi un teatro greco, da noi individuato presso la rocca Giambruno. Noi Adraniti, ispirati dal divino furore, riscaldati dal sacro fuoco, mossi dallo spirito guerriero infuso dalla divinità eponima, non demorderemo: disseppelliremo il nostro vetusto e nobile passato, e se questa vita non ci fosse sufficiente, ebbene, ritorneremo!
“Ego Adelitia neptis Regis domini Rogerii et figlia comitis Rodulphi Machabei de Monte Caveoso dono (…) ecclesiam in honorem Beati Helie Prophete extra Adernionem (…) pro anima in liti comitis Rogerii Avi Mei (…)”.
Anno Incarnazionis Dominice 1136
Riguardo ai motivi che portarono alla nascita degli ordini monastico cavallereschi, alla loro veloce ascesa e repentina scomparsa, poco diremo in questo articolo, essendo stato l’argomento ampiamente trattato da autorevoli studiosi, fino ad abusarne talvolta. A noi interessa, da cittadini Adraniti, indagare se vi siano state connessioni tra la vetusta sede dell’avo primordiale Adrano e i monaci guerrieri d’oltremare, se fra i nostri antenati qualcuno abbia aderito ai loro programmi.
PERCHÉ ADRANO.
Poiché difficilmente potremo nascondere, fra le righe che seguono, il patrio ardore che ha mosso la nostra ricerca, lo esporremo chiaramente, invitando tuttavia il lettore a continuare la lettura, in quanto, a motivo dell’inevitabile intersecazione tra le vite vissute, degli ideali comuni che uomini affini perseguono, partendo da un microcosmo è possibile accedere alla comprensione del macrocosmo.
ADRANO.
La città dedicata all’Avo primordiale, ha sempre assunto, nella storia isolana, l’inevitabile ruolo di crocevia in cui si sono intersecati I destini dei leader che percorsero la Sicilia: Ducezio, Timoleonte, Dionigi di Siracusa e Adelicia contessa di Adernò (nome, quest’ultimo, di Adrano, mantenuto dal periodo arabo normanno fino al 1929). Costoro raccolsero il loro mandato, spesso militare, sempre religioso, in questa città che ancora ospita, sebbene nascosto agli occhi umani, il tempio della divinità eponima venerata in tutta la Sicilia fin dal tempo della preistoria (Diodoro, Biblioteca Historica; Plutarco, Vita di Timoleonte). Dando per certo che il lettore sia a conoscenza delle modalità con cui si sceglieva un luogo per edificarvi un tempio o fondare una città, non ci dilungheremo oltre sull’argomento. Ma riteniamo possibile che Adelicia, contessa di Adernò, traesse la sua ispirata generosità dalla avita dimora, il castello edificato da suo nonno e attiguo alla Chiesa Madre, edificio quest’ultimo, in cui noi sospettiamo che si celi il primordiale tempio di Adrano, sospetto suffragato da una numerosa presenza di indizi, oltre che dalla tradizione orale secondo la quale, le dodici colonne che sostengono la navata principale della chiesa, facevano parte dell’antico tempio. Corrobora ancora il sospetto che la suddetta chiesa occulti le rovine del tempio l’abitudine dei cristiani di costruire le loro chiese sulle spoglie dei templi pagani. Avvertì forse Adelicia, le forze mistiche che il luogo emanava, dal momento che la sua vita fu caratterizzata da un istinto religioso che non ha avuto eguali nei monarchi successivi: infatti, grandioso fu il numero di chiese da Lei fondate e/o dotate in tutto il mondo cristiano normanno di allora.
FONDAZIONI E DONAZIONI DELLA CONTESSA ADELICIA DI ADERNÒ (ADRANO) AL S. SEPOLCRO DI GERUSALEMME.
Quelle sotto elencate furono le donazioni della pia donna documentate attraverso le pergamene giunte fino a noi: S. Agata di Catania; S. Elia di Adernò; Ospedale di S. Giovanni a Gerusalemme; S. Lucia di Adernò ; S. Lucia di Siracusa; S. Salvatore di Cefalù ; S. Sepolcro di Gerusalemme; S. Stefano del Bosco; S. Maria di Robore Grosso; S. Maria de Manialibus a Siracusa; S. Maria di Pedali a Collesano; S. Nicola di Malvicino.
RUGGERO IL GRAN CONTE.
Ma se Adelicia per le sue donazioni fu animata da pietas religiosa, ben altre furono le intenzioni del nonno quando faceva dono all’abate britannico benedettino Ansgerio, della città di Catania nel 1091, dopo averla tolta agli Arabi , oltre che della chiesa di S. Agata enormi territori e poteri temporali. Il conte aveva scacciato dalla Sicilia i Musulmani ed intendeva ora latinizzare l’isola, si ma sotto la sua ala protettrice. Infatti, essendo cessato il dominio arabo nell’isola, egli aveva compreso che chi avrebbe potuto contendergli il potere temporale ed ostacolare il suo grandioso programma di unificazione, era adesso il papa; emulando Costantino (Concilio di Nicea del 325), comprese che per avere la meglio sul vescovo di Roma doveva combatterlo sullo stesso terreno utilizzando le sue stesse armi, doveva servirsi cioè, della stessa organizzazione della chiesa per capillarizzare il territorio di propri accoliti. Le ambizioni del conte non si arrestavano tuttavia ai possedimenti dell’Italia meridionale: Sicilia, Puglia e Calabria; Gerusalemme riempiva allora l’immaginario collettivo e di ogni monarca d’Europa ed era considerata ancora terra di nessuno: chi fosse riuscito a strappare la Palestina ai Musulmani per primo, si sarebbe ritagliato il proprio protettorato là dove le condizioni gli fossero apparse le migliori. Il fatto che Ruggero concedesse all’abbazia, ora diocesi, di S. Agata di Catania, prima grande costruzione latina, Aci, Paterno’, Adernò, S. Anastasia, Centuripe ed Enna significava che oltre ad essere certo della fedeltà dell’abate britannico Ansgerio, il Conte celava un progetto di ‘ristrutturazione’ della chiesa di Roma in Sicilia. Questo suo programma si paleserà nel momento in cui verrà eletto l’antipapa Anacleto, avendolo Ruggero preferito al legittimo Urbano II. Nella presa di posizione di Ruggero in ambito religioso, si legge la volontà di recuperare il prestigio della corona che a partire da Carlo Magno era stato indebolito a beneficio del potere religioso. Dopo lo scisma del 1054 tra chiesa d’Oriente e chiesa d’Occidente, il gran Conte intendeva approfittare dell’indebolimento del soglio pontificio per fare recuperare terreno alla corona cui egli aspirava e che il suo erede otterrà. La Terra Santa rappresentava dunque per gli Altavilla un terreno di scontro favorevole garantito’ loro il successo con l’elezione a re del pronipote Federico, sebbene questi fosse per metà di sangue germanico. Un ulteriore indizio sulla tipologia programmatica che il Conte intendeva perseguire, inerente la gestione del clero siciliano, si coglie nella gara che intrapresero gli aristocratici normanni di Sicilia, a partire dal 1092, nel concedere donazioni alla chiesa di S. Agata di Catania. Tancredi di Siracusa; ll vescovo Giovanni di Fiumefreddo; il vescovo Roberto di Messina; il conte Goffredo di Ragusa non badarono a spese. Ruggero II, figlio del gran conte, donerà nel 1124, lo stesso anno in cui Ansgerio morirà, la città di Mascali e successivamente proprie terre nel territorio di Lentini. Ma la prova che gli Altavilla avessero per la Sicilia grandi ambizioni programmatiche, che volessero farne il centro del culto cristiano, si evince con la eclatante mossa del vescovo Maurizio subentrato al fedelissimo di Ruggero Ansgerio. Maurizio stacca la diocesi catanese di S. Agata dalla dipendenza di Roma per darla a Messina (1134).
MESSINA, UN PONTE PER IL S. SEPOLCRO.
Non comprenderemmo l’assoggettamento della diocesi di S. Agata di Catania a Messina nel 1134 approvata dall’antipapa Anacleto II che aveva nei confronti degli Altavilla un debito d’onore per l’appoggio da questi fornito alla sua ascesa al soglio pontificio, se non lo collegassimo agli accadimenti avvenuti in Terra Santa e alle ambizioni sempre più crescenti degli Altavilla .
FONDAZIONE DELL’ORDINE DEL S. SEPOLCRO DI GERUSALEMME.
Nel 1129 veniva ufficializzato – in effetti esso era già operativo da almeno un decennio – l’ordine dei “Poveri Cavalieri di Cristo del Tempio di Salomone” che Ugo dei Pagani (de Payns per la storiografia ufficiale) aveva fondato in Terra Santa. Da parte nostra siamo convinti, per i motivi in parte su esposti e che continueremo ad esporre oltre, che gli Altavilla avessero avallato e forse contribuito alla nascita ufficiale di questo prestigiosissimo ordine religioso cavalleresco, nel tentativo di utilizzarlo per il proprio programma egemonico, cosa che invece riuscirà a S. Bernardo di Chiaravalle che ne scriverà la regola. Prima che l’ordine fosse ufficialmente costituito e organizzato, Goffredo di Buglione, strappata Gerusalemme ai Musulmani nel 1099, aveva fornito la protezione dei suoi crociati alla chiesa in cui alloggiavano i monaci dell’Ordine dei Canonici Regolari del Santo Sepolcro. I monaci regolari di questa chiesa, dal momento che i crociati fecero di Gerusalemme un possedimento cristiano, cominciarono ad accogliere regolarmente i pellegrini provenienti dall’Europa, per cui si rese necessario creare una milizia. I componenti di essa si chiamarono in un primo momento Christi milite e poi definitivamente milites templi, con lo scopo di proteggere i pellegrini e i monaci che li ospitavano. Al fine di garantire l’agevolezza e la sicurezza del percorso che i pellegrini dovevano intraprendere, questo doveva essere ben organizzato fin dalla partenza dall’Europa. Si possiede la documentazione dalla quale si evince che nel 1171, nel porto di Messina, sorgeva una dependance del priorato dell’Ordine Gerosolimitano, che garantiva il trasporto via mare di merci e persone verso la Terra Santa.
I NORMANNI E LA TERRA SANTA.
Come sopra affermato, i Normanni, che parteciparono alla chiamata alle armi per la liberazione del S. Sepolcro indetta da Urbano II nel 1096, anche se con forze esigue rispetto ai cugini Franchi, giunti in Terra Santa, dovettero intessere rapporti a vari livelli con tutti gli interlocutori palestinesi che incontravano strada facendo. I Normanni di Sicilia e dell’Italia meridionale erano agli ordini di Boemondo figlio del Guiscardo quando partirono per la prima crociata. Il vantaggio dei Normanni siciliani rispetto ai cugini francesi, consisteva nel fatto che essi, ormai presenti in Sicilia da decenni – Palermo era stata presa nel 1072 – , avevano la possibilità di intrecciare rapporti privilegiati sia con gli Arabi del Medio Oriente che con i Bizantini, in quanto molti di questi, che avevano occupato la Sicilia prima dell’arrivo dei Normanni, erano stati assimilati ed in parte integrati nel regno degli Altavilla, tanto è vero quanto affermiamo che lo sposo di Adelicia, il Conte Roberto Maccabeo, tradisce attraverso il cognome la sua origine ebraica. Questa politica dei due forni adottata dagli Altavilla darà subito ottimi risultati. Infatti, Boemondo, grazie al ‘contributo’ di un arabo armeno, riuscirà a conquistare Antiochia della quale si auto elegge Signore. I duchi francesi, tranne Boemondo che non lascerà più Antiochia, si diressero verso Gerusalemme che presero, come già detto, nel 1099. I duchi elessero quindi Goffredo di Buglione come primus Inter pares il quale, nella sua ammirevole modestia, ritenendosi indegno del titolo di re di Gerusalemme, si fece designare come semplice protettore del Santo Sepolcro – il titolo regio verrà successivamente assunto dal fratello Baldovino dopo la sua morte-. Adelaide, terza moglie di Ruggero I, rimasta vedova, convolò a nozze con re Baldovino, facendo però rientro in Sicilia come ex regina dopo la morte di questi. Il regno normanno di Sicilia e quello di Gerusalemme tenuto dai ‘cugini’ Franchi, avevano avuto forse la necessità di collegarsi? La stirpe Franca doveva essere rafforzata attraverso legami di sangue con i potenti conti di Sicilia? Per questo motivo Costanza convolò a nozze col re di Gerusalemme? Certo che sì, la Sicilia rappresentava ormai un’appendice della Terra Santa, una testa di ponte indispensabile per gli approvvigionamenti e pertanto Ruggero II era destinato a succedere a Baldovino in quando legittimo erede di questi avendone sposato la madre Adelasia. Tuttavia qualcosa non andò per il verso giusto dal momento che il regno di Gerusalemme non passò nelle mani degli Altavilla per successione ereditaria; infatti alla morte di Baldovino la regina dovette fare rientro in Sicilia nel 1118 col titolo di ex regina di Gerusalemme, mentre il regno passava nelle mani del cugino del re, che assumeva il titolo di Baldovino II. Nello stesso tempo Ruggero II interrompeva i rapporti col vescovo di Roma appoggiando l’antipapa Anacleto.
IL REGNO DI GERUSALEMME NEI PROGRAMMI DINASTICI DEGLI ALTAVILLA.
Nel 1131, Folco, sposerà la figlia di Baldovino II e prenderà il nome di Baldovino III ereditando il regno di Gerusalemme. Nel frattempo in Terra Santa il dado era stato tratto e il nuovo Ordine monastico cavalleresco, due anni prima era stato riconosciuto dal Papa non senza la potente intercessione del monaco di Chiaravalle, Bernardo, che dettò la rigida regola ai cavalieri. Bernardo di Chiaravalle, braccio destro del papa legittimo, né diventava il campione scontrandosi duramente con l’eretico Ruggero II accusato di tirannide, a motivo dell’appoggio fornito all’antipapa Anacleto. I templari, che Bernardo percepiva, da loro ricambiato, come propria creatura, non potevano non stare che dalla parte del monaco di Chiaravalle, per lo meno ufficialmente.
Il motivo per cui sosteniamo che gli Altavilla dovettero avere una parte importante nella genesi dell’Ordine monastico cavalleresco, è maturato attraverso la constatazione che subito dopo la nascita dell’Ordine, le donazioni ad esso elargite da parte dei Normanni siciliani,
divennero numerose ed eccessivamente generose per non insospettire; una generosità che va spiegata, a nostro avviso, anche con la prospettiva di un lungimirante programma politico che gli Altavilla avevano saputo mettere in atto e che, come affermato, si concretizzerà nel momento in cui Federico II, nipote di Ruggero II, sebbene fosse un Hohenstaufen, sarebbe stato riconosciuto re di Gerusalemme. Ruggero non potrà raccogliere personalmente i frutti della sua grandiosa politica maturati in terra di Palestina.
Naturalmente non si può pretendere che i programmi procedano senza trovare ostacoli strada facendo; infatti gli antipapa appoggiati, segretamente da Ruggero I, e apertamente da suo figlio dopo, saranno delegittimati da Innocenzo II con il quale Ruggero II sarà costretto a scendere a patti nel 1139. Da questa data in poi Bernardo potrà riavvicinarsi al re siciliano, tanto che verranno inviati nel sud Italia monaci benedettini bianchi. Ruggero chiederà allo stesso Bernardo di scendere personalmente per inaugurare la fondazione di alcune abbazie (Lynn. T. White Jr. – Il monachesimo latino nella Sicilia normanna-.). Furono accantonate le discordie tra la corona di Sicilia e il seggio di Pietro e nel 1137, da una corrispondenza intercorsa tra S. Bernardo e Ugo, primo maestro dell’Ordine, fra la quale si inserisce Guigo priore della Certosa, si evince che vi fosse in corso una crisi all’interno dell’Ordine. Una ipotesi che avanziamo in corso d’indagine, consiste nella possibilità che la crisi possa essersi generata tra i partigiani del re e i sostenitori del papa; infatti non si spiegherebbe altrimenti la tempestiva bolla Omne datum optimum, emanata da Innocenzo III nel 1139 con la quale il papa impediva ai fratelli la possibilità di ritornare nel mondo e imponeva di mantenere la stabilità nell’Ordine. Ripresero nell’isola, a partire da questa data, le donazioni al già potente Ordine come è dimostrato dalle ricerche del Lynn (op.cit.) attraverso la riproduzione di numerosi atti di donazioni e vendite in cui compaiono i nomi di frati ‘milites’. Naturalmente si incrementarono anche le fondazioni in Sicilia al fine di snellire la logistica dell’Ordine: il normanno Matteo Ajello fondò la Santa Trinità di Palermo donata appunto, ai cistercensi. Intanto anche Adelicia, degna erede degli Altavilla che dal nonno aveva ereditato l’acume politico, iniziò una politica di captatio benevolentiae attraverso generose donazioni: nel 1160 fece dono alla diocesi di Catania delle chiese di S. Maria e S. Filippo in Adernò mentre, al S. Sepolcro di Gerusalemme, fece dono della chiesa di S. Elia fuori le mura (riteniamo che questa abbazia sia divenuta sede templare, ma che fosse esistente da molto tempo prima, come esporremo al momento opportuno). È una fortuna che gli atti di queste donazioni siano arrivati fino a noi poiché in essi vi è apposta, tra i testimoni firmatari dell’atto, la firma di un frate (templare?) il cui nome è David, nome che compare anche in un atto del 1135. In questo atto David viene indicato come abate della chiesa della Santa Trinità di Mileto e a condurre l’operazione di compensazione di terreni calabresi è direttamente il Re Ruggero. La figura di David appare intimamente collegata al re Ruggero e all’Ordine. La carriera di David da frate ad abate appare funzionale ai rapporti intercorsi tra la Sicilia e la Terra Santa, tra gli Altavilla e l’Ordine.
ORDINE DEI TEUTONI.
I Templari che avevano ottenuto grossi possedimenti in Sicilia grazie ai buoni rapporti intercorsi tra Bernardo di Chiaravalle e Ruggero II a partire dal 1139, con l’arrivo degli Hohenstaufen e l’incoronamento a Palermo di Enrico VI nel 1194, dovettero ridimensionare i propri possedimenti a vantaggio dell’ordine dei cavalieri Teutonici che erano i favoriti di Enrico VI. Ne era passata acqua sotto i ponti da quando gli Ordini si erano formati in terra Santa con l’unico intento religioso; al tempo dell’erede di Enrico VI, Federico II, essi si erano ormai inseriti nelle lotte di potere tra principi (un precedente si ha nel 1147, quando alla presenza del papa si decretò l’aiuto dei Templari nella II crociata, al re di Francia Luigi VII); così, quando Federico II riuscì a ottenere Gerusalemme grazie ad una trattativa diplomatica condotta con l’emiro Kamil ed ebbe degli scontri verbali col papa durante la sesta crociata (1228-29), fu accusato dal pontefice di fraternizzare col nemico e per questo scomunicato, i Templari e gli Ospedalieri gli negarono il loro appoggio; ma l’imperatore, come tutta risposta, entrato a Gerusalemme, pose da sé la corona sul proprio capo. Nello stesso tempo espulse i Templari dalla Sicilia. Che i Templari e gli Ospedalieri agissero in sintonia si evince anche dalla regola n. 429 dello statuto dell’Ordine Templare (J. V. Molle, I Templari, la regola e gli statuti dell’ordine, ed. ECIG). L’ intima unione fra i due ordini, che trapela tra le righe dello statuto templare, tanto da indurci a formulare l’ipotesi che uno fosse la costola dell’altro, si rende ancora più evidente nel momento in cui Filippo il bello, re di Francia, facendo sciogliere l’ordine dei Templari nel 1307, induce molti dei fratelli scampati alla persecuzione iniziata per le accuse infamanti che egli aveva architettato a confluire nell’ordine degli Ospedalieri.
UN PORTO SICILIANO PER LA TERRA SANTA.
Le crociate indette con lo scopo di liberare la Terra Santa dal dominio musulmano, si trascinarono a lungo, coinvolgendo dinastie di tutta Europa e per più generazioni. Il regno di Sicilia ospitava allora, attraverso filiali, tutti e tre i potenti ordini (gli ordini sorti erano molto numerosi; quello di S. Lazzaro, per esempio, che assisteva i Lebbrosi, riceveva molte donazioni e si distingueva dagli altri per la croce verde cucita sul saio): quello degli Ospitalieri successivamente meglio conosciuti come Ordine di Rodi prima e di Malta definitivamente, dei Templari e, con l’arrivo di Enrico VI quello dei Teutoni. Questi ordini ottennero, indirettamente, ingenti possedimenti sull’isola attraverso le donazioni che venivano fatte alle diocesi da loro controllate. I proventi derivanti dalle donazioni servivano, in un primo momento a finanziare la missione in Terra Santa; la terra Santa abbisognava infatti di continui rifornimenti sia alimentari che militari. Messina diventava così il porto da cui salpare. Le enormi ricchezze accumulate dall’ordine in tutta Europa vennero utilizzate successivamente come strumento economico per controllare interi regni attraverso l’indebitamento dei re, come nel caso del re di Francia Filippo il bello. Si evince dagli esoneri doganali concessi ai frati della Latina di Gerusalemme da Guglielmo II, che l’abbazia di Gerusalemme avesse a Messina una filiale che fungeva da armatrice delle navi in partenza per la Terra Santa. L’abbazia di S. Filippo di Agira, fondata dai basiliani prima dell’arrivo dei Musulmani in Sicilia, rappresentava a sua volta il punto in cui venivano tenuti e conservati i libri contabili degli enormi possedimenti siciliani. Se con gli Altavilla il regno normanno era diventato la prima potenza economica in Europa, crediamo che, in una certa misura, un ruolo si possa attribuire alla presenza in Sicilia degli ordini di cui ci stiamo occupando. La posizione egemonica degli Altavilla in campo economico spinse gli Hohenstaufen, prima ad imparentarsi tramite il matrimonio di Carlo VI con Costanza, figlia del re, e successivamente a scendere in arme gli uni contro gli altri. Ma se gli Altavilla dialogavano maggiormente con i Templari agli Hohenstaufen stavano a cuore i Teutoni.
L’ ORDINE DEI CAVALIERI DELL’ OSPEDALE DI S. GIOVANNI DI GERUSALEMME
La prima congregazione monastica esistente a Gerusalemme, quella della valle di Giosafat in cui si diceva esserci la tomba della Vergine Maria, nella quale venne edificata la prima chiesa, era stata sottoposta dopo la conquista di Goffredo di Buglione sotto la protezione dei Franchi.
L’ordine cavalleresco degli Ospitalieri era il più antico tra quelli sorti in Palestina.
Secondo quanto è stato possibile ricostruire dagli studiosi della materia, intorno al 1070 alcuni amalfitani ricostruirono la chiesa di S. Maria dei Latini a Gerusalemme, che i Musulmani avevano distrutto nel 1010, e la dotarono di un ospizio per i pellegrini portandovi dei monaci benedettini.
Ora, noi abbiamo potuto constatare che i rapporti di collaborazione tra gli Amalfitani e i Siciliani risalivano agli inizi del IX secolo quando i primi, congiunte le forze con quelli di Gaeta, inviarono soccorsi ai Siciliani che soffrivano delle scorrerie saracene (Umberto Rizzuto – La Sicilia islamica-), ecco perché, constatando la ininterrotta presenza degli Amalfitani sia in Sicilia ( la firma di un “Ranellus Malfitano” è apposta in qualità di testimone, in un atto di donazione del 1160, riguardante un vigneto a favore della chiesa di S. Elia di Adrano) che in Palestina, abbiamo precedentemente avanzato l’ipotesi che l’ordine dei templari potesse essere stato fondato da un Ugo dei Pagani, Amalfitano o dei dintorni (la cittadina di Pagani si trova vicino ad Amalfi), piuttosto che da un Ugo de Payns come ricostruito dalle indagini degli studiosi. Per meglio comprendere il ruolo svolto dagli Amalfitani nel mondo in quel preciso momento storico, citiamo lo storico normanno Guglielmo di Puglia che descrive con quali argomenti i Normanni del mezzogiorno d’Italia invitavano i parenti della Normandia a raggiungerli : “Amalfi, città opulenta e popolosissima (…) molti marinai vi abitano, abili nell’aprire le vie del mare e del cielo. Vi giungono i più diversi prodotti da Alessandria e Antiochia. I suoi abitanti attraversano il mare. Essi conoscono gli Arabi, i Libici, i Siciliani, gli Africani e sono noti in quasi tutto il mondo”. La tesi di un Ugo non francese veniva sostenuta con argomenti molto validi da padre Sclafert. Quest’ultimo, facendo riferimento ad una epistola coeva al “De Laude” di S. Bernardo, affermava che la stessa fosse stata indirizzata al cistercense da un Ugo di S. Vittore. Si tenga conto che i Normanni venivano indicati spesso come Franchi e Galli; fra di essi il nome Ugo era comunissimo e poiché la loro lingua, e quella di molti storici che si occuparono delle imprese in Terra Santa, era il francese, il nome della città italiana potrebbe essere stato pronunciato Payns.
Aggiungiamo ancora quanto veniva affermato da Amato di Monteccassino. Secondo lo storico, nel 999 quaranta Normanni, al ritorno da un pellegrinaggio al Santo Sepolcro, si sarebbero fermati a Salerno. Da questo momento molti principi Longobardi avrebbero richiesto ai Normanni il loro sostegno durante le scaramucce intraprese nei confronti di Musulmani e Bizantini; di fatto, da quel momento inizierà una spontanea fusione fra l’elemento normanno e quello longobardo, tanto che, Ruggero II, divenuto re di Sicilia, avrebbe offerto loro, abbondanti terreni nell’isola. Come si può notare dalle poche notizie fornite fin qui, gli intrecci tra le etnie e gli interessi intervenuti in corso d’opera, sono stati così intricati da poter affermare che nell’Italia meridionale si è dato vita ad un nuovo universo in cui i contorni appaiono così sfumati da rendere difficile delineare i fatti accaduti senza tener conto di una genesi che, come un regista dietro le quinte, non si è mai completamente palesata.
Si fa dunque derivare l’ordine dell’Ospedale di S. Giovanni dal su citato monastero palestinese.
Il primo documento in nostro possesso in cui si riporta l’esistenza dell’Ordine degli Ospitalieri a firma di “Gerardo hospitalerus” risale al 1102.
In Sicilia, subito dopo la fondazione dell’Ordine, cominciarono a piovere, come affermato, le donazioni: l’abbazia di S. Filippo di Agira venne donata agli Ospitalieri della Terra Santa e, come si evince da una bolla papale di Pasquale II, a partire dal 1112 i possedimenti palestinesi in terra di Sicilia sarebbero dipesi da S. Filippo di Agira. Tuttavia una base in Sicilia di questa organizzazione monastico militare doveva esistere da molto prima della data ufficiale del suo riconoscimento. Infatti il Pirri (Lynn, op.cit.) riporta una bolla del Conte Ruggero I emanata nel 1091 in cui si fa già riferimento all’Ospedale di Messina e questa presenza rafforzerebbe, a nostro avviso, la tesi della fondazione di un ordine militare monastico in Palestina ad opera di un cavaliere amalfitano, appunto Ugo dei Pagani con la benedizione degli Altavilla. Stando alla nuova luce gettata dalle nostre ricerche, la presenza così precoce a Messina di una tale organizzazione avrebbe potuto prendere le mosse dall’iniziativa di un monaco assai sui generis di nome Elia. Questi appare nelle cronache siciliane alla fine del IX secolo, e del frate redige una breve cronaca lo storico Michele Amari dalla quale abbiamo attinto. Di questo frate diremo nel capitolo dedicato agli ordini cavallereschi presenti nella città di Adrano. Certo è che l’ordine dell’Ospedale dovette essere presente e potente nella città di Adrano se nel 1177 il Conte di Avellino Ruggero di Aquilia, nipote di Ruggero I e Adelasia, fece dono al priore dell’Ospedale di Messina Gebilino, in memoria degli avi suoi, della chiesa di S. Filippo e della chiesa di S. Giovanni (esiste ancora, scolpita in una pietra di riuso in basalto, in una parete adiacente alla chiesa oggi dedicata a S. Francesco, la croce distintiva dell’ordine Ospedaliero) costruita sulle sue terre di Adernò presso il casale canneto (Lynn op.cit.). Nello stesso tempo il conte confermava le precedenti donazioni fatte dall’avola sua.
S. FILIPPO D’AGIRA EPICENTRO DEL POTERE TEMPORALE DEI TEMPLARI.
Gli interessi degli Altavilla dovettero comunque essere trasversali in terra Santa dal momento che Roberto il Guiscardo, uno dei dodici figli di Tancredi di Altavilla, morto nel 1085, fece dono all’ Ordine di S. Giovanni di due sue chiese in Calabria. Non è improbabile, dunque, che nella stessa data venisse donata all’ordine anche la chiesa siciliana di Agira dal momento che il Conte Ruggero II nel 1126, conferma la donazione all’Ospedale di Gerusalemme di S. Filippo di Agira.
A S. Filippo di Agira il priore era un frate di nome Falco e durante la sua reggenza la chiesa siciliana deteneva in Palestina importanti possedimenti, come si evince dalla conferma del 1158 di questi possedimenti da parte di papa Adriano IV. Contemporaneo del priore Falco, in terra di Palestina vi è Folco (l’assonanza dei nomi ci è alquanto sospetta), che diventerà genero del re di Gerusalemme e gli succederà col nome di Baldovino III. Tornando a S. Filippo di Agira, facciamo nostra l’arguta analisi di Lynn T. White Jr. (op.cit.) il quale trae la conclusione che: “Il centro dell’attività amministrativa era a quell’epoca non in Palestina ma in Sicilia” a S. Filippo di Agira e il priore Falco ne era l’amministratore. Se il potente priore siciliano Falco e il futuro re Folco potessero essere identificati nella medesima persona, allo stato dell’indagine, non ci è dato sapere. Fatto è che, sparendo dalla cronaca siciliana il priore Falco, nel 1150 arriva a S. Filippo d’ Agira, guarda caso da Gerusalemme, Pietro, priore della casa madre di Gerusalemme, per prendere visione degli archivi di S. Filippo di Agira ove si conservavano i registri in cui erano elencati tutti i possedimenti siciliani dipendenti da Gerusalemme. Pietro, per prendere visione di tali registri rimase ben tre anni nella prioria, tanta era la mole dei registri da consultare. La prioria di S. Filippo di Agira, depositaria di enormi ricchezze provenienti da tutta la Sicilia, pronte per essere in parte trasportate a Gerusalemme, dovette assurgere ad una tale importanza che Facondo, priore di questa abbazia nel 1176, diventa abate della casa madre di Gerusalemme S. M. dei Latini (non può passare inosservato l’interscambio di uomini e proprietà tra la Sicilia e Gerusalemme). Se Facondo passò da S. Filippo di Agira a Gerusalemme, avrebbe dunque potuto farlo anche il suo predecessore Falco o Folco. Che Enrico VI nel 1194 appena eletto re confermi i possedimenti in Sicilia di S. Maria dei Latini di Gerusalemme dopo la conquista di questa da parte di Saladino, lascia presupporre che vi sia stato un trasferimento in Sicilia, a S. Filippo di Agira, della comunità di Gerusalemme guidata da Facondo e fuggita da Gerusalemme temendo la rappresaglia musulmana.
PRIORIA DI S. ELIA PROFETA DI ADERNÒ
Il nome della chiesa di S. Elia di Adrano induce a pensare che essa sia stata intitolata al noto profeta biblico, ma, analizzando gli eventi storici accaduti in Sicilia nell’ultimo scorcio del IX secolo, qualcosa non torna.
Lo storico siciliano M. Amari che scrisse una Storia dei Musulmani in Sicilia, nel suo trattato fa riferimento ad: “un valente frate, Elia di Castrogiovanni (Enna). Lasciata Gerusalemme, ove egli faceva stanza (…) venne in Palermo, vi rivide la madre; e a capo di pochi giorni, appunto quando si allestiva un armata nel porto della capitale, ei passò a Taormina, di là a Reggio, ove il popolo era tutto sbigottito; lo rassicurò vaticinando la sconfitta degli infedeli: e dopo i successi che siamo per narrare, Elia ricomparisce a Taormina per pochi dì ; passa in Grecia; ov’è preso per spia dai Musulmani; indi viene in Calabria di nuovo; va a Roma e di nuovo a Taormina. L’intendimento di questi viaggi è evidentissimo”. È evidentissimo sì, potremmo continuare noi, essendo chiaro che fra Elia rappresenta l’antesignano di quei monaci guerrieri che verranno riconosciuti un secolo più tardi, negli ordini monastico cavallereschi che sappiamo, ma che agivano da militi organizzati, come si evince dalle vicende riportate dall’Amari, già da oltre un secolo prima.
S. ELIA, PRIMO MONACO GUERRIERO.
Infatti, di loro così si esprime lo storico: “Incalzavan la briga i frati, solido strumento di governo nell’impero bizantino; i quali si fecero agitatori, portatori di avvisi, anco esploratori”. L’animus guerriero, impossibile da reprimere in alcuni monaci, pur tenendo fede al canone VII del concilio di Calcedonia (451) che proibiva agli uomini di chiesa di prestare servizio militare, poteva esprimersi così attraverso il supporto fornito a quella che, evidentemente, veniva considerata da questa frangia monastica, una “guerra giusta”. Al punto del racconto delle vicende che vedono protagonista frate Elia, avendo egli vaticinato (facile profezia per chi era stato parte attiva della strategia militare messa in atto) con successo le vittorie militari sui Musulmani, potremmo avanzare l’ipotesi che la chiesa di S. Elia in Adernò non solo fosse stata edificata in onore del suddetto frate, ma non ci stupirebbe se essa fosse pure una base logistica identificabile da coloro che avevano abbracciato la causa della “guerra giusta”, grazie al nome del frate combattente, insomma un nome in codice per gli affiliati. Purtroppo non siamo nelle condizioni di poter consultare la biografia del frate, che l’Amari afferma di avere avuta tra le mani, ma quanto lo storico ha riportato nel suo trattato riteniamo sufficiente per poter affermare a nostra volta, che nella data in cui vengono narrati i fatti, l’ 879 e.v., in Sicilia esisteva una organizzazione monastica capace di gestire le emergenze militari, riuscendo a collegare tra loro le nazioni cristiane: Bizantini, Normanni del sud Italia, Longobardi (Napoli, Gaeta, Amalfi, Salerno dipendevano dal diritto longobardo) ed isolani come si evince dalle tappe effettuate da frate Elia. Infatti, dopo gli spostamenti del frate, accadde che le città cristiane libere della Sicilia riuscirono effettivamente a collegarsi tra loro e nel medesimo tempo arrivarono anche gli ingenti aiuti inviati da Basilio imperatore di Bisanzio. Fu in questa occasione, nell’882, che si svolse la famosa battaglia di Caltavuturo con i miracolosi risvolti di cui abbiamo detto nell’articolo: “Caltavuturo, una porta nel cielo” e che certo contribuirono ad accrescere la fama di profeta del nostro monaco, essendo stati i musulmani sonoramente battuti.
Non va dimenticato che il Nostro, prima di giungere in “missione” in Sicilia, era di stanza a Gerusalemme (sarà dovuto all’esistenza di un cordone ombelicale mai reciso tra la Sicilia e la Terra Santa che Adelicia contessa di Adernò, farà dono al S. Sepolcro di Gerusalemme nel 1136, proprio della Chiesa di S. Elia di Adernò?) pertanto è inevitabile pensare che il monaco facesse da trait d’union tra la Sicilia e la Terra Santa. Prendendo nota delle caratteristiche del monaco, descritte dall’Amari, non apparirebbe certo fuori luogo l’affermazione secondo la quale, la gestazione dei suddetti ordini sia avvenuta, oltre un secolo prima della loro apparizione ufficiale in terra siciliana e che S. Elia Profeta fosse l’antesignano di S. Bernardo di Chiaravalle. Del resto, la storia non ci insegna che la Sicilia, fin dal periodo greco-romano, fu un laboratorio politico il cui prodotto venne esportato in tutto il mondo?
Non si potrebbe comprendere l’apparente contraddizione dei nostri frati senza intendere il pensiero religioso dell’Occidente che adottò la via della mano sinistra per realizzarsi (su questo argomento vedasi l’articolo: “Mutazione consonantica o differenza di pronuncia?”,): l’ azione preferibile alla contemplazione. Un tale atteggiamento spingeva infatti S. Bernardo all’affermazione che “Dalla morte dell’infedele il cristiano trae gloria poiché il Cristo viene glorificato” (De Laude, Bernardo di Chiaravalle). È evidente che Bernardo riprendeva l’antico concetto di “guerra giusta” di romana memoria, per la quale si poteva uccidere ed essere uccisi, e che la morte diventava, dunque, strumento catartico. Nella figura del Templare ritroviamo quella capacità di trasformare un dualismo nella complementarietà: due forze che sembrano respingenti, azione e contemplazione, vengono contemporaneamente applicate per raggiungere uno stesso fine. Ma abbandoniamo in questa sede il paludoso terreno della speculazione filosofica per continuare nel percorso che ci siamo imposti nell’affrontare il nostro tema.
Come affermato, la Chiesa di S. Elia di Adernò venne donata nel 1136 dalla Contessa Adelicia al S. Sepolcro di Gerusalemme. Ora, è noto che la contessa si era limitata a ingrandire, dotare, proteggere chiese già esistenti come quella di S. Maria, presso il fiume Simeto (oggi intitolata a S. Domenica) costruita dai Bizantini addirittura sulle rovine del tempio di Marte (S. Petronio Russo, Storia di Adernò), pertanto, la chiesa di S. Elia, oggi scomparsa, ma di cui rimane il campanile, potrebbe essere stata edificata in un tempo molto anteriore e, magari, sulle rovine di un tempio pagano. Ma al di là del fatto, di secondaria importanza, se la prioria fosse stata intitolata all’Elia biblico o meno, a noi interessa qui notare il particolare che essa, con relativi terreni limitrofi, viene donata, secondo quanto riportato dal Pirri, nel 1136 da Adelicia agli Agostiniani del S. Sepolcro, in un momento in cui all’interno dell’Ordine dei Templari erano sorti dei dissidi, come diremo oltre. Il fatto straordinario che avvalorerebbe la tesi di chi scrive, secondo la quale la città dell’avo primordiale Adrano, ha sempre avuto un ruolo non certo secondario nelle vicende dell’isola e delle nazioni che con essa si sono relazionate nel tempo, si evince dall’esistenza di un atto datato 1190, per mezzo del quale viene venduto alla prioria adranita, un terreno attiguo alla chiesa di S. Elia. Nell’atto, assieme al priore ‘Joannes’, figura un frate di nome David, costui lo ritroveremo successivamente in qualità di priore del S. Sepolcro di Gerusalemme; ancora una volta, dunque, priori siciliani saranno a guida di importanti chiese nell’isola per poi ritrovarli alla guida della prestigiosa prioria del S. Sepolcro di Gerusalemme, così come, non passa inosservato che priori del S. Sepolcro di Gerusalemme vengono spesso in “visita” alle abbazie siciliane.
Il succitato atto di vendita del 1190 lascia desumere altresì, a quale livello di ricchezza ed importanza sia assorta nel tempo la prioria adranita di S. Elia. L’atto in oggetto riporta, infatti, l’acquisto da parte della prioria, di un vigneto ad essa attiguo del valore di 534 tarì, che per il tempo rappresentava una cifra notevolissima. Ma poiché le persone venditrici vengono riportate nell’atto con i nomi di fra Guglielmo de Rinis e fra Ugo di Messina, il sospetto che i venditori non siano i “poveri” frati secolarizzati, ma, piuttosto, quegli strani frati che portavano la tonaca con la spada legata al cordone, i Templari, ci sembra legittimo. Se la data della donazione della prioria di S. Elia al S. Sepolcro di Gerusalemme del 1136, riportata dal Pirri fosse esatta, si evince da essa che quella di Adrano sia stata una delle prime donazioni siciliane fatte ai Templari. Infatti, dai documenti esaminati dal Lynn (op.cit.) si evince che il documento di donazione successivo al nostro, è quello del 1146 ad opera di Enrico di Bugli o Bubly, con il quale il Conte fa dono al Tempio di suoi terreni a Scordia. L’esoso acquisto ad opera della prioria di S. Elia di Adernò di terreni attorno alla chiesa, nel cui atto figurano i due sospetti frati, bisogna ricordarlo, ci induce a pensare che questi fossero stati delegati dalla casa madre di Gerusalemme a condurre una operazione che mirasse a rendere la chiesa di S. Elia di Adernò una base templare sempre più munificata. Nel formulare la azzardata ipotesi contribuisce altresì la tipologia del campanile (Simone Ronsisvalle, Un itinerario Etneo, pg. 60) sopravvissuto al crollo della chiesa, le cui caratteristiche riproducono piuttosto quelle di una torre di guardia.
Adernò dovette conservare il ruolo di avamposto templare fino allo scioglimento dell’ordine decretato nel 1307 e conclusosi nel 1314 con la condanna al rogo dell’ultimo maestro Jacques de Molay. In quella data, i possedimenti templari e i fratelli adornesi, transitarono nell’ordine degli Ospedalieri fintanto che i superstiti, agli inizi del ‘500, si riorganizzassero per riapparire sotto mentite spoglie in una delle tante organizzazioni dal nome evocativo di “Confraternita dei Nobili Bianchi” (Questa nostra supposizione è stata argomentata in altre occasioni). La congregazione avrà molti tratti in comune con il disciolto Ordine dei Templari: l’abito bianco, lo statuto che si prefiggeva fini di solidarietà umana: apertura di un ospedale, assistenza ai moribondi, assistenza delle ragazze madri, una vera piaga di Dio a quel tempo.; il santo patrono S. Giovanni; l’accesso alla confraternita riservato soltanto ai nobili, ed altro ancora. La sede adranita dei Bianchi fu la seconda ad essere fondata in Sicilia dopo quella di Palermo e in breve tempo acquisì una gran quantità di terreni ed edifici ancora oggi ad essi intitolati. Inoltre, l’apparizione di questa confraternita nella città dell’Avo, coincise con una impennata economica che si era arrestata dopo il disciolto Ordine. Principalmente sarà l’edilizia sacra ad essere privilegiata: viene ampliato il monastero di S. Lucia fino a raggiungere le imponenti dimensioni architettoniche attuali, viene edificato il monastero attiguo di S. Chiara e costruite moltissime altre chiese. (V. Spitaleri, La vita del sacerdote Francesco Musco di Adernò, note di civiltà adornese del ‘600).
Ad majora.
La nobile gens sicula a cui dedichiamo i nostri studi, ha forse smarrito il ricordo del proprio nobile retaggio e il ruolo centrale che ha avuto nella cultura mediterranea. Il compito che si è dato il sito internet www.adranoantica.it è quello di rispondere ad una chiamata (Kalla) interiore e di ‘urlare’, a propria volta, a chi è sordo ed ha corta la memoria, che la triangolare isola di Trinacria, terra di miti, di forze primordiali, scelta dall’avo Adrano quale sede in cui manifestarsi, non ha affatto dismesso il ruolo per il quale fu ‘chiamata’ in illo tempore. Il significato celato dal lessico utilizzato fin dai primordi, cristallizzato nel continuo suono emesso pronunciando alcuni toponimi con il fine di evocare le primordiali forze, oggi viene svelato perché si prenda coscienza che il momento della risposta alla chiamata è giunto; ai migliori di quest’isola divina, dunque, viene assegnato l’obbligo di rispondere; al primus Inter pares quello di fungere da guida.
Il preambolo di cui ci siamo serviti per esporre le nostre ricerche a chi vuole aggiungere stimoli al proprio desiderio di conoscenza, fornisce l’assist per spiegare il significato del radicale ‘cal’ che forma alcuni toponimi siciliani quali Calatino, Calacta, Caltavuturo, Calatabiano. Attraverso il significato dei nomi e gli stralci di storia a cui abbiamo potuto attingere, che vede partecipi le suddette cittadine, tenteremo di formulare alcune ipotesi afferenti al ruolo da esse svolto nella storia isolana.
È la volta di Caltabellotta. Il toponimo risulta formato dall’unione dei lessemi Kalla, chiamare, evocare e Bal Signore. Sul verbo ‘kalla’ nulla aggiungeremo in questa sede essendoci soffermati nelle sedi opportune e nel trattare dei toponimi che abbiamo sopra elencato, in particolare trattando delle cittadine di Calatabiano e Caltavuturo. Il sostantivo Bel, plurale di Bal, offre l’occasione per soffermarci in questa sede sull’influenza storica e religiosa esercitata dal sito conosciuto come valle del Belice, abitato fin da antichissima epoca, come testimoniano i numerosi reperti archeologici rupestri sparsi nella suddetta area geografica. Il cospicuo numero dei toponimi contenenti il radicale Bal: Belice, Gibellina, Gibilmanna ecc. contribuiranno a rendere plausibile la tesi che esporremo oltre.
Della cittadina di Caltabellotta non esistono molte fonti storiche a cui potere attingere: la si trova citata assieme ad altre fortezze in una cronaca dell’arabo Ibn Haldun; viene ancora citata dallo storico di corte Al Idrisi che, però, è interessato ad esaltare la personalità e le conquiste del re Ruggero II dal quale è stato invitato a corte per compilare su commissione la storia del suo operato.
Tuttavia, grazie al trattato di Al Idrisi, venendo a conoscere che la rocca oggi sovrastante il paesino di Caltabellotta veniva appellata in lingua araba Qal’at ‘at ballut, che significa la rocca delle querce, potremo elaborare una tesi che supporti la ricostruzione storica del piccolo centro siculo, consapevoli che nei toponimi è spesso racchiusa in sintesi la storia del luogo.
ROCCA DELLE QUERCE
Chi ha seguito le precedenti ricerche che conducevano ad una ricostruzione storica dei siti di Calatino, Calacta, Caltavuturo e Calatabiano pubblicati in questo sito web, avrà potuto verificare che, almeno i primi due su citati toponimi, erano presenti ancor prima dell’arrivo degli Arabi in Sicilia, apposti in tempi non sempre certi, ma con la volontà ben precisa di veicolare un messaggio espresso attraverso il radicale “Cal”. Il vocabolo era riconducibile ad una semantica del sacro, a volte opportunamente transitato in ambito militare col fine di conferire all’azione militare un riconoscimento di santità, di guerra giusta. Il termine, in tempi antichissimi, venne utilizzato anche per caratterizzare una tribù germanica in quanto la loro abitudine consisteva nello scendere sul campo di battaglia cantando i peana o inni sacri – kalla- in uno stato di esaltazione al punto da terrorizzare gli eserciti nemici, era questo popolo quello dei Galli, guidato dai sacerdoti druidi che tanto spazio hanno avuto nell’immaginario collettivo fin dal tempo di Cesare. Parlando di inni sacri non può passare inosservato in questa sede, che il testo in cui vengono raccolti gli inni finnici, ha il nome di ‘Kalevala’, né che esiste un documento di epoca normanna nel quale si evince che, a Tortorici, il cavaliere Eleazar, nel 1123 si impegnava, su richiesta della contessa Adelaide, a dotare la prioria di S. Anna di Galath, o Gala come trascriverà il Pirri successivamente (Il monachesimo latino nella Sicilia normanna – L. T. White Jr.). Dal documento si mettono in evidenza due fattori: che il termine cala o gala rientra nel lessico delle lingue nord europee e che il suo significato semantico è riconducibile alla sfera del sacro.
E poiché il verbo evocativo kalla caratterizzava il ruolo degli antichi re che erano anche sacerdoti, non può non essere tirato in ballo il più prestigioso tra loro che regnò proprio nel territorio di cui Caltabellotta fa parte, il sicano Cocalo, “ khu Kalla” ovvero colui che recrimina il regno, quel regno che Minosse tentava di sottrargli con lo sbarco e le sue pretese egemoniche sull’isola. Ma sulla affascinante ricostruzione delle vicende del re sicano Cocalo, rinviamo i lettori interessati all’articolo: “kamico, spiritus loci del popolo sicano” . Ma tornando sull’argomento, siamo certi che dopo i tanti articoli pubblicati a sostegno, dando ormai per consolidata la tesi secondo la quale il significato attribuito al verbo Kalla è quello di chiamare, evocare, far ‘discendere’ il sacro, possiamo procedere ad esaminare l’ipotesi fondata sul ruolo che la cittadina di Caltabellotta, che Idrisi, ricordiamolo, chiama con l’appellativo di ‘rocca delle querce’, avrebbe potuto avere prima che l’oblio della memoria ‘calasse’ su di esso.
RUOLO DELLA QUERCIA NEL MONDO ANTICO.
Essendo evidente che Idrisi con il toponimo Qal’at ‘at ballut indicasse un bosco formato da querce, abbiamo spostato, avvalendoci della ricerca comparata, l’attenzione sulla funzione che il bosco sacro esercitava presso le antiche popolazioni ed in particolare sull’albero della quercia. Abbiamo così compreso quanto simbolicamente importante fosse la presenza di questo albero nei luoghi di culto presso le popolazioni indoeuropee: ad Abramo appare il Signore presso il querceto di More’ nella terra dei Filistei e proprio in un terreno presso questo querceto, che i Filistei intendevano donargli, seppellisce la propria moglie (Genesi 12, 6- 18,1-23,19); Poco dopo la fondazione di Roma, viene consacrata sul Campidoglio la grande quercia che si riteneva essere la trasposizione in terra del re del cielo Giove; i Druidi, sacerdoti Celti, si riunivano durante i loro sacri consessi, presso il drunemeton ovvero il boschetto sacro di querce; I Sacerdoti di Dodona, i Selli, prendevano i loro responsi dal rumore delle foglie di una quercia equiparata a Zeus, mosse dal vento, e gli esempi potrebbero ancora continuare per molto.
Quello descritto dallo storico arabo ‘Al Idrisi nella storia di Ruggero II compilata intorno al 1150, appare, dunque, il luogo in cui sorgeva un boschetto sacro. Il boschetto doveva esistere ancora al tempo dello storico arabo ed avrà occupato la parte sommitale della cittadella. Ipotizzato che Idrisi facesse riferimento ad un bosco, in origine sacro e che al suo tempo non lo era più, rimane da chiedersi per quale divinità esso fosse stato tenuto in vita.
I PALICI, SIGNORI DEL BELICE
La ricorrenza con la quale sono presenti i toponimi che richiamano i gemelli divini, i Palici, nell’area geografica in cui si trova il sito di Caltabellotta, è tale da indurre a credere che questi gemelli trovassero un culto davvero speciale da quelle parti. Ma andiamo per ordine. Bal, nelle lingue indoeuropee, di cui fa parte la lingua sicana, significa Signore. I gemelli Palici, figli del dio (ma sarebbe più corretto appellarlo Avo, come suggerisce il significato del sostantivo Ano che in antico alto tedesco significa appunto Avo, antenato, capostipite) Adrano, erano onorati in tutta la Sicilia. Addirittura sembrerebbe che in un determinato momento storico il culto a loro tributato superasse quello celebrato nei confronti del loro padre Adrano. Infatti, Diodoro, non sappiamo se in modo fazioso, essendo egli greco e i Greci erano impegnati a sovrapporre la mitologia greca a quella siciliana, o perché il culto dell’Avo Adrano fosse già in decadenza al suo tempo, mentre ignora completamente il culto e i riti esercitati nei confronti del dio Adrano, si sofferma, nella sua ponderosa opera storica ‘Biblioteca Historica, con dovizia di particolari nella descrizione del tempio e del rito svolto in onore dei Palici presso la cittadina oggi chiamata Palagonia che noi facciamo derivare dall’ accostamento dei lessemi Bal-gonner con il significato di i Signori protettori. Il culto tributato ai gemelli divini era, come sopra affermato, esercitato in tutta la Sicilia, seppur particolarmente importante dovette essere stato quello celebrato ad Adrano se stiamo a quanto affermato da Virgilio nel libro IX dell’Eneide, notevole era anche quello di Palagonia su cui Diodoro si sofferma, come detto, con dovizia di particolari e sicuramente, come più giù tenteremo di ricostruire, quello esercitato presso la valle del Belice.
LA RELIGIOSITÀ NEL BELICE NEOLITICO
Non siamo in possesso di fonti storiche che possano confermare quanto tenteremo di ricostruire circa la religiosità praticata dai vetusti Sicani nella valle del Belice, pertanto per la ricostruzione della weltanshauung sicana ci affideremo al buon senso, all’intuito e alla multidisciplinarietà.
Il toponimo appare nelle fonti storiche citato dall’arabo ‘Ibn Haldun, nato a Tunisi nel 1332, il quale compilò’ un “Libro dei resoconti storici” , kitab ‘al cibr in arabo. Il Nostro, riporta l’episodio della contemporanea espugnazione da parte degli Arabi delle fortezze (in arabo il vocabolo qsar indica il castello, mentre con Qal’ at si indica una rocca naturalmente fortificata) di Caltavuturo e Caltabellotta nell’anno 938. Lo storico siciliano Michele Amari – Storia dei Musulmani in Sicilia– citando Caltabellotta conferma l’episodio dell’espugnazione del sito nella stessa data, prima, però, né aveva annunciata la liberazione da parte degli isolani, testimonianza questa, di quanto effimere siano state molte conquiste arabe in quel breve e travagliato lasso di tempo in cui i Magrebini ‘soggiornarono’ nell’isola.
Non ci è dato sapere, consultando le fonti arabe, se il toponimo oggetto della nostra indagine fosse già esistente prima del loro insediamento nell’isola. Appare lecito supporlo se all’intuito aggiungiamo la constatazione della presenza, nell’enorme area geografica della valle del Belice di una copiosa toponomastica contenente il radicale Bel (Balatanuh cioè Platani; Gibellina ecc.), toponomastica che non può essere attribuita nella totalità a rinominazioni o fondazioni arabe, avendo i conquistatori dominato per un brevissimo periodo l’isola e non nella sua globalità. Uno dei motivi che ci inducono a ipotizzare una preesistenza all’arrivo degli Arabi, dei toponimi presenti nel Belice, è dovuto alla tipologia del culto riservato nell’intera isola ai gemelli divini, culto caratterizzato dal concetto di dicotomia e/o complementarietà che essi metaforicamente rappresentarono. È da notare che Il culto a loro dedicato era imprescindibile dalla presenza in loco di acque, non solo, queste dovevano presentare caratteristiche opposte e, come detto, di dualità. Pertanto, due erano i laghetti di Palagonia – uno di acqua calda l’altro di acqua fredda-; due le fonti presso l’ara dei Palici sul fiume Simeto a due passi da Adrano, una detta di acqua scura l’altra di acqua chiara e, finalmente, due erano gli affluenti del fiume Belice, Belice destro e Belice sinistro. Tutti i luoghi citati soddisfacevano dunque il requisito di complementarietà richiesto dal culto. Caltabellotta dista soltanto qualche chilometro dal fiume Belice. Nella sua rocca, immerso tra le querce, doveva ergersi con ogni probabilità, un luogo di culto in cui poter evocare, far ‘calare’ la ‘protezione dei Signori’. La presenza di un boschetto sacro era imprescindibile là dove veniva dedicato un santuario alla divinità evocata. Virgilio lo pone presso i Palici di Adrano dove viene cresciuto (iniziato al sacerdozio?) da una Ninfa il principe Capi. Il racconto virgiliano sui Palici di Adrano presenta una straordinaria analogia con la iniziazione del principe irlandese Finn. Presso i Filistei il bosco sacro nel quale Abramo si recava senza remore, sembra possedere le medesime prerogative se perfino Salomone (I Re 3,2- 11,7) dopo la costruzione del famoso tempio, avvertì la necessità di recarsi sul monte (rocca?) Gabaon per evocare e sacrificare al generico Signore (Bal?).
LA LINGUA E LE GENTI DI SICILIA DURANTE IL PERIODO ARABO.
Della lingua parlata dai Sicani primi abitanti dell’isola e dai Siculi loro affini, ci siamo occupati in altre circostanze (La lingua dei Sicani) per riprendere l’argomento in questa sede. In questa sede piuttosto, desideriamo appurare se i toponimi siciliani formati con il termine ‘Cala’ siano di derivazione araba o meno. Poiché abbiamo constatato che i nomi di Calatino e Calacta esistevano a partire dal V sec. a. C., appare evidente che, qualora i toponimi Calatabiano, Caltavuturo, Caltabellotta ecc. fossero stati apposti successivamente a quel periodo, la lingua utilizzata fosse comunque la medesima e lo stesso il significato attribuito al verbo kalla. Che il toponimo Calatafimi venisse apposto alla rocca in onore del comandante bizantino Eufemio, è infatti inconfutabile e l’argomento verrà ripreso più sotto.
Poiché abbiamo attribuito origini nord europee alla lingua siculo sicana, con affinità maggiori rispetto alle altre all’antico alto tedesco (ata), abbiamo accostato il vocabolo Cala al verbo Kalla chiamare, in una accezione sacra, sia in ambito religioso che militare (il concetto romano di guerra giusta, per esempio, afferiva ad una semantica del sacro).
FUSIONE LINGUISTICA E CULTURALE TRA VANDALI E ARABI.
La Sicilia ha rappresentato un laboratorio alchemico da cui sono sprigionata forze inimmaginabili, che sono culminate nella creazione del primo parlamento europeo, come è noto. Nel periodo storico qui indagato, era avvenuta una operazione di sincretismo culturale e linguistico, come noi crediamo, tra i Vandali insediati nel Maghreb fin dal 429, e gli Arabi sopraggiunti nel 652, come abbiamo riferito nell’articolo dedicato a Caltavuturo.
Un sopraggiunto sincretismo linguistico e culturale viene altresì tradito, come diremo oltre, dalla copiosa toponomastica e onomastica araba arrivata fino a noi.
I Vandali provenienti dalla Scandinavia, parlanti una lingua germanica, si fusero con gli Arabi sopraggiunti nel Maghreb poco dopo che si erano indeboliti con la morte del loro astuto capo Genserico e si videro costretti ad una apertura nei confronti di Costantinopoli che militarizza il Maghreb nel 553. Dopo quella data l’esercito vandalo si polverizzò’ confluendo nelle file dei nuovi arrivati, i Bizantini prima e gli Arabi subito dopo, ma, come accadde per i Greci nei confronti dei Romani conquistatori, i Vandali fornirono il proprio contributo agli Arabi in diversi settori: marinaro, militare, linguistico e, forse, perfino religioso dal momento che numerose appaiono le analogie tra l’idea del paradiso maturata dai Vandali, con quello immaginato dagli islamici come abbiamo messo in evidenza nell’articolo dedicato a Caltavuturo.
È lecito supporre che in ambito religioso alcuni Vandali si fossero convertiti all’Islam, altri al cristianesimo ortodosso, altri rimanessero ariani e altri ancora avessero indossato il saio. Non siamo in grado di poter stabilire l’influenza sociale che questi ‘barbari’ addomesticati esercitarono in Sicilia durante il loro primo sbarco avvenuto nel 440. Comunque sia, il contributo linguistico che i Vandali apportarono alla lingua araba appare evidente ed è rinvenibile nel nome Ab(u) Thur, dalla Porta, nome ancora attuale in Sicilia, riportato dallo storico M. Amari nella sua ‘Storia dei Musulmani in Sicilia’; è ancora evidente nel nome dello storico Ibn Haldun (Alduino?) nato a Tunisi, antica sede dei Vandali, anche se lo storico vi nasce nel 1332, questi è l’autore del libro storico ‘Kitab’ al cibr’ nel quale si ritrovano episodi dedicati a Caltabellotta e dal quale abbiamo copiosamente attinto notizie importanti. Nel resoconto di Ibn Haldun si trovano numerosi riferimenti che inducono a confermare la tesi qui esposta circa i contributi linguistici germanici confluiti nella lingua araba. Citiamo il riferimento dello storico alla casata dei ‘Banu’ at Tabari’ (che nella lingua araba significa potente casa, in cui il termine casa va inteso nell’accezione di lega, unione, tribù, famiglia ecc), il termine band in lingua germanica significa lega, unione. La casata araba (?) sopra citata era in conflitto con un’altra casata araba: i Kutamah (i monaci o i religiosi? ), in tedesco kutte significa tonaca.
Attingendo ancora informazioni dalla cronaca di ‘Ibn’Al’Atir, che mette per iscritto intorno al 1200, riflettendo sul frequente ribaltamento di alleanze, ci chiediamo se il Capitano bizantino di nome Eufemio, a cui viene intitolata la rocca che darà luogo al toponimo Calatafimi, ribellatosi a Bisanzio in quanto ambiva a costruire un regno di Sicilia tutto proprio, non avesse richiesto nel 827, aiuto militare agli Arabi del Maghreb, ma di etnia vandala, per il semplice motivo che anche egli potesse esserlo (alcuni Vandali, ricordiamolo, nel 553 erano confluiti nell’esercito bizantino dopo che Costantinopoli era riuscita a militarizzare il Maghreb). Infatti ci è sospetto che uno tra i due più ragguardevoli consiglieri arabi che disputarono sull’opportunità di fornire aiuti al bizantino Eufemio, si chiamasse Al-Furat significando il suffisso rat, in lingua germanica, consiglio, riflessione, discussione, e, guarda caso, alla fine fu proprio il consiglio di fornire aiuti a Eufemio, proposto da Furat ad essere quello seguito. È per noi oggetto di ulteriore riflessione il nome del generale al servizio di Eufemio, un certo Balatah che quasi subito abbandona Eufemio nel tentativo di creare a propria volta, un regno di Sicilia a proprio uso e consumo. Il nome di quest’ultimo ha tale assonanza con il toponimo Belice e dunque con Bal, al punto da immaginare che nello scacchiere politico e militare di quel secolo, caratterizzato da una presenza multietnica in lotta per imporre i propri interessi nell’isola, il cospiratore Eufemio avesse attinto, al fine di potenziare il proprio esercito, da chiunque fosse in grado di fornirgli i mezzi e gli uomini adeguati, tra questi il siciliano Balatah che derivava il suo nome o appellativo, dal luogo di provenienza o, come era abitudine presso i Romani (cognomen ex virtute) da una località che aveva conquistato: la valle del Belice(?). Infatti, “La cronaca araba” afferma Umberto Rizzitano – La Sicilia islamica– “precisa che il primo scontro con l’esercito bizantino comandato da Balata avvenne in una località omonima: forse Rahl Balata”. Ci chiediamo ancora se le infinite guerre civili arabe, in Sicilia concluse con la totale espulsione dei Berberi da parte degli Arabi nel 1014, possano essere spiegate alla luce delle differenze etniche e culturali mai sopite tra i popoli del Maghreb.
Nel nostro precedente articolo, “Quando gli Arabi erano biondi”, abbiamo tentato di dimostrare, opponendo alle tesi canonizzate in certi ambienti intellettuali, le nostre argomentazioni circa la formazione dei nomi di alcune città siciliane, toponimi che si credevano di derivazione araba mentre, a nostro avviso, essi erano riconducibili ad una lingua parlata in occidente. Alcuni di questi toponimi, infatti, appaiono in Sicilia già in tempi anteriori all’arrivo degli Arabi. Avendo dimostrato dunque, in quella sede, che i toponimi di Calatino citato da Tito Livio e quello della città di Calacta fondata da Ducezio nel V secolo a. C., citata da Diodoro, esistevano da oltre un millennio prima che giungessero gli Arabi nell’isola, a noi parve legittimo mettere in discussione l’attribuzione agli Arabi dei toponimi formati con il radicale “Cal”. Non avendo del tutto esaurito l’argomento ed essendoci inoltrati sempre più nella ricerca, ci siamo imbattuti nella cittadina di Caltavuturo, nome composto dall’unione di più lessemi il cui significato ci è sembrato essere collegato ad un evento specifico che più giù esporremo. Pertanto, come è nostra consuetudine, condivideremo la seguente intuizione con i nostri affezionati lettori che ad ogni ora ci manifestano il loro consenso.
Il sito ove sorge l’attuale cittadina di Caltavuturo risulta, come affermato, strettamente collegato ad un episodio di guerra, anzi crediamo che il toponimo sia stato apposto al sito in occasione proprio di quell’episodio per l’eccezionalità’ dei fatti ivi accaduti, fatti che colpirono profondamente l’immaginario collettivo da spingere lo storico siciliano Michele Amari a richiamarli nella sua ponderosa opera intitolata, I Musulmani in Sicilia. Il Nostro, a sua volta, riprese l’episodio attingendo da una agiografia greca e da una araba.
LA PORTA DEL CIELO.
Lo storico siciliano, nel suo prezioso volume descrive i dettagli di una battaglia combattuta nel 882 fra l’esercito bizantino e quello Arabo in un luogo che, secondo quanto riportato dallo storico, avrebbe preso il nome di un comandante arabo, un certo Abu Thur che in nulla si sarebbe distinto, se non per l’aver perduto il proprio esercito fatto a pezzi dai Bizantini e che in nessun altro luogo della storia siciliana trova posto. Poiché il nome del fantomatico Abu Thur oltre che apparire più di origine germanica che araba, non viene citato nella battaglia combattuta nel sito di Caltavuturo, non avendo lo stesso avuto alcun ruolo, a noi stupisce che gli si fosse intitolata una fortezza nella quale egli non mise piede; piuttosto, analizzando i fatti, a noi sembra che il nome del presunto comandante arabo sia stato utilizzato dallo storico per spiegare il significato del toponimo che egli traduce con la ‘rocca di Abu Thur’, traducendo a sua volta Abu Thur con ‘Quel del toro’ . La farraginosità della costruzione onomastica e toponomastica di cui si è servito il Nostro, ricorda l’espediente con cui gli antichi scrittori greci, non sapendosi spiegare le origini etimologiche dei nomi di certi popoli oggetto della loro indagine, liquidavano il problema inventandosi dei patronimici, pertanto si inventano un capostipite per i Siculi di nome Siculo; Italo per gli Itali; Teucro per i Teucri e così via.
Ma andiamo ai fatti svoltisi a Caltavuturo. In breve, lo storico siciliano racconta che durante i combattimenti i comandanti dei due eserciti che si fronteggiavano sul campo, ebbero contemporaneamente delle visioni: il bizantino quella di Sant’Ignazio patriarca di Costantinopoli che gli annunciava la prossima vittoria nonostante le difficoltà in cui il comandante versava, suggerendogli addirittura la strategia di manovra bellica da adottare; dall’altro schieramento l’arabo, rimasto gravemente ferito, in coma o in uno stato di premorte come diremmo oggi, ebbe la visione di una schiera di fanciulle che, salendo e scendendo da scale appoggiate tra il cielo e la terra, portavano su in cielo i caduti sul campo di battaglia.
UN CASO DI PREMORTE.
L’arabo da cui viene raccolta la narrazione si chiamava Abu-Hasan-Hariri. Egli aveva partecipato alla battaglia di Caltavuturo ove i Musulmani erano stati sconfitti. Nel raccogliere i cadaveri per dargli degna sepoltura, Hariri trova semi morto il compatriota Abu-Abd+Selem-Moferreg. Fra le lacrime questi racconta di una mirabile visione: creduto morto, stava per essere condotto in cielo da una delle Huri – così venivano chiamate queste valchirie arabe-, che già lo teneva fra le braccia, quando accortasi che lo sventurato era ancora vivo, pronunciando parole di biasimo per sé stessa in seguito alla propria inavvedutezza e per l’errore fortunatamente stornato, se ne salì a mani vuote in cielo.
Al di là del fatto miracoloso occorso, oggetto del contenuto dei due episodi raccontati da autorevoli biografi, uno dei quali era il bizantino Niceta Davidde di Plafagonia, da cui ha attinto lo storico Michele Amari, a noi preme porre l’attenzione sull’aspetto linguistico, tenendo conto che vi furono linguaggi che per erosione si ridussero a frammenti lessicali, uno di questi, crediamo, possa ritenersi l’arabo. In questa lingua si trasferì il termine protogermanica Kalla akta che ritroviamo, come sopra affermato, in Sicilia nella variante kale akte o kalacta come riporta Diodoro (Qal’at in arabo).
Dall’analisi etimologica comprenderemo se il toponimo Caltavuturo apposto a quel luogo in seguito alla battaglia svoltasi, possa essere tradotto, secondo il nostro metodo interpretativo di cui si è fatto riferimento spesso nei nostri articoli, “Calate dal cielo” con riferimento alle fanciulle che curiosamente portano un nome a noi familiare. Tra le numerose analogie ricorrenti tra la cultura medievale occidentale e quella araba messe in evidenza nella ricostruzione storica qui proposta, risalta quella tra le Huri arabe e le Walkirie germaniche deputate a svolgere il medesimo ruolo, quello cioè di raccogliere gli eroi caduti sul campo di battaglia per condurli nei rispettivi paradisi. Non meno curiosa è l’affinità tra il nome delle fanciulle arabe, Huri, e il nome Urio della divinità sicula che Cicerone cita nelle verrine, divinità che trovava sede a Siracusa ed era oggetto di pellegrinaggio da parte della popolazione sicula della Sicilia. Il lessema Ur nella lingua germanica significa antico, primordiale.
VANDALI ED ARABI IN SICILIA
Prima di continuare nel nostro excursus, e al fine di trovare il trait d’union delle analogie che intercorrono tra la cultura araba e quella occidentale europea, è bene ricordare che diversi popoli, muovendo dall’estremo nord Europa, citati da Erodoto, Diodoro ed altri storici antichi, scorrazzavano fin da tempi antichissimi nei territori del Medio Oriente rendendoli tributari e, con tutta probabilità, lasciandovi dei prestiti culturali e linguistici che i popoli indigeni avrebbero potuto raccogliere e fare propri; tanto per citare un esempio in cui tali prestiti appaiono evidenti ricordiamo che i romani, utilizzando il carro da trasporto introdotto dai Germani, il rada ovvero ruota, introdussero il nome dell’attrezzo di locomozione nel proprio lessico. Tra i popoli germanici che scorazzavano per l’Europa e l’Oriente, più di tutti si distinsero i Goti provenienti dal Gotland, un’isola della Svezia, tanto da far dire allo storico Giordane che i Goti rappresentavano la vagina dei popoli. I Vandali, che erano un ramo della grande famiglia gotica, scendendo attraverso la Spagna, attraversarono Gibilterra e si stabilirono nel nord Africa nel 429 con un contingente di ottanta mila teste. I Vandali erano i discendenti di quegli Arii di cui riferisce Tacito che preferivano attaccare di notte con il corpo dipinto di nero e che adoravano Wotan-Odino. Forse Sant’Agostino morì di afflizione quando li vide sotto le mura di Cartagine urlando i loro terribili peana o per il terrore che il crudelissimo Genserico incuteva. Roma si trovò costretta a riconoscere ai Vandali, tranne che Cartagine, i possedimenti nordafricani reclutando, tra l’altro, nel proprio esercito questi ingestibili Germani. Dopo la presa di Cartagine – val la pena sottolineare quanto segue per comprendere il futuro rapporto che i Vandali stringeranno con gli Arabi e la condivisione di molti aspetti religiosi oltre che obiettivi politici-, verrà intrapresa una persecuzione dei cristiani in terra d’Africa. Genserico, al fine di controllare capillarmente l’intero territorio nord africano, insediò i suoi ottantamila individui al seguito, a gruppi di mille, di cui duecento fra questi erano temibili guerrieri. Introdusse i rigidi costumi atavici: stabilì una austerità quasi monastica facendo chiudere i lupanari, abbattendo gli anfiteatri, condannando l’adulterio e deportando gli omosessuali. Dopo la conquista di Cartagine il Vandalo espulse i romani e nel 440 intraprese una incursione dimostrativa in Sicilia. Nel 455 ‘vandalizzò Roma e fece del regno africano un regno ricchissimo. I Bizantini non potevano restare a guardare. Nel 476 con la morte dell’ottantenne Genserico il regno iniziò la sua parabola discendente e i Bizantini non lasciarono cadere l’occasione. Nel 527 l’imperatore Giustiniano inviava la sua flotta a Cartagine che cadeva nel 533. I guerrieri Vandali furono assorbiti nell’esercito bizantino. Quando vi giunsero i Musulmani nel 652, venuti dal Medioriente, Michele Amari afferma nel suo trattato che l’Africa era tenuta da quattro popoli diversissimi tra loro e così si esprimeva: “La più moderna era un pugno di gente germanica che alcuni autori chiamano Franchi; e Leone Affricano, Goti: senza dubbio gli avanzi dei Vandali”. L’Amari continua la sua descrizione affermando che un’altra stirpe che avanzava le altre per numero, si era stanziata fin da tempi antichi nel nord Africa provenendo dalla Media, a questa lo storico attribuiva caratteri somatici caucasici ed era soprannominata Berbera, storpiamento del termine barbaro. La schiatta romana e la fenicia, così come la nera, erano ininfluenti in quella società.
Questi furono dunque i popoli che nel VI secolo si unirono agli Arabi muovendo dal nord Africa verso la Sicilia agli inizi del VII secolo.
Anticipando quanto diremo più giù, facciamo notare che la conflittualità tra le fazioni arabe, quando queste si impadroniranno della Sicilia, raggiunse livelli tali che gli Arabi scacceranno le tribù berbere dalla Sicilia. Le espulsioni si spiegano alla luce delle differenze culturali mai appianate tra questi eterogenei alleati. In Sicilia dovevano già esservi insediate comunità vandale che, a partire dall’invasione vandalica del 440, facevano da testa di ponte col Magreb. Se gli Arabi, appena giunti nel Maghreb sono in grado di passare in Sicilia, poiché è nota la ripugnanza degli Arabi per il mare e notoria la dimestichezza acquisita dai Vandali nel percorrere le liquide vie, non lo si può attribuire che all’esperienza marinara dei Vandali. Si spiegherebbe così la meraviglia espressa dallo studioso Umberto Rizzeri (La Sicilia islamica) nel notare “ l’improvvisa comparsa del naviglio arabo sulla ribalta del Mediterraneo”. A conferma di quanto qui supposto, si tenga conto che le imprese per mare condotte dagli Arabi e il successivo dominio del Mediterraneo da parte dell’Islam, inizia con la conquista del nord Africa. A questo punto della ricostruzione storica, i nostri lettori non avranno difficoltà ad accettare l’ipotesi che fra le fila dei Saraceni militassero elementi gotici, quei Vandali cioè, che per pragmatismo politico avevano abbandonato Odino per abbracciare l’arianesimo appena giunti nel continente e che ora non si facevano scrupolo di gettarsi fra le braccia di Allah, trovando nei cristiani un comune nemico. Sulle basi dei trascorsi storici del nord Africa, caratterizzati dall’ avvicendarsi e/o dal fondersi dei popoli dominatori, come sopra esposto, sarebbe lecito supporre che Vandali di confessione ariana potessero essere i protagonisti del racconto dei fatti di Caltavuturo, come si potrebbe dedurre dai loro nomi, Hariri (cioè Ario), Moferreg (l’etimo potrebbe essere stato trascritto sulla base della corrotta pronuncia del vocabolo tedesco Morr-verlegen, ove con Moor si indica un terreno paludoso e verlegen significa differire, rimandare con riferimento alla morte scampata del protagonista) e in qualche modo anche quello di Ab(u) Thur, dalla porta, accettando per il Nostro un ruolo diverso da quello fornito dal racconto, forse mal compreso dallo storico siciliano.
Trascurando che la versione araba dell’episodio raccontato, possa essersi ispirata al mito di Er di cui parla Platone nella Repubblica; nel mito greco si fa infatti riferimento a una esperienza di premorte di un milite sul campo di battaglia, se i fatti raccontati aderissero alla nostra ricostruzione, non sarebbe peregrina la formulazione dell’ipotesi che il toponimo Caltavuturo fosse stato apposto al luogo in seguito ai prodigi di cui si è detto. Nella lingua di Hariri, di Moferreg e di Ab(u) Thur, se essa fosse stato il vandalico, Kalla-ab-tur, corrotto in Caltavuturo, tradotto verbo pro verbum significa “chiamare evocare, far discendere – dalla – porta (del cielo)”. Ricordiamo ai lettori che era una abitudine consolidata presso le varie civiltà, nominare un luogo in base l’eccezionalità dell’esperienza vissuta. Infatti, apprendiamo dall’ Antico Testamento che Giacobbe, – Genesi 32,26- dopo aver ingaggiato una lotta con un angelo col fine di non lasciarlo partire senza avergli strappato una benedizione, pose il nome di “Fanuel” al luogo ove si verificò il prodigio. Che la lingua vandalica potesse sopravvivere ancora un secolo dopo l’arrivo degli Arabi nel nord Africa, ci sembra una probabilità assai ragionevole per un popolo, quello dei Vandali, che, come abbiamo esposto sopra, era fortemente radicato nel territorio.
KALAT : IL CASTELLO
Attingendo ancora dal prezioso saggio dello storico siciliano, si può ben osservare che il termine kalat, che dovrebbe essere stato utilizzato per indicare un castello, una rocca o una fortezza, come si pretende in certi ambienti culturali, non viene utilizzato per tutti i siti espugnati dagli Arabi caratterizzati dalla presenza di una fortificazione: non viene utilizzato per rinominare, secondo l’uso arabo o a loro attribuito, l’inespugnabile castello di Gagliano detto, appunto, castel ferrato e che, invece, a detta dell’Amari, lo stesso viene appellato in lingua araba Kasr-el-Hedid; né viene utilizzato per rinominare Castelmola e molti altri siti che ben avrebbero meritato l’appellativo di kalat, castello. Molti dei luoghi in cui gli Arabi costruirono fortificazioni, invece, non vennero paradossalmente appellati con il termine kalat; è il caso dell’accampamento che gli Arabi installarono nel 670 nel castello romano presso Susa, in Tunisia, che chiamarono Kamunia; poi, ancora, citando il Fazello lo storico siciliano, facendo riferimento alle conquiste siciliane da parte di Abramo Halbi nel’827, afferma che si inviava in Sicilia il capitano Halcamo il quale edificava un castello che da lui prendeva il nome, nome che, se stiamo a quanto affermato dagli studiosi circa la formazione dei toponimi, si sarebbe dovuto chiamare Calatalcamo. L’Amari, per rendere autorevoli le affermazioni del Fazello da cui egli attinge, sostiene che questi avrebbe appreso dagli annali maomettani quanto raccontato. Sembra incongruente che l’Amari, nel riferire della caduta in mani arabe – riportiamo le sue parole- di “molte castella dell’isola: Platani, Caltabellotta, Caltavuturo, Sutera, una terra che non so se vada letta Ibla, Avola o Entella” e continuando con l’elenco dei castelli: “kalat-A d-El-Mumin e altre città di cui non si dicono i nomi che tutte avevano promesso obbedienza e tributo ai Musulmani” faccia il nome arabo soltanto di uno dei castelli, forse perché l’unico realmente edificato dagli Arabi? ciò significa che le altre città non lo erano? non lo erano dunque Caltabellotta, Caltavuturo, né Calatabiano, così come non lo erano Calatino, né la duceziana Calacta come sostenuto all’inizio della nostra digressione. Nel formulare la detta conclusione ci soccorre l’autore delle cronache di Cambridge. Infatti, nell’ affermare che nel 938 gli Arabi “sottomettono tre rocche, cioè Caltavuturo, Qal’at ‘as Sirat e Isqlaf.nah”, implicitamente l’ autore delle cronache conferisce origini indigene al toponimo di Caltavuro. Se non bastasse quanto fin qui sostenuto, aggiungiamo che lo storico arabo ‘An Nuwairi riporta in una cronaca che, presa Taormina si pose l’assedio a Rametta ove il comandante Ibn ‘Ammar, “si fece fabbricare un qasr” cioè un castello.
INFLUENZA DELLA CULTURA ARABA IN SICILIA
Esprimendo fino in fondo le convinzioni maturate dalla ricerca, affermiamo di essere dell’avviso che l’influenza della cultura araba in terra di Sicilia sia stata modesta, in perfetta coerenza con l’aforisma coniato dai Siciliani “Calati juncu ca passa la china” ovvero: Chinati giungo e aspetta che la china del fiume sia passata per ritornare irto più di prima” nella saggia consapevolezza della transitorietà di ogni evento. Pertanto affermiamo che la suddetta presunta influenza culturale araba non sia entrata in profondità nel tessuto connettivo isolano, ma sia entrato a far parte, piuttosto, dell’immaginario collettivo a motivo dell’orrore e del terrore provocato dalle violente incursioni che, queste sì, rimasero profondamente impresse nella memoria degli abitanti. Le conquiste e assoggettamento dei territori Siculi, sì ci sono state, ma non per un periodo così lungo da poter consentire ad una cultura plurimillenaria quale era la siciliana, già avvezza alle dominazioni, di essere permeata in profondità. Fino al 740 infatti, si può parlare di scorrerie arabe nel territorio siciliano, incursioni veloci e di breve durata con immediato rientro in Africa. Le incursioni avevano l’unico scopo di fare una gran messe di prigionieri, merce ritenuta preziosa, e di tesori oltre che rendere tributarie quanto più possibile le città isolane. Il cronista che compose il codice di Cambridge, di cui non si conosce l’etnia, ma si sa che era cristiano e visse a Palermo verso la metà del 900, fa iniziare la conquista dell’isola dal 827. Lo sbarco avviene a Mazara: l’anno 831 viene conquistata e fortemente arabizzata Palermo che fungeva di capitale del nuovo impero e di base operativa. Dalla capitale siciliana le incursioni si spingevano verso l’entroterra siciliano; il più delle volte gli eserciti arabi rientravano a Palermo sconfitti; in alcune occasioni i villaggi dell’interno venivano conquistati per un breve periodo e perdute nuovamente come viene affermato nel succitato codice per la città di Noto. Alcune città, pur di evitare spargimento di sangue preferivano rendersi spontaneamente tributarie conservando la libertà. Prima della presa di Palermo gli Arabi erigevano i loro accampamenti in aperta campagna bivaccando sotto le loro tende. La Sicilia orientale, l’area etnea in particolare, rimase libera per lungo tempo: fino all’860 i musulmani occupavano Palermo e non più di una trentina di città , il resto della Sicilia era libera. Enna viene assediata nel 859; Messina viene espugna nel 843 ma non Milazzo né Rametta; Siracusa nel 878; Taormina viene conquistata soltanto nel 908 e non per molto visto che nel codice di Cambridge si legge che nel 919 gli Arabi stipulano una tregua col popolo di Taormina e le altre rocche tenute dai Cristiani per essere presa – probabilmente si era interrotta la tregua – nel 962. In questa occasione essa viene rinominata ‘Al Muizziah dal nome del suo conquistatore ‘ Al Muizz. Nella suddetta cronaca, si apprende che nel 951 i Musulmani assediarono, “senza alcun frutto”, la rocca di Gerace ben difesa dai Cristiani. Alcuni decenni dopo questi ultimi eventi, un periodo temporale che riteniamo troppo breve per poter pensare ad una arabizzazione dell’isola, la Sicilia passava sotto il dominio degli uomini del nord, I Normanni, pronipoti di quei Vandali che, muovendo dalla Scandinavia sei secoli prima, erano passati in Africa di cui erano diventati signori, per passare due secoli dopo la conquista nelle file musulmane e, sebbene si fondessero con gli islamici, non avrebbero del tutto reciso il cordone ombelicale che li univa culturalmente ai consanguinei uomini del nord.
Alcuni affermano che essi (i Celti) nei tempi antichi fecero scorrerie per tutta quanta l’Asia, chiamati con il nome di Cimbri […] riscossero tributi su un’ampia parte dell’Europa e dell’Asia, e che si stabilirono sulle terre dei popoli sconfitti.
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, V, 32.
Il titolo del seguente articolo non vuole essere irriverente né provocatorio, ma, come è nel nostro stile letterario, in cui spesso si utilizzano frasi estrapolate dai racconti degli antichi storici, per entrare nel vivo del tema che si desidera affrontare, intende, quale unico fine perseguibile, allargare gli orizzonti della conoscenza attraverso la ricerca. In questo breve articolo vorremmo focalizzare l’attenzione dei nostri lettori sullo studio delle lingue antiche, parlate in aree geografiche considerevolmente distanti le une dalle altre e pur tuttavia riconducibili ad una ipotizzata proto lingua comune o più semplicemente a prestiti linguistici. La riflessione che segue, ha preso lo spunto da un dibattito occorso tra noi e un gruppo di studiosi circa il significato da attribuire ad alcuni toponimi siciliani. Il dibattito prendeva in considerazione l’ ipotesi dell’origine araba dei toponimi contrapposta all’ipotesi da noi sostenuta di una loro origine occidentale. Non escludevamo la possibilità che i lessemi componenti i toponimi, potessero essere stati mutuati dagli Arabi da un lessico occidentale portato in terra araba in tempi pre storici da migrazioni europee (Cimbri? Galati?), come si evince dai racconti di alcuni storici antichi che sotto elencheremo, e continuati ininterrottamente fino ai tempi storici. Infatti, ancora nel V secolo dell’era volgare i Vandali, popolo germanico, si insediava nel nord Africa ove creava un regno informandola della propria organizzazione sociale e della propria visione del mondo. Gli Arabi, che vi giunsero poco dopo, mossero per la Sicilia, proprio dal nord Africa. I Vandali, a loro volta, anche se per breve tempo, avevano preceduto gli Arabi in terra sicula. Il termine oggetto del dibattito era quello di “kalat” che in arabo significa castello. L’origine araba del nome era universalmente accettata dai nostri interlocutori, tranne che da noi, memori che dalle pagine dello storico Michele Amari, apprendemmo, quale indizio afferente al nostro ragionamento, che il primo presidio arabo in Africa, nei pressi di Susa, in Tunisia, venne realizzato su un piccolo castello romano che gli Arabi chiamarono “Kamunia” e non Qal’at. Inoltre, affermava lo storico siciliano nel suo dettagliato trattato, che i Bizantini, dopo le prime incursioni arabe nell’isola di Sicilia, innalzarono, a partire dal 753, a difesa del siculo territorio, castelli su ogni monte della Sicilia che si prestasse a tal uopo. Infine, lo storico siciliano, faceva cenno ad un presidio arabo che in lingua araba sarebbe stato chiamato ‘El-Kasr-el-Hedid ovvero “Il Castel di ferro”, che il nostro storico identifica con Gagliano e che, come noterà il lettore, non è presente il termine Qal’at. I nostri interlocutori, portavano a supporto della loro tesi, un modesto elenco di rinominazioni arabe di paesi siciliani quali Caltanissetta, Calatabiano, Calatino ecc. Facemmo notare che il toponimo Calatabiano attribuito agli Arabi, in mancanza di fonti epigrafiche, non era suffragata da certezze storiche, mentre proprio quello di Calatino, attraverso le nostre argomentazioni, avrebbe smentito le loro affermazioni essendo il toponimo, non solo presente anteriormente all’arrivo degli Arabi nella nostra isola, ma era talmente antico da poter essere attribuito alla cultura sicana. Infatti, è tipico dei primi abitatori di un determinato luogo apporre i toponimi in base alle caratteristiche più evidenti che esso manifesta (il figlio di Erik il rosso, spintosi col suo drakkar dalla Groenlandia fino al centro America, chiamò Vineland il luogo in cui approdò, poiché vi trovò molte viti). Inoltre, tranne che per sporadici casi, si constati che la toponomastica rimane invariata nel corso dei millenni nonostante l’avvicendarsi, negli stessi luoghi, di popoli con culture diverse; è questo il caso degli idronomi Tigri, Eufrate; degli oronomi Caucaso, Peloritani, Alpi; dei toponimi Atene, Siracusa ecc. Facevamo notare, inoltre, che il significato del toponimo Calatino era traducibile, grazie al metodo da noi utilizzato che i lettori ormai ben conoscono e che riprenderemo sotto.
IL CALATINO: FORCHE CAUDINE DELLA SICILIA.
Durante il dibattito, abbiamo esposto ai nostri interlocutori la consuetudine nell’onomastica romana, di apporre al generale vittorioso il nome del luogo conquistato (cognomen ex virtute), di cui quello di Scipione detto l’Africano è soltanto uno dei tanti esempi.
Il toponimo Calatino, con cui si designa ancor oggi un ampio territorio, del quale fanno parte oltre che alla città di Caltagirone quelle di Mineo e Palagonia, nei cui pressi insiste l’antichissimo culto degli dèi Palici rimasto in vigore certamente fino al I sec. a. C., venne apposto come soprannome, nel 260 a. C., al console Aulo Atilio durante la prima guerra punica, per onorarlo della vittoria conseguita sui Siculi. Analizzando il racconto di T. Livio su come si svolse la battaglia tra le legioni di Attilio e gli eserciti dei Siculi, si evince che il console era rimasto imbottigliato in una insenatura del Calatino sormontata da colline. La valle era dunque controllate dai Siculi grazie alle colline sovrastanti sulle quali erano state costruite le fortezze, fortezze che Diodoro Siculo chiama nel suo trattato Biblioteca storica, “castella”.
LA LINGUA DEI SICULI.
Dal momento che il toponimo Calatino è preesistente all’arrivo degli Arabi in Sicilia, documentato in epoca romana, e noi siamo propensi ad attribuirne il conio ai Sicani che, come affermato altrove, parlavano una lingua agglutinante, proprio come nel tedesco attuale, riconducibile al proto germanico, riteniamo che il toponimo sia formato dall’unione dei lessemi Kalla, acht, inna, che tradotto verbum pro verbo significa chiamare, azione, dentro. La libera traduzione da noi effettuata lascerebbe intendere che il luogo fosse stato scelto come il più idoneo per una chiamata a raccolta del prisco popolo siculo per condurre una azione bellica rivolta contro lo straniero invasore, il quale, in questa occasione, indossava la toga romana, ma, in altra occasione, potrebbe essere stato incarnato dall’elemento greco e, ancora in precedenza, da quello cretese come, ripercorrendo la storia, si evince dal tentativo perseguito da Minosse di conquistare l’isola, e chissà quanti altri popoli non documentati dalla storiografia antica, provarono con la forza, prima di questi, a mettere radici nell’atavico suolo siciliano.
DUCEZIO E LA LINGUA DEI SICANI.
Quanto affermato fin qui, farebbe emergere che il verbo protogermanico Kalla, chiamare, (si noti che in greco antico καλέω significa chiamare, fare venire, invitare, invocare [GI Loescher-Montanari]) nella sua accezione di chiamata a raccolta, afferente alla sfera semantica bellica, sarebbe diventato nel tempo un sinonimo di fortezza, un luogo in cui avveniva la chiamata alle armi o urlo di guerra, il kalat (il nome arabo khaled potrebbe derivare da Kalla gridare, ed essere stato apposto quale soprannome. Infatti, il condottiero arabo Khaled-ibn-Walid, come afferma lo storico M. Amari, “soleva correre per le file dei musulmani esortandoli” levando il grido di Akbar Allah). La fortezza naturale costituita da colline scoscese, di per sé di difficile accesso, venendo ulteriormente fortificata con opere architettoniche militari, diventava inespugnabile come nel caso di Monte Adranone, per la cui via perfino la potente macchina militare romana dovette arrestarsi. Abbandoneremo, a motivo della farraginosità dell’esposizione della tesi a cui saremmo costretti, il tentativo di spiegare la derivazione dal verbo Kalla del verbo siciliano calare, il quale indica un univoco procedere di qualcuno o qualcosa dall’alto verso il basso e che potrebbe essere ricondotto all’azione del discendere degli eserciti siculi dalle loro fortezze collinari, per soffermarci su ciò che riferisce Diodoro sulle operazioni belliche condotte dal grande condottiero Siculo Ducezio. Il Duce, che era nato nel Calatino, a Mene, l’attuale città di Mineo, come afferma Diodoro siculo nella seconda metà del V sec. a. C., rientrato dall’esilio in cui si era recato a causa della disfatta subita dopo l’abortito tentativo di recuperare i territori siculi erosi dai Greci, fonda sulla costa tirrenica, in un territorio interamente siculo, nel quale la lingua parlata era il siculo, la città, ma sarebbe più esatto definirla fortezza, di kale’ Acte (se il nostro eroe siculo avesse aggiunto al toponimo l’aggettivo inna, avremmo avuto calactinna ovvero Calatino). Le caratteristiche del paesaggio dove Ducezio fonda la sua fortezza, sono simili a quelle del Calatino: numerose colline difficilmente scalabili che si trovano a protezione della costa. Sulla base del toponimo apposto dal Duce alla sua fondazione, potremo spingerci a tentare la traduzione del toponimo Calatabiano, un borgo della provincia messinese, suddividendo lo stesso nei seguenti lessemi: Kale-acte-binden ovvero, avvalendoci della lingua proto germanica che, come già affermato riteniamo simile alla sicana e alla sicula, chiamata-azione-legare o stringere. Non può passare inosservata la descrizione che Diodoro nel libro V, 42 della sua opera, fa dell’Arabia: in essa molti erano i villaggi e le città costruite sulle colline, afferma lo storico di Agira. Kahl, nella lingua tedesca significa pure calvo, parete nuda, privo di foglie, termine che se si potrebbe adattare alle colline arabe, sarebbe inappropriato per quelle siciliane dove sorgevano i villaggi fortificati presi in esame in quanto la flora vi cresceva rigogliosa. Come si può notare, pur con trascurabili varianti lessicali, i toponimi riconducono ad una semantica afferente al concetto di azioni militari atte a liberare i territori atavici dagli invasori stranieri che, al tempo di Ducezio, assumevano le sembianze dei tiranni greci. Cercheremo adesso di comprendere se il termine sicano kalat, possa essere passato dal vocabolario bellico occidentale a quello Arabo.
QUANDO GLI ARABI ERANO BIONDI
Gli Ittiti potrebbero essere considerati gli antichi progenitori degli attuali Turchi dal momento che li troviamo insediati in Anatolia fin dall’età del bronzo. Lo studioso Hronzny, nel 1915, imbattutosi in alcune tavolette ittite scritte in cuneiformi, fu in grado di tradurle avvalendosi dell’antico alto tedesco (ata). Infatti, l’archeologo noto’ che sulle suddette tavolette appariva inciso in caratteri cuneiformi il termine ‘ezzateni’. Non sfuggì al ricercatore la somiglianza del vocabolo ittita con il termine ‘ezzan’ dell’antico alto tedesco, corrispondente al tedesco moderno essen, mangiare. Si aggiunga al singolare ritrovamento di Hronzny che la Galizia, regione turca che deve il suo nome all’insediamento dei Galli nel III sec. a. C., mantenne il galato quale lingua germanica fino al IV sec. della nostra era. Non può ancora passare inosservato, che nel nord della Francia, sul punto più stretto del canale della Manica, luogo passato indenne dalla dominazione araba, vi è la cittadina di Calè che già i romani chiamavano Caletum. Lo storico greco Erodoto, V sec. a. C., a sua volta, ci mette a conoscenza che nella Persia assoggettata da Ciro, nel VI sec. a. C. vi era una regione abitata dai Germani. L’imperatore Augusto, sconfitta la regina Cleopatra, come afferma Giuseppe Flavio in ‘Antichità Giudaiche’, fa dono a Erode, della guardia personale appartenuta alla regina egiziana, formata da quattrocento Galli. Per motivi di sintesi rimandiamo i lettori al nostro saggio ‘Il paganesimo di Gesù’ fruibile gratuitamente nel sito miti3000. eu, per dimostrare le origini nord europee dei Filistei. E a proposito della Palestina, Diodoro siculo nel libro III, 42 fa riferimento ad una esplorazione del golfo arabico da parte di Marino Aristone inviato dal macedone Tolomeo generale del grande Alessandro. L’esploratore dopo aver elevato un tempio a Poseidone nei pressi del golfo che chiama Poseidone, incontra in Palestina la tribù dei Gerei cioè dei lancieri, dal germanico ‘ger’ lancia, come dimostrato nel saggio di cui sopra. Questa tribù, dall’evidente nome germanico, citata nell’Antico Testamento, è quella che darà il nome di Gerusalemme (ger-usa-lemm) alla città conquistata da Davide che prima si chiamava Gebusch ovvero cespuglio, boscaglia in tedesco. In Palestina in particolare, rispetto al resto della civiltà araba, la popolazione faceva uso di un lessico, come dimostrato nel nostro saggio, facilmente riconducibile alla lingua germanica, traducibile tenendo conto della funzione sociale svolta dagli individui o per le caratteristiche in loro più evidenti: l’appellativo battista, per esempio, apposto al noto profeta biblico, deriva dal germanico ‘bad’ bagno, con il significato di colui che immerge; Salomone da sal, sale, e mn, mente e infatti il re era noto per i giudizi che, quale giudice saggio, elargiva ai sudditi che si rivolgevano a lui per dirimere le loro controversie; si potrebbe continuare a lungo con gli esempi. Ancora, l’Arabia, fino all’avvento di Maometto era politeista. Quando i Musulmani conquistano l’isola di Rodi nel 650, vi trovano ancora intatta la statua di Apollo e il suo culto, statua che viene distrutta proprio in quella occasione. L’Amari, mette in evidenza che le prime incursioni arabe in Sicilia, arrivavano dal nord Africa in cui erano ancora evidenti i segni etnici e culturali delle genti germaniche che recentemente, sotto il nome di Visigoti, ma che gli Arabi chiamavano Franchi, l’avevano invasa. Si evince, dunque, dalle poche citazioni sopra riportate, che la presenza di popolazioni nord europee era continua ed espansa in Medio Oriente fin da epoche antichissime. Ci perdonino i lettori la tediosa digressione, ma essa è servita per rendere comprensibile quanto affermato dal più autorevole storico siciliano che studiò il periodo musulmano in Sicilia, Michele Amari. Lo storico afferma che nel VII secolo, quando gli Arabi iniziano la loro espansione verso l’ occidente, la penisola arabica era divisa in due “schiatte” parlanti due lingue: “l’una delle quali analoga all’arabo e l’altra no”. Lo storico, che per accedere direttamente alle fonti originali imparò la lingua araba, descrive poi la società beduina le cui norme sono sovrapponibili a quelle in vigore tra i clan del nord Europa che abbiamo imparato a conoscere a partire da Cesare e ancor più in epoca vichinga. Alla luce delle righe tracciate fin qui, crediamo non apparire peregrina la tesi secondo la quale alcuni vocaboli europei, kalat sarebbe uno di questi, possano essere transitati nel lessico arabo per ritornare, leggermente modificati.
I millenni trascorsi hanno sovrapposto dei veli ai profondi significati nascosti del nome del dio Adrano che, come argomentato in precedenti studi, riteniamo identificabile con L’avo dei prischi Sicani in generale e degli Adraniti in particolare. Lo studio appassionato della storia avita, se unito all’ardore che collega i discendenti agli antenati, consente tuttavia di eliminare uno ad uno questi veli.
Il culto riservato agli Avi dai nostri antichi progenitori sopravvive ancora nel rito celebrato a Novembre. Fino alla precedente generazione esso si trasmetteva immutato nel suo profondo valore religioso. I nostri progenitori, esattamente come i Latini di due o tre millenni fa, accendevano delle lucerne sotto i ritratti degli avi, che erano perennemente collocati in un luogo vicino al focolare domestico, il davanzale del camino per i più abbienti: il fuoco fisico alimentava idealmente l’ardore che univa gli Avi agli eredi. Il legame tra gli uni e gli altri trapela dal concetto, espresso da Plutarco nella Vita di Camillo, di moto generazionale contenuto nel vocabolo gentes. L’etimo del termine, la cui pronuncia originaria era caratterizzata dal suono gutturale della consonante “g”, riconduce infatti al verbo gehend, di derivazione protogermanica, lingua comune a latini e Sicani della prima ora, col significato di andante. Sulla derivazione protogermanica della lingua sicana non diremo altro, avendo riservato all’argomento approfonditi studi nelle nostre pubblicazioni. Anche il lessema gene è riconducibile al verbo gehend, infatti il gene “va”, si trasmette cioè dall’avo all’erede, facendo rivivere in qualche modo l’Avo attraverso il discendente, non solo relativamente alla trasmissione degli aspetti somatici ma anche tramite il passaggio di quelli spirituali, conferendo in tal modo l’immortalità agli antenati. Non a caso il Romano definì il primogenito “figlio del dovere”, in quanto con tale concepimento il padre assolveva il suo compito nei confronti degli Avi, garantendo loro la sopravvivenza, il “cammino”; qualora poi non avesse potuto procreare avrebbe fatto ricorso, con divina intuizione, al sacro istituto dell’adozione, considerato come un innesto che, una volta attecchito, si sarebbe fuso con il corpo della pianta, rendendo impossibile distinguere la marza dal porta innesto.
Ma il grande miracolo, per noi uomini moderni, è che a distanza, forse, di sei mila anni, il lessema, riscontrabile anche nell’antico alto tedesco, anu/o, contenuto nel nome dell’Avo divinizzato, dell’avo primigenio (Adrano, Giano, Inanna, Nannar, Etana … ), continua a vivere nel vocabolo nonno (ahn in tedesco moderno), rappresentante per antonomasia dell’istituto più sacro che la società umana abbia mai spontaneamente concepito, la famiglia, la quale ha mantenuto il suo ruolo fino alla nostra era infausta, che sta per dare vita ad un nuovo ciclo cosmico, quello dell’acquario, che diluirà ogni sacra istituzione, facendo della stessa famiglia un ibrido, un mostro a due teste, con due padri o due madri. Nei giorni dedicati ai defunti, la cui festività cade nei primi giorni di Novembre, la tradizione voleva che si andasse al cimitero per fare visita ai nonni defunti. Questo periodo era inteso, in Sicilia così come in Scandinavia e nel mondo germanico, come il momento favorevole per creare un contatto con l’aldilà, per aprire una porta, un varco, uno stargate capace di collegare il mondo col sovra-mondo, il discendente con l’anu, il nonno per eccellenza, l’avo primigenio che, essendo in contatto con le forze del sovramondo, poteva intercedere a favore dei discendenti.
Il lessema Odhr – che, unito ad ano, dà vita al nome del dio Adrano– era un attributo riferito all’avo stesso, definito “furioso”. Del resto un sacro furore, probabilmente a motivo delle leggi di ereditarietà, caratterizzò sempre gli Adraniti, già a partire da quel lontano 480 a. C., in cui essi, a fianco di Gelone, nella battaglia di Himera, con il loro coraggio ebbero un effetto propulsore nei confronti degli scoraggiati alleati greci, cambiando le sorti della battaglia; oppure quando, sostenendo il condottiero corinzio Timoleonte, cacciarono i tiranni greci dall’isola; ed in fine quando, purtroppo, alimentarono con un furore non più sacro il fenomeno del banditismo del dopoguerra, che vide negli Adraniti i più numerosi e carismatici aderenti.
L’eredità della lingua sicana, a sua volta riconducibile ad una primigenia lingua nord-europea o protogermanica, diffusasi successivamente, con le migrazioni, sino in area mesopotamica, sopravvive tutt’oggi, a motivo dell’utilizzo rituale e dunque immutato di tale lingua nel prestigioso tempio del dio Adrano, fino al 213 a.C. (data in cui il tempio viene chiuso dai romani al pubblico culto). Il lessema e il concetto di ninna nanna riportano infatti molto indietro nel tempo: con questa cantilena si invitava il neonato ad “entrare” nel mondo “dei nonni”, dal quale proveniva. Inna Ana è infatti traducibile in a.a.t. letteralmente con “dentro” – così da indicare una fase di compenetrazione del neonato nel mondo ultra fisico – e “Antenato”. Non è un caso se tra i Sumeri ritroviamo la dea Innanna, garante tra l’altro della fecondità, considerata, come il suo nome stesso indica, la custode dei valori ancestrali degli Avi, come la latina Vesta, detentrice del sacro fuoco che alimenta la stirpe, la “gentes”, gli Avi. La ninna nanna, νάνι νάνι in greco, Nani Nani in rumeno, aveva dunque alle origini lo scopo di indirizzare e condurre a buon fine il viaggio onirico del neonato, di farlo entrare in contatto con quel mondo, evocando l’ano.
Si noti che tale pratica è oggi riscoperta, per i suoi effetti terapeutici, anche in medicina. Si suggerisce infatti ai parenti di un individuo che riversa in stato di coma permanente di parlare col malato, evocando ricordi piacevoli della sua vita, provocando in tal modo il rientro dello spirito nel corpo. Una pratica simile è descritta nel Libro egiziano dei morti, scritto un paio di millenni prima della nostra era, in cui si suggeriva al parente prossimo del defunto di parlargli all’orecchio, onde guidarlo nel cammino dell’aldilà. Non è neanche un caso che il dio della luna sumero – e si noti che la luna è collegata all’attività onirica – si chiamava Nannar. A proposito di luna e di astri, ci piace far notare inoltre che gli Adhranhiti, cioè i sacerdoti del dio Adhrano, come i sacerdoti sumeri, gli Annunaki, non dovevano essere a digiuno delle scienze astronomiche. Lo testimonierebbe la numerosa simbologia ritrovata nel territorio di Adrano, incisa su manufatti come capitelli, arenaria e ceramiche.
Sono infatti numerose le incisioni che raffigurano stelle e soli a raggi nei pesetti da telaio; la croce potenziata è raffigurata in uno splendido phytos del III millennio a.C.; ancora una croce, sullo stile di quello utilizzato dai cavalieri di Malta, su un piatto del III millennio a. C.; il carro del sole e la spirale che rappresenta la forma delle galassie, sono incisi negli splendidi capitelli di duro basalto ritrovati nel sito del Mendolito posti su colonne ottagonali; in ultimo, la doppia spirale raffigurata in un’ansa del VII millennio a. C. che, con la sua forma ad otto riconduce alla legge dell’ottava e ripropone il concetto di infinito, indicando pure, con questo simbolismo universale, il respiro del mondo che identificava Adrano, sede dell’Avo, con il polmone dell’universo.
“Si sappia che i Greci scrissero
le loro pagine di storia sulla materia
innalzando rotonde colonne di pietra,
i Sicani le scrissero sull’imperituro
spirito della propria stirpe”.
In questo articolo intendiamo approfondire quanto di non detto emerge dai racconti degli storici, loro malgrado. Primo tra tutti, esamineremo il trattato dello storico ateniese Tucidide. Perché lui? Perché il Nostro venne palesemente accusato da Dionigi di Alicarnasso di aver raccontato una storia che andava taciuta e che, implicitamente, Dionigi riconosceva, dunque, come veritiera per quanto scomoda, motivo per cui la utilizzeremo come fonte tra le più attendibili per il nostro scopo. Ma, è chiaro che bisogna saper leggere tra le pieghe del racconto dello storico ateniese il quale, avendo messo per iscritto la sua storia mentre era ancora in corso il conflitto, alcuni fatti accaduti sia nel campo militare, sia in quello politico, poiché avrebbero potuto compromettere la sua incolumità e quella di altri, vennero dal Nostro criptati.
Il rancore che Dionigi nutriva nei confronti dell’ateniese, era motivato dall’eccesso di amor patrio. Lo storico di Alicarnasso vedeva emergere attraverso il racconto di Tucidide, una Grecia piena di contraddizioni e di tratti poco nobili, i quali offuscavano la gloria dei Greci, alla cui crescita avevano contribuito i dialoghi platonici e la coerenza del pensiero socratico fino al sacrificio personale del secondo. Nella storia raccontata da Tucidide, gli eroi, che fino a quel momento avevano impersonato tutti i tratti dell’ideale greco: bellezza, eloquenza, fierezza rinvenibile nella gioventù di cui Alcibiade era l’esempio mitizzato, cadevano miseramente col racconto dell’ateniese in cui Alcibiade si trasformava nel traditore della patria e le città in preda ad un delirio egemonico rivelavano un cinismo (vedi il dialogo intercorso tra gli ambasciatori Ateniesi e i senatori dell’isola di Melo) che vanificava ogni insegnamento socratico. Quella del Peloponneso fu, dunque, una guerra che, oltre ad aver coinvolto il mondo allora conosciuto, poteva definirsi un conflitto fratricida, combattuto tra Greci; non solo emergevano in quel conflitto gli aspetti peggiori di una società che al tempo di Dionigi aveva fondato il proprio prestigio sugli aspetti più nobili dell’essere; ma minava la stessa posizione della Grecia quale ombelico del mondo. In una Grecia così concepita, un greco, racchiuso nel proprio grecocentrismo, mai avrebbe riconosciuto alcun contributo culturale che gli fosse derivato da un popolo barbaro. Infatti, per quanto si affermi comunemente che i Greci siano gli iniziatori del pensiero occidentale, gli orientalisti sostengono invece che la loro filosofia sarebbe un derivato dell’Oriente. Sorvolando sulla constatazione che le condizioni più propizie si generarono nelle colonie greche dell’Asia minore, dal nostro punto di vista, non possiamo ritenere irrilevanti i continui viaggi di Apollonio di Tiana nell’India, contemporaneo di Gesù, che come questi praticava miracoli, oppure le teorie di Pitagora sulla metempsicosi così vicine a quelle induiste. Erodoto, distante dalle posizioni prese successivamente da Dionigi, riconosceva, in ambito teologico, che i Greci avevano mutuato dagli Egizi l’uso di dare nomi alle divinità.
Ma torniamo ai fatti storici. Le informazioni che giungono da Tucidide, saranno per noi preziose in quanto convalidano le nostre prime intuizioni che, fin dall’inizio, si sono focalizzate sulla ricostruzione storica dei nostri prischi antenati, i quali apposero il primevo nome di Sicania e quello contemporaneo di Trinacria, all’isola ereditata dall’avo Adrano, capo della stirpe.
La Verità Sulle Fondazioni Greche In Sicilia.
È lo stesso storico ateniese a metterci in guardia sulle falsità storiche canonizzate come verità assolute al suo tempo, affermando che: “ Né gli ateniesi né altri dicono qualcosa di esatto a proposito dei loro tiranni e degli avvenimenti passati”. Ad una affermazione così icastica nei confronti degli storici, fatta da un autorevole storico, fa eco colui il quale, come suo unico obiettivo ebbe la ricerca della verità su tutti i piani dello scibile umano, il filosofo Platone. Questi, nel “Minosse” con riferimento proprio al re cretese, di cui esisteva una versione che ne faceva un despota odioso ai Greci, sosteneva una versione opposta che lo voleva giudice buono e saggio nell’aldilà. Guai a colui che risulta inviso ai poeti; quest’ultimi possiedono, infatti, il potere di condannare ad una pessima sorte anche i re, sosteneva appunto Platone. Per concludere, come già affermato sopra, ma vale la pena di tornarci, Dionigi di Alicarnasso rimproverava Tucidide che si era sottratto alla regola del silenzio e affermava che gli storici greci non dovevano raccontare ciò che non tornava a beneficio della reputazione greca. L’atteggiamento omertoso della maggioranza degli storici greci, rimase sempre in vigore, tanto che perfino Diodoro di Agira, un Siciliano, che sicuramente non ignorava la cultura dei prischi Sicani ancora viva al suo tempo, compilando un enorme trattato che interessava la storia dei popoli della terra tra i quali gli Iperborei, rimase assai vago su ogni cosa che in Sicilia non avesse un’impronta greca; perfino sulla natura della massima divinità sicana, Adrano, non oserà soffermarsi quando il greco Timoleonte ne invocherà la protezione sacrificando al suo altare.
Senza il racconto di Tucidide avremmo dunque facilmente creduto che i Greci avessero fondato decine di città in un’isola, la Sicilia, che avrebbero trovata semideserta.
Le Fondazioni In Sicilia.
Nel libro VI di Tucidide si evince tutt’altra conclusione. I reperti archeologici ritrovati nelle pseudo fondazioni greche, inoltre, convalidano la tesi che esporremo più giù, in quanto la loro cospicua presenza dimostra una fitta e ininterrotta antropizzazione dell’isola fin dalla preistoria. Là dove sono assenti i reperti archeologici pre greci o dove scarsa fu l’indagine archeologica, tornano comunque sufficienti le fonti storiche, che da sole provano la pre esistenza di città o villaggi Siculi nei luoghi di insediamento greco. Porteremo a prova di quanto sostenuto fin qui, ciò che viene affermato esplicitamente da Tucidide, in particolare nel libro VI della sua opera, al quale è possibile integrare le versioni di Strabone e Diodoro per avere una visione più esatta degli eventi.
Fondazione O Rifondazione?
Inizieremo questo capitolo portando l’esempio di come sia avvenuta la fondazione di Siracusa, le cui modalità possono essere applicate alla maggior parte delle fondazioni greche. Tucidide, inizia il sesto libro della sua ponderosa storia affermando esplicitamente che i Greci si insediarono in un quartiere di Siracusa chiamato l’isola, ove i reperti archeologici testimoniano la ininterrotta presenza umana fin dalla preistoria, dopo aver respinto i Siculi che vi abitavano. Esaminando i fatti successivi, constateremo tuttavia che i Siculi espulsi da quel quartiere altamente strategico, di cui Cicerone nelle verrine afferma che un pugno d’uomini avrebbero potuto difenderlo contro un esercito, non solo rimasero a Siracusa, ma ne condizionano sempre la politica. I Siculi, dunque, privati della supremazia politica rimasero all’opposizione, ma continuarono ad essere così influenti da far si che la loro cultura non fosse minimamente scalfita dai tentativi di sovrapposizione culturale greca se, ancora al tempo di Cicerone, questi può fare riferimento alle divinità sicule presenti a Siracusa, oggetto di pellegrinaggio da parte dei Siculi provenienti da tutta la Sicilia.
È tanto vero che i Siculi rimasero a Siracusa che essi vennero appellati alcuni Gamoroi, altri Kiliroi. Secondo la nostra ricostruzione storica la cui comprensione non può prescindere dal significato attribuito alla terminologia sicula, funzionale ad esprimere concetti altrimenti incomprensibili ed indicativi del ruolo sociale svolto da determinate categorie, (vedi l’articolo: “Jam akaram, la lingua dei Siculi” e “I Cilliri del Simeto), i Gamoroi erano quegli aristocratici moderati che si erano allineati alla politica del futuro tiranno Archia. Costui diverrà il primo tiranno della storia di Sicilia proprio perché dopo il suo volta faccia ostacolerà con la forza l’opposizione democratica sicula. È plausibile che alcuni aristocratici Gamoroi avranno fatto parte delle istituzioni siracusane del III sec. a. C. Tra questi riteniamo farvi parte Adranodoro, genero del successivo tiranno Gerone II e il cavaliere Soside suo contemporaneo, colui che aprirà le porte della polis ai Romani e probabile discendente di quel Soside che, con i democratici suoi colleghi e concittadini, due secoli prima della caduta di Siracusa in mano romana, nel 405 a. C. aveva assediato nella sua reggia il neo tiranno Dionigi il vecchio, per poi fuggire in Medio Oriente quale mercenario al servizio di Ciro dopo che il tiranno siracusano ebbe ripreso il controllo sulla città. L’altra categoria sociale sicula, che dovette giocare un ruolo di primo piano in chiave anti tirannica, e che, successivamente dovette trasformarsi in una temibile opposizione politica, fu quella dei Kiliroi, ovvero dei portuali. La ribellione di costoro dovette verosimilmente innestarsi per ragioni economiche, in quanto questi portuali vedevano pian piano vedersi sfuggire di mano il controllo marittimo a vantaggio dei nuovi arrivati greci. La ricostruzione fin qui esposta, che vede in Siracusa una città già politicamente, militarmente ed economicamente importante fin dall’arrivo dei Greci, diventa plausibile se ci si sofferma su una anomalia, incomprensibile se vista dal punto di vista dell’orgoglio greco: Archia, passato alla storia quale ecista di Siracusa, sarebbe un ecista sui generis poiché utilizzerebbe un toponimo barbarico per nominare la propria fondazione, “Sicher usa” (vedi l’articolo : “I Feaci e la rifondazione di Sicher usa”). L’apposizione di un toponimo non greco, rientrerebbe invece nella normalità se esso fosse stato apposto fin dalle sue origini sicane e Archia, dopo essere stato accolto nella reggia di Iblone quale esule, come abbiamo ricostruito attraverso l’articolo “I Feaci e la rifondazione di sicher-usa”, avesse brigato per accedere al potere, che successivamente avrebbe trasformato in tirannide, proprio per far meglio fronte all’opposizione sicula che non digeriva l’inganno subito.
Appare evidente che per la Siracusa appena fondata, tutta protesa a consolidare il potere politico e militare al suo interno, se è vero che al termine di tiranno dobbiamo dare il significato di una presa del potere con la forza, dunque privo dell’unanime consenso cittadino, sarebbe stato impossibile potersi dedicare subito alla fondazione di altre importanti città: settant’anni dopo verrebbe, infatti, fondata dai Siracusani l’importante città di Acre; appena vent’anni dopo la fondazione di Acre verrebbe fondata Casmene e ancora appena cinquant’anni dopo questa Camarina – si pensi che Salomone per costruire il famoso tempio impiegò sette anni e una forza lavoro di trentacinque mila lavoratori -. Ma la contraddizione maggiore che non regge la tesi della fondazione di colonie da parte di Siracusa, si mette in evidenza quando si constata che i Siracusani saranno, quasi fin da subito, in perenne conflitto con le proprie colonie ove vi sarebbero dovuti essere, quali cittadini e inseriti nei gangli delle istituzioni, i propri figli e nipoti. Per comprendere chiaramente cosa i Greci intendevano per fondazione, basta citare Tucidide che affermava che Casmene era stata fondata per ben tre volte, due delle quali, la prima e l’ultima ad opera dei Siracusani, oppure Diodoro che, parlando di Jerone, lo ritiene fondatore di Catania soltanto perché il tiranno, una volta che riuscì a conquistarla ne deportò gli abitanti e le cambiò il nome in Etna.
Anche nel caso della fondazione di Naxos, identificata come prima colonia greca in Sicilia, i conti non tornano. Il perimetro delle mura cittadine racchiude, nel momento di massima espansione, un’area che non superò i trenta ettari, con una popolazione al suo interno stimata a non più di quindicimila individui di cui, quelli abili alle armi e ai lavori pesanti (come sopra affermato, Salomone per la costruzione del suo tempio dovette utilizzare trentacinque mila operai sfruttando un lungo periodo di pace intercorsa con i nemici esterni), non avrebbero dovuto superare le tremila unità; ebbene, gli storici greci accordano a Naxos due successive fondazioni realizzate in tempi olimpionici: i Nassi, appena sei anni dopo lo sbarco in Sicilia avvenuto nel 753 a. C., costruita “dal nulla” la propria città, sarebbero stati nelle condizioni di fondare Catania e Lentini. Ma ciò che tradisce l’equivoco delle fondazioni attribuite ai Greci, consiste, come già sopra detto, nella anomalia della toponomastica. Pochissime città attribuite a fondazione greca conservano nomi greci. Appare altresì anomalo che fra l’etnos greco siracusano si noti la presenza di una onomastica sicana che riguarda persone facenti parte degli organi decisionali della Polis: uno dei tre strateghi a cui è affidato il comando dell’esercito siracusano e dei suoi alleati, durante la guerra del Peloponneso, si chiama Sicano, a lui coevo ritroviamo quale tutore del giovane tiranno Geronimo, Adranodoro; Soside sarà colui che, oppositore democratico della tirannide, aprirà nottetempo le porte agli assedianti romani. Ma è ancora Tucidide a fornire le prove che all’interno della Polis più potente del Mediterraneo vi erano due forze politiche che, se non si equlibravano politicamente, di certo si contrastano a volte anche militarmente: quella dei Siculi da un lato, dei Greci dall’altro. Infatti lo storico ateniese afferma che alla fondazione di Imera avevano contribuito dei Siracusani (Gamoroi e Kiliroi ?) fuoriusciti a motivo di guerre interne. Tucidide contribuisce a consolidare le nostre tesi allorquando, nel libro VII della sua storia afferma che: “Anche a Siracusa vi era una fazione che voleva consegnare la città agli Ateniesi; gli aveva mandato messaggi (a Nicia) e non lo lasciava partire (per Atene)”.
Tucidide, come abbiamo visto, semina qua e là porzioni di verità che, se messe assieme, fanno emergere non solo che la presenza sicula nella polis era stata continua a partire dalla pseudo fondazione effettuata da Archia, ma emergono gli aspetti politici democratici della posizione sicula. Infatti, tutte le città sicule libere, durante la guerra del Peloponneso appoggiano militarmente gli Ateniesi contro Siracusa.
Lo storico ateniese getta ancora luce sulla verità storica della Sicilia quando mette in bocca al più prestigioso tra i generali greci siracusani, Ermocrate, le seguenti parole: “Poche sono state le spedizioni dei Greci e dei barbari (in Sicilia) che abbiano avuto successo”. Probabilmente Tucidide ripercorrendo con la mente la storia della Sicilia che vedeva vanificare il tentativo di Minosse di assoggettare la Sicilia, mentre lo stesso era riuscito invece ad assoggettare non solo Atene, ma tutta l’Attica, intendeva alludere proprio al fatto che ben poche erano le reali fondazioni di città effettuate dai coloni greci. Per comprendere le difficoltà in cui si incorre nel fondare una città, basta infatti scorrere le lunghe pagine in cui Tucidide ripercorre il discorso rivolto da Nicia agli Ateniesi i quali, suo malgrado, gli intimano di apparecchiare quanto necessario per la spedizione. Lo stratega tenta, inutilmente, di sottrarsi all’impresa, proprio facendo riferimento alle difficoltà in cui si incorre nel tentativo di fondare con la forza, una città in terra straniera.
Lo storico, il ricercatore, lo studioso operano su dimensioni atemporali, portano alla luce ciò che è sepolto, nascosto, celato. A loro è affidato un compito che non tiene conto delle contingenze sociali favorevoli o sfavorevoli; essi vengono dal passato, ne raccolgono le reliquie e le propongono a quanti sono loro simili. A questi ultimi è diretto ogni loro sforzo.
TRINACRIA E SICANIA.
Il nome di Trinacria riferito alla Sicilia, se dovessimo dare credito alle informazioni che Tucidide ottenne, probabilmente da storici isolani, fu anteriore a quello di Sicania. Tuttavia, i Sicani si consideravano autoctoni, continua lo storico ateniese, e noi siamo propensi a crederlo a motivo del significato dell’etimo sicano che, utilizzando il metodo interpretativo ormai conosciuto dai nostri lettori, significa gli eredi dell’Avo, cioè Adrano. Di conseguenza, essendo il dio Adrano la divinità nazionale, non potrebbe essere apparsa che con l’apparire dei primi abitatori della Sicilia, appunto i Sicani. Considerando che il toponimo Trinacria è pre ellenico, la conseguenza delle affermazioni su esposte, condurrebbe alla deduzione secondo la quale entrambi i toponimi furono coniati dai Sicani per dare allo stesso territorio due significati diversi: uno d’ordine politico geografico, l’altro religioso. Con il toponimo Sicania, a nostro avviso, si intendeva far passare il monito che, quella che ora chiamiamo Sicilia, era un territorio di cui i Sicani erano legittimi proprietari per diritto di ereditarietà, mentre con il toponimo di Trinacria, si voleva verosimilmente specificare che quel territorio, a forma di triangolo, racchiudeva potenti forze, lì deposte direttamente dalla divinità, come diremo più sotto.
Ma per penetrare meglio il significato del toponimo Trinacria, dobbiamo ripercorrere un po’ di storia ricorrendo alla narrazione dello storico siciliano Diodoro di Agira, riportando lo stralcio di un nostro precedente articolo.
“La città di Trinacria”, scrivemmo allora, “ nel racconto dello storico agirese Diodoro, sorge e sparisce in un batter d’occhio, dopo aver compiuto imprese titaniche; ciò induce a pensare che Diodoro, di etnia e cultura greca, avesse mal compreso il valore simbolico e semantico racchiuso nel toponimo sicano di Trinacria, con il quale non veniva indicata una città ma piuttosto una lega, dal carattere sacro, stipulata da tre città o territori o anfizioni, che si configuravano come centri di forza, potenze spirituali, come fa pensare anche il nesso consonantico “kr”, contenuto nel nome Trinacria, che in antico germanico significa “forza, potenza”, punto di rottura.
Tale lega, d’ordine religioso-militare, nata al fine di osteggiare l’avanza anti tradizionale dei Greci, fu stipulata, a nostro motivato parere, dalle tre città siculo-sicane detentrici della tradizione degli antenati. I territori delle tre città avrebbero dovuto riprodurre in terra sicula la triade divina Adrano-Etna-Palici ossia padre-madre-figli. Il nome Trinakria, ripreso dai tre principi-sacerdoti addetti al culto della famiglia divina, dovette indicare perciò, nel periodo storico in cui Diodoro Siculo colloca il suo racconto, cioè il V sec. a.C., non una città, nominata peraltro soltanto dallo storico agirese, ma piuttosto una porzione di territorio consacrato alla causa anti greca e compreso all’interno dell’area triangolare delimitata dalla perduta città di Erbita\Erbesso (sita tra Enna ed Agira e vicina all’attuale città di Assoro, forse in prossimità di Leonforte), Adrano e Palikè”. Avanziamo l’ipotesi che, a nostro modo di vedere, nel toponimo Trinacria si nasconda in realtà, la volontà di mettere in atto una pratica magico religiosa I cui effetti scaturiscono dalla potenza racchiusa proprio nel significato del toponimo.
SIGNIFICATO DEL TOPONIMO.
Il toponimo Trinacria, infatti, potrebbe fare riferimento ad una città ideale, invisibile, depositaria e custode di forze extrafisiche, la città di Dio o dell’Avo divinizzato (An). Pertanto, se abbiamo visto giusto, il toponimo sarebbe composto dall’unione dei lessemi “TRI”, tre, “AN” con il significato di Dio e “KR” con il significato di forza applicata in un punto fino alla rottura (da cui l’onomatopeico crak, crepa). La traduzione del nome Trinacria da noi proposta, liberamente traducibile con “Le tre potenze di Dio” o dell’ Avo, trae spunto anche dalla constatazione della fervida religiosità con cui si esprimeva il popolo sicano guidato dal principe sacerdote Ducezio, affiancato da un altro Titano della storia isolana, il principe sacerdote Arconide (vedi articoli: Gli dèi Palici e le sacre sponde del Simeto, e, Alesa, da Vercingetorige ad Arconide), citato da Diodoro e celebrato anche dallo storico Tucidide. Il ricorso a pratiche di ordine magico religioso a cui abbiamo fatto cenno, faceva parte della consuetudine nel periodo da noi preso in esame non soltanto in Sicilia, ma tutte le civiltà vi facevano ricorso. Ci si ricordi della “Evocazio” messa in atto dal generale romano Camillo affinché la dea Giunone abbandonasse la protezione che aveva accordata alla città etrusca di Veio, per rivolgere il suo favore al popolo romano che l’assediava senza alcun risultato da dieci anni. Ma se Giunone cedette alle lusinghe romane, la città dell’Avo, Trinacria, fu intransigente con il senso del dovere nei confronti delle ataviche tradizioni e preferì immolarsi al nuovo corso degli eventi.
“In quel tempo (Timoleonte) se
la passava tra gli Adraniti in garanzia
del Nume (Adrano)”.
Plutarco, Vita di Timoleonte.
Fa spece constatare che a interessarsi di un evento storico così importante, quale è stato quello che vide una guerra di liberazione delle città sicule, dalle tirannidi da cui erano vessate, sia stato un greco d’oltremare, Plutarco, piuttosto che un greco di Sicilia. Diodoro, storico che ebbe i suoi natali ad Agira, città della provincia di Enna, nella sua corposa Biblioteca Historica dedica pagine e pagine alle mitiche storielle dell’Asia, alla regina Semiramide, alle Amazzoni e al mito di Eracle, e sorvola, quasi, su episodi decisamente significativi per la storia isolana quali furono I fatti riconducibile al 344 a. C., eventi che videro protagoniste prestigiose città della Sicilia. Tocca dunque a noi, seppur distanti millenni dai fatti storici di cui tratteremo, leggendo tra le righe del racconto plutarcheo, il compito di tentar di fare chiarezza su ciò che è stato omesso o non sufficientemente chiarito, intorno ai fatti salienti di quel momento decisivo della politica isolana. Nel corso della tentata ricostruzione che faremo dei fatti e dei luoghi citati da Plutarco, vanno considerati tre aspetti fondamentali: lo storico greco non conosceva il luogo ove si svolsero i fatti da lui raccontati; mise per iscritto i fatti da lui raccontati quattro secoli dopo che questi si erano svolti; gli premeva mettere in evidenza più le gesta dell’eroe suo connazionale che le vicende siciliane.
Timoleonte a Taormina.
La componente sicula dei killiroi (Cilliri) e dei Gamoroi – vedi l’articolo – che non era scomparsa dopo il colpo di stato perpetrato da Archia, ospite del magnanimo principe siculo Iblone nel 723 a. C., ma era stata relegata all’opposizione politica dopo la presa del potere di Archia, approfittando del momento politico favorevole, chiese alla città di Corinto, città che come altre poleis greche aborriva l’odioso istituto della tirannide, di inviare un contingente di uomini in soccorso dei democratici di Siracusa che si opponevano all’inviso Dionigi il giovane il quale, seppur migliore del padre e in odor di filosofia, rappresentava pur sempre, l’emblema della tirannide. Il senato corinzio si trovava da anni in un grande imbarazzo poiché, come racconta Plutarco, il rampollo di una delle famiglia più in vista della città, se da un lato aveva salvato Corinto dall’istituto della tirannide, contribuendo ad eliminare il responsabile del tentativo di instaurarlo, dall’altro era incorso nel delitto familiare, essendo l’aspirante tiranno proprio il fratello. L’ambasciata siciliana arrivava dunque quanto mai opportuna; nessun uomo meglio di Timoleonte poteva essere garante della democrazia e, inviandolo in Sicilia, Corinto si sarebbe liberata di un peso. Giunto in Sicilia, la prima città che accolse il condottiero corinzio fu la sicula Taormina governata da Andromaco, considerato il primus inter pares secondo le democratiche istituzioni sicule.
Alla volta della sacra città di Adrano.
Timoleonte però, per essere dichiarato la guida di una coalizione di città, aveva bisogno dell’investitura ufficiale di ‘Dictator‘. Questa investitura, che doveva avvenire attraverso il rito della consacrazione, (vedi l’articolo “Gli dèi Palici e le sacre sponde del Simeto. Ducezio principe e sacerdote) poteva avere valore soltanto se sancita nella città “sacra”, come la definisce Plutarco, di Adrano e poteva essere conferita al Duce soltanto dal pontefice massimo responsabile del culto tributato al capo della stirpe dei siciliani, Adrano, ovvero l’avo primordiale. Purtroppo vi era un piccolo problema: la città di Adrano, in quel momento era sotto l’influenza politica di Siracusa la quale, nell’acropoli, aveva installato una propria guarnigione militare. Tuttavia il contingente siracusano formato da molti mercenari campani pronti a vendersi al migliore offerente, fu facilmente debellato e Timoleonte poté entrare in città sotto i migliori auspici. Il primo atto del condottiero, una volta accolto nella città sacra, fu quello di rendere onore al dio Adrano che, secondo l’interpretazione degli auguri adraniti e della stessa convinzione del corinzio, lo aveva aiutato durante lo scontro col nemico svoltosi presso le mura della città di Adrano.
Il tempio del dio Adrano o l’ara degli dei Palici?
A questo dilemma ci sottopone il racconto plutarcheo circa il luogo dove sia avvenuta l’investitura del condottiero. Il motivo per cui ci soffermiamo su un particolare che ad una superficiale analisi potrebbe essere considerato irrilevante, è dovuto al fatto che, chiarendo questo episodio, si potranno meglio comprendere la concezione del sacro, le istituzioni politiche e l’etnia di appartenenza della prisca stirpe dei Sicani, primi abitatori dell’isola. Naturalmente, soltanto ad un ricercatore che abita e conosce le nostre contrade può essere concesso di cogliere le piccole incongruenze del racconto plutarcheo, che, se da un lato nulla tolgono e nulla aggiungono alla bontà del racconto, dall’altro lasciano, se chiarite, meglio interpretare, come sopra affermato, gli aspetti del sacro che caratterizzarono il vetusto territorio adranita. Siamo certi che nella parte del racconto in cui si fa riferimento all’investitura militare e alla consacrazione di Timoleonte, lo storico abbia fuso in uno due episodi svoltisi in luoghi e tempi diversi. Probabilmente i due diversi riti celebrati per imprimere i crismi della sacralità e, dunque, di una guerra santa condotta dal “Dux” consacrato, si svolsero in due aree sacre diverse: una si trovava dentro le mura, ed era quella ove insisteva il tempio del dio Adrano, l’altra si trovava fuori le mura presso il fiume Simeto, ove insisteva l’ara degli dèi Palici. Nella prima, a nostro avviso, si svolse la consacrazione del guerriero che diventava il braccio armato del capo della stirpe sicula, nella seconda avveniva l’investitura politica e il riconoscimento di Dux da parte dei rappresentanti delle città che partecipavano alla missione di liberazione dalle tiranidi.
L’ara degli dei Palici
Siamo giunti a queste conclusioni sulla base dei precedenti studi, pubblicati su diversi siti che si occupano della materia e su saggi gratuitamente fruibili, studi che ci hanno indotto a ritenere nord europee le origini del popolo sicano. Tali origini, come spiegheremo sotto, risulteranno congrue con le prassi tradizionali sicule che emergono dal racconto dello storico di Cheronea nella “Vita di Timoleonte“. Descrivendo fin nei particolari l’attentato che il Duce avrebbe dovuto subire durante la sua investitura, ad opera di due prezzolati sicari venuti da Lentini, per fortuna sventato da un terzo Lentinese, lo storico di Cheronea afferma che quest’ultimo, dopo aver calato un fendente sul capo dell’ attentatore, salvando involontariamente la vita a Timoleonte, salì su un’alta rupe che era li vicino e si strinse all’ara, (l’ara era dunque all’aperto) chiedendo la protezione degli dèi e di poter raccontare il motivo della sua azione.
Non solo risulta difficile immaginare un’alta rupe accanto al tempio del dio Adrano, edificio che doveva essere stato edificato in un ampio spazio e che la tradizione orale vuole trovarsi nel luogo ove attualmente sorge la Chiesa Madre, anzi, le dodici colonne della navata, secondo la stessa tradizione, sarebbero ciò che resta dell’antico tempio (vedi l’articolo: “Dove è finito il tempio dell’Avo Adrano?), ma chi ha visitato l’ara degli dèi Palici, formata da un grande masso di arenaria che si trova sul greto del fiume Simeto, non ha difficoltà ad immaginare la scena raccontata da Plutarco svolgersi proprio in quel luogo.
A quanto fin qui sostenuto, si aggiunga il particolare, non poco trascurabile, in cui lo storico afferma che l’uccisore del sicario si strinse all’altare e da questo inviolabile luogo invocava l’immunità. Questo particolare ci riporta a quanto afferma Diodoro nella sua Biblioteca Historica. Nel capitolo in cui lo storico di Agira descrive il rito e l’architettura del tempio dei Palici di Palagonia, emerge che presso il tempio degli dèi Palici trovavano rifugio i servi che fuggivano dai padroni e i malfattori che cercavano l’immunità. Plutarco continua il racconto della vita di Timoleonte affermando che, alcuni astanti sosteneva che era vero quanto affermava l’omicida andava circa le motivazioni del suo gesto. I dettagli messi in evidenza da Plutarco e da noi raccolti, ci riportano all’idea che nel luogo ove avvenne il mancato attentato, vi era in corso una assemblea e che questa si stava svolgendo in un ambiente all’aperto, in uno scenario agreste dove non mancavano rupi e dove era possibile che gli astanti fossero armati e schierati. La presenza, in questa occasione, di molti partecipanti venuti dalle città vicine, cui fa riferimento Plutarco, ci induce a immaginare che la scena descritta dallo storico, sia quella dello svolgimento di un’assemblea passata alla storia col nome di simmachia ovvero la coalizione delle città libere della Sicilia, qui riunite in arme per acclamare il ”Duce” e seguirlo nell’impresa che prevedeva la cacciata dei tiranni e dei Cartaginesi dall’isola. Un ulteriore indizio ci induce a credere che nel formulare questa possibile ricostruzione siamo nel giusto. Questo indizio prende corpo dalla tesi secondo la quale la cultura sicana trae le sue radici da quella nord europea. Se fosse così, allora si vedrebbe una origine comune con i riti d’investitura che si svolgevano presso i popoli del nord Europa. In Svezia, per fare un esempio, territorio in cui abbiamo trovato sostanziali affinità con l’antica cultura sicana (vedi il saggio “dalla S(I)cania alla Sicania) i re si recavano nella prateria di More, presso la città sacra di Upsala. Qui, in una valle, vi era una grande roccia nella quale i re salivano per ricevere l’investitura ed essere acclamati dal popolo in arme rumoreggiante.
Il tempio adranita a Siracusa (?).
Poiché gli storici greci avevano il vezzo di non mettere troppo in evidenza la cultura degli autoctoni, e Plutarco non fa eccezione, non potendo fare a meno di omettere che Timoleonte si ritenne un protetto del dio Adrano che per ben due volte, nei pressi della città eponima, gli aveva mostrato la sua protezione, afferma che, divenuto signore di Siracusa, fece costruire presso la sua reggia, un tempio dedicato alla divinità sicula che Plutarco genericamente definisce Fortuna, la quale, come detto, lo aveva protetto fin dal momento in cui aveva messo piede nel territorio dell’Avo primordiale, Adrano. Senonché, duecento anni dopo la presa di Siracusa da parte degli alleati, ritroviamo quale genero del tiranno siracusano Gerone II, un certo Adranodoro. Questi, per dignità, come afferma Tito Livio nella storia di Roma, era secondo soltanto al tiranno. Non si fa perciò fatica ad immaginare quale carica potesse ricoprire Adranodoro nella polis più potente dell’isola: era il pontefice massimo. Dal momento che gli Adraniti fra gli altri, seguirono Timoleonte a Siracusa, è plausibile immaginare che vi fossero sacerdoti Adraniti addetti al culto che si svolgeva nel tempio che Timoleonte aveva fatto erigere preso la sua reggia. Ma uno con il nome di Adranodoro, non poteva essere che il ministro del culto esercitato nei confronti dell’Avo Adrano. Altri indizi ci portano a formulare la tesi testé sostenuta: appena cinquant’anni dopo la morte di Adranodoro, Cicerone, che ben conosceva la Sicilia per essere stato pretore e che proprio a Siracusa aveva soggiornato, ci fa sapere attraverso il famoso processo intentato a Verre, che I Siculi dei paesi limitrofi si recavano a Siracusa per rendere onore ad un dio chiamato Urio, divinità ‘antichissima’ che gli isolani avevano in grande onore e che la statua, trafugata successivamente da Verre, aveva la posa di guerriero, tanto da essere definita, in un altro passo del processo, statua di Giove imperatore. Era questa, a detta di Cicerone, uno dei tre esemplari che rappresentavano la medesima divinità, più “antiche” del mondo. Ora, non si fa fatica a realizzare che l’aggettivo Urio fosse riferito ad Adrano. Infatti Ur, nella lingua germanica, lingua che secondo la nostra tesi era parlata dai Sicani (vedi l’articolo “jam akaram, la lingua dei Sikani“), significa antico, primordiale, mentre il sostantivo Ano che segue l’aggettivo odhr (furioso) , nella stessa lingua significa Avo, antenato, dunque antico.
“Cantami o Musa, degli uomini che vissero in questa valle e attinsero da essa le primordiali forze che il lavico suolo ancora potenti riverbera”. Inizierebbe forse così una ipotetica ricostruzione di vita quotidiana dell’uomo del neolitico, l’Omero che mancò ai prischi Sicani abitatori delle sponde del Simeto, fiume della Sicilia orientale che sulle sue rive ospita antichi luoghi di culto ancor visibili seppur nascosti. La presenza di dolmen, pitture rupestri, spirali megalitiche, altari intagliati sul masso e, ancora, laghetti, cascate, pareti a strapiombo che fanno da argini naturali alle furiose acque del fiume nei piovosi mesi d’inverno, sembrano aver cristallizzato un paesaggio che non è mutato negli ultimi diecimila anni.
Il seguente articolo, necessariamente poco scientifico per la tematica trattata, più che proporre al lettore nuovi indizi che possano testimoniare la bontà delle tesi spesso da noi sostenute intorno alla religiosissima ‘gens’ sicana, come tradisce il significato che abbiamo attribuito al nome Sicano (sich-ano, tradotto verbum pro verbo equivale a se-avo, liberamente traducibile con ‘colui che è consustanziale all’ avo’, che ne è l’erede legittimo), ha natura speculativa, raccogliendo emozioni e intuizioni dovute, probabilmente, allo stato di empatia in cui ci si ritrova venendo a contatto con il territorio della contrada Picone nel quale insiste il riparo Cassataro. Poggiando le mani sulle pitture parietali e il cuore sul paesaggio circostante, capita all’osservatore di dismettere gli abiti dell’uomo tecnologizzato per indossare i panni dello sciamano che si immagina aggirarsi col suo tamburo in questo luogo, supponendo nel contempo, che a lui vadano attribuite le pitture sulla parete di arenaria come esposto nel precedente articolo: ” Lo sciamanesimo. Il neolitico tra Etna e Simeto” .
Abbiamo altresì tentato di riprodurre nella nostra immaginazione, osservando la morfologia del luogo e confortati dalla presenza di tracce geologiche, come poteva presentarsi questo luogo nel quale lo sciamano produceva I suoi stati di esaltazione e di rottura dello stato di coscienza, atti a farlo entrare in una dimensione altra, per poi produrre le celeberrime pitture rupestri, prima della parziale desertificazione verso cui la Sicilia si è irreversibilmente avviata.
La notevole distanza che intercorre tra le due sponde del fiume, adatte a contenere le copiose acque invernali del Simeto presso il luogo dove sono riprodotte le pitture sulle pareti, formate da due enormi sassi appoggiati l’uno sul l’altro, dopo essere rotolati dall’alto e che riproducono la forma dell’utero Materno, dove ritornare per ristabilire il contatto con la dimensione extrafisica interrotta con la nascita, il fiume avrebbe dovuto avere una enorme portata, anzi, qui si sarebbe verosimilmente formato un golfo e proprio in questo golfo torreggiava la bianca collinetta del Riparo Cassataro. Le labili tracce di ceramica neolitica che il colono con il suo aratro ha sparso tutto attorno, testimoniano della millenaria antropizzazione del luogo. La rara presenza di ceramica sigillata suggerisce che il luogo sia stato frequentato ininterrottamente fino ad epoca romana ed ancora fino ad oggi lo è. L’antropizzazione del luogo intercorsa senza una soluzione di continuità fino ai giorni nostri appare ovvia, essendo questa area agricola rimasta a seminativo fino al dopoguerra e per le sue caratteristiche dovette contribuire a costruire l’appellativo che definiva la Sicilia granaio dell’impero romano.
Condividiamo quanto ebbe ad affermare Mircea Eliade, autore di molte intuizioni concernenti la sfera del sacro, che nel luogo in cui si sarebbe verificata l’epifania del sacro, in qualche modo, il culto si sarebbe perdurato nel tempo, anche se in quello stesso luogo si fossero alternate civiltà portatrici di differenti concezioni religiose. Le differenti civiltà, susseguitesi, avrebbero tuttalpiù mutato i riti e i nomi al divino manifestato, come si può constatare dalla conversione di templi pagani in chiese cristiane e queste, a loro volta, in taluni casi, in moschee e di moschee in chiese. Pochi metri più in là del riparo Cassataro, infatti, una nicchia scavata nell’arenaria con incisa sul bianco masso una croce sottostante, tradisce la sensibilità religiosa del proprietario del podere che, accanto al simbolo di culto non poté fare a meno di lasciare ai posteri pure le iniziali del proprio nome. Alla pratica dello sciamano, dunque, millenni dopo, per via indipendente, si era sostituita quella di un uomo che, in quel luogo, seppur in modo diverso, aveva avuto la percezione del divino.
Il ritorno all’utero materno.
Pochi metri più in giù dello scomodo incavo denominato Riparo Cassataro, sul cui lato si appoggia la parete sulla quale, dipinti con ocra rossa si trovano le criptiche figure non ancora collocate con certezza dagli studiosi in un preciso arco temporale, vi è una grotta molto ampia dalla volta alta, molto comoda al punto che, nel secolo passato, essa era stata adattata a mangiatoia per asini e muli di cui vi è visibile traccia. L’ampia grotta non reca al suo interno alcun segno di pitture né di incisioni; quella grotta, pur essendo molto comoda, o proprio per questo, non era stata ritenuta adatta dallo sciamano per intraprendere i suoi viaggi extra corporei. In essa, il nostro, non riusciva a provocare quella necessaria rottura di livello tra lo stato sensibile e quello spirituale del proprio essere. Da ciò si comprenderà la risposta fornita da uno sciamano Dakota ad un suo intervistatore meravigliato della scelta di luoghi impervi per gli stati di trance: “Sono I luoghi che scelgono gli uomini e non viceversa”. Che certe grotte venissero scelte dai sensitivi perché rappresentavano la metafora dello stato embrionale dell’uomo è possibile solo congetturarlo. Certo è, che il Riparo Cassataro, come sopra affermato, ha la caratteristica di avere la forma di un utero e quella di essere costeggiato dal fiume, – quasi che questo formasse il liquido amniotico che nutre e protegge il feto-. A questi metaforici simbolismi cui si richiamava lo sciamano del Simeto, avrebbe potuto aggiungersi tutt’attorno la presenza di una ricchissima vegetazione, – oggi convertita in gran parte in frutteti- in parte ancora oggi apprezzabile e che un tempo potrebbe essere stata boschiva.
Gli sciamani dell’Etna.
Allo stato attuale delle ricognizioni archeologiche effettuare lungo le due rive del fiume Simeto, colpisce il fatto che siano stati ritrovati soltanto i frammenti di due scheletri appartenenti ad epoca neolitica, entrambi dipinti con ocra rossa. Uno di questi è stato ritrovato nel territorio di Adrano, l’altro in quello di Paternò, rispettivamente in C.da Fontanazza e Trefontane; I due luoghi si trovano non lungi dalle pitture del Cassataro, il quale oggi fa parte del territorio di Centuripe. La tomba ritrovata in C.da Fontanazza presso Adrano, limitrofa, come affermato, al Riparo Cassataro, ha la forma ellittica. Un’ansa a forma di doppia spirale, è stata ritrovata in contrada Tabana, anche questa poco distante da Fontanazza, mentre a Trefontane, una contrada presso Paternò dove è stato ritrovato il secondo scheletro ocrato, è stato rinvenuto un reperto assai curioso, si tratta di in un lungo collo con in cima una testa che, secondo la descrizione della dottoressa Maniscalco che esegui I saggi di scavo, appariva come una via di mezzo tra la testa di un uomo e quella di un animale, il collo portava una lunga incisione ( un sacrificio per sgozzamento ?). Se si trattasse di una figura teriantropica, sarebbe l’unico caso di manufatto di questo tipo; infatti di solito, le figure teriantropiche sono presenti sotto forma di dipinti parietali. Potrebbe però trattarsi di una figura che riproduce un sacrificio per sgozzamento e nell’intenzione dell’artista vi era la volontà di riprodurre la smorfia di dolore della vittima. Comprendiamo bene che questa ultima interpretazione, considerato che si parla di reperti neolitici, possa apparire assai azzardata sebbene, osservando la precisione stilistica con cui sono state tracciate le figure incise nelle pareti della grotta dell’Addaura, a Palermo, che risalgono al Paleolitico, un dubbio sulla presunta rozzezza stilistica dei nostri antenati preistorici rimane legittimo. Tutte interpretazione rispettabili quelle esposte, ma nessuna di esse può essere suffragate da prove. Da parte nostra intendiamo limitarci soltanto ad esporre delle intuizioni; una di queste intuizioni ritiene che un fenomeno universale, quale è quello dello sciamanismo, non può non avere interessato il territorio etneo, il quale più d’ogni altro, a motivo dei ben noti fenomeni legati alla presenza del vulcano, provoca noti fenomeni di magnetismo.
A questi fenomeni, individui particolarmente sensibili, avrebbero potuto dare risposte fisiche e iperfisiche, come dimostrano nuove discipline scientifiche quale l’archeoacustica. Ne sarebbe prova, a nostro modo di vedere, che qui, e non altrove, venne edificato il tempio del dio nazionale Adrano. Qui, in questo territorio alle falde del vulcano, ricchissimo di sorgenti, cascate e vegetazione, per dirla con Mircea Eliade, si sarebbe potuta realizzare la più importante manifestazione del sacro.
L’uomo che vede
Il significato che si attribuisce al termine sciamano è, generalmente, quello di colui che sa, che conosce. Noi, in virtù del metodo interpretativo messo in atto e che i lettori ben conoscono, lo traduciamo con ‘la mente che vede’ essendo il nome saman composto da sa vede, dal verbo sehen e mn mente. Il termine samana in India viene conferito ai neofiti che intraprendono la via dell’ascetismo. Esaminando I reperti archeologici ritrovati nell’ampio territorio etneo, risalenti al periodo neolitico, si rimane stupefatti dalla inusitata frequenza con cui si trova riprodotto un occhio cigliato stilizzato. Il suddetto occhio è riprodotto secondo lo stile della impressione su ceramica. Si tratta di un occhio stilizzato, realizzato attraverso la figura geometrica del rombo, a volte con due rombi concentrici, l’uno, più piccolo, che funge da pupilla, Inscritto nell’altro, a volte un rombo e un punto al centro di questo,
Poiché l’uomo ha sempre avvertito l’esigenza di trasmettere ai posteri, ma anche ai contemporanei, una propria rappresentazione del mondo esteriore ed interiore attraverso il simbolismo, ci chiediamo quale concetto si intendesse veicolare con la produzione di “un” occhio, forse che vi fossero individui particolarmente carismatici che erano in grado di vedere cose che ad altri non era concesso vedere? Si intendeva veicolare la metafora della presenza di un terzo occhio non fisico, quello della mente? Il mito collegato al Dio Apollo e al dio Pán proprio a questo si riferisce: Apollo, derubando Pán del suo terzo occhio, acquisisce il dono della veggenza. Quanto da noi ipotizzato per semplice intuizione, diventa plausibile se si considera che la pratica sciamanica è universalmente considerata l’arte di entrare nel mondo dell’invisibile. Ecco, dunque, che il concetto di vista entra a far parte del campo semantico dell’aldilà, di una dimensione altra, in cui I semplici organi umani della vista non sono sufficienti per sbirciare.
Il compito dello Sciamano.
Al ritorno dal suo viaggio, va osservato che lo sciamano non ritorna più’ colto, ně più saggio, ma egli ha semplicemente soddisfatto a un compito che il suo ruolo sociale gli ha imposto, egli ha portato a compimento una missione. Il viaggio sciamanico nel mondo dell’invisibile ha dunque lo scopo di indagare, ‘vedere’ e comprendere la causa che ha destabilizzato il mondo visibile abitato dagli uomini e, nei limiti del possibile, contrastarla. Perciò lo sciamano può essere definito un tecnico dell’invisibile. Il prestigio di questo operatore che si destreggia tra le forze che albergano nel mondo extrafisico consiste, dunque, non tanto nella sua capacità di compiere il viaggio nel mondo ultrafisico ove operano forze diverse rispetto a quelle che agiscono sulla terra e tuttavia in grado di influenzarle, – viaggio che sarebbe stato possibile compiere a chiunque avesse fatto uso di droghe, erbe psicogene o altri mezzi-, ma nella capacità di ristabilire l’armonia interrotta contrastando le forze che hanno causato la disarmonia. Per realizzare ciò, lo sciamano avrebbe dovuto interagire con gli elementi extrafisici che erano stati la causa della destabilizzazione. Il ruolo dello sciamano era, perciò, quello di intervenire tutte le volte che incombeva uno stato di disarmonia, a lui erano affidati il benessere e la prosperità del consorzio umano e della natura in cui questo era immerso. Tutte le culture del mondo hanno conosciuto la figura dello sciamano, anche se gli hanno dato nomi diversi, per poi liberarsene in tempi moderni. In Persia erano chiamati maghi, in Palestina profeti ecc. Infatti, esaminando il comportamento, ben descritto in 1Re XVIII 41,46, tenuto dal profeta Elia con il suo abito di pelle di capra, che invocando la pioggia poneva fine alla siccità – tacerò in questa sede della resurrezione del figlio della vedova provocato da Elia e descritto in 1Re 17, che trova anch’esso analogie nelle guarigioni sciamaniche — chi non vi trova una analogia con la danza della pioggia ancora praticata in talune aree geografiche della terra, da tribù che non hanno perso il rapporto con la natura e le forze che la governano?