Festa in onore di S. Domenica

Valle delle muse

Ogni anno, nell’ultima domenica di agosto, nell’antica Valle delle Muse presso la città di Adrano, nel luogo ove Virgilio, nel IX canto dell’Eneide, poneva il tempio di Marte e a oggi vi è sovrapposta la chiesa dedicata alla martire cristiana, si svolge una festa a lei dedicata. Dunque, non fece difetto neppure in Sicilia il precetto del 601 di Papa Gregorio che, al vescovo d’Inghilterra che lamentava l’irriducibilità dei pagani anglosassoni nel frequentare i loro luoghi di culto, consigliava di porre altari cristiani dentro i templi pagani: “in tal modo”, sosteneva Papa Gregorio, “speriamo che il popolo (…) possa arrivare, frequentando gli abituali luoghi di riunione, ad adorare il vero Dio”. Nel 398, già Sant’Agostino si era accorto della necessità di riutilizzare gli edifici templari pagani, ma Papa Gregorio compie una scientifica operazione di sincretismo religioso. Infatti, l’arguto quanto temerario papa afferma: “Poiché essi (gli Angli) hanno l’usanza di sacrificare molti buoi ai demoni (dèi pagani), facciamo sì che un’altra solennità sostituisca l’antica, come un giorno di consacrazione o una festa dei Santi martiri le cui reliquie siano lì conservate”. Alla luce delle affermazioni di Papa Gregorio, se ne deduce che il culto riservato a Santa Domenica sia da considerarsi la sostituzione con quello osservato nei confronti di Venere della quale lo storico locale sacerdote Petronio Russo affermava esservi il tempio collocato vicino a quello del suo amante Marte.

Bottone patera dedicata a Marte. Lisbona

Virgilio, come affermato sopra, nel suo poema pur facendo riferimento al tempio di Marte, palesa la presenza, nel medesimo luogo, di un culto ancora più antico di quelli greci presenti nella valle sul fiume Simeto, presso Adrano, ancora durante il periodo in cui egli scrive. I culti greci si erano in parte innestati in quelli indigeni in parte vi convivevano parallelamente. Il culto indigeno di origine sicana, che plasmò l’intera isola, denominata Sicania e fornì alla valle i toponimi che sono stati conservati per molti millenni e trasmessi immutati fino all’epoca attuale, era quello dedicato ai gemelli Palici figli di Adrano e Etna. Il culto alla triade divina: Adrano, Etna, Palici cioè padre, madre, figli e, dunque al concetto di famiglia quale istituto sacro che perseverava la stirpe, era l’unico culto immaginato dai Sicani. Infatti, non ci è pervenuto alcun pantheon divino e nessuna gerarchia di dèi. Lo stesso Adrano non era considerato un dio, bensì l’Avo, l’antenato divinizzato. Egli era il primo uomo, il capostipite della stirpe sicana; colui il quale, essendo nato e morto per primo, sottoposto nell’aldilà, da parte degli dèi, alle prove per accedere alla beatitudine, avendole superate, era in grado di indicare la via ai propri eredi. Questi prendendo il nome da lui, più che un patronimico, esprimevano attraverso il proprio nome il primo concetto di consustanzialità tra loro e l’Avo. Infatti, i nomi di Adrano e Sicano sono composti dall’accostamento di più lessemi. Il sostantivo Ano che è comune a entrambi i nomi, nella lingua nordeuropea, lingua da cui noi facciamo derivare quella sicana (vedi l’articolo: “La lingua dei Sicani”) significa Avo, antenato; l’aggettivo “odhr” che compone il nome Adrano, come afferma Abramo da Brera, significa furioso; sic, presente nel nome Sicano, è pronome riflessivo e significa se, se stesso. Pertanto, il termine Sicano, tradotto verbum pro verbo sarebbe se – avo o l’avo in se ovvero consustanziale all’avo. In virtù di codesta identificazione con l’antenato, il sicano accampò il diritto all’eredità spirituale e, perché no, a quella materiale del possedimento del territorio appartenuto all’Avo: la Sicilia, che essi chiamarono in concomitanza Sicania e Trinacria. TrinacriaIntesero così sancire, con il primo nome il diritto divino di possesso e di appartenenza alla stirpe dei Sicani; col secondo nome specificare un concetto metafisico che avrebbe costituito il nucleo della religiosità sicana, religiosità basata, come affermato sopra, sul concetto di triade. Infatti, volendo tradurre il significato del nome Trinacria, utilizzando il metodo da noi esposto in diversi articoli, avremo: triankr o trianakara cioè, nel primo caso, tre avopotenza o forza, nel secondo treavoterritori. Per tre potenze o forze deve intendersi le tre componenti che conferiscono l’immortalità all’unità cioè alla famiglia: la forza creatrice, la forza ricettrice, la forza riproduttrice: padre – madre – figli (ereditarieta’).

ANTROPOMORFIZZAZIONE DEL DIVINO

Possiamo concludere con ampi margini di attendibilità, che non sia arrivato a noi nulla della teogonia Sicana per il semplice fatto che essa non esistette fin tanto che in Sicilia vi fu una omogeneità etnica. Il panteismo fu l’unico credo dei Sicani fino al II millennio a. C. Fino ad allora, essi erano riusciti a mantenere una armonia cosmica, un equilibrio che venne a spezzarsi con l’arrivo di genti provenienti dall’oriente: Cartaginesi, Troiani, Cretesi che avevano già da tempo recise le loro radici con quella religiosità che vedeva nell’uno il tutto e il tutto era riflesso o emanazione dell’uno. Quella che si veniva a innestare nell’armonica terra di Sicilia nel II millennio a. C. era una religione degenerata in una antropomorfizzazione delle manifestazioni di forze naturali che venivano interpretate come autonome, separate dall’uno. Ciò che era unito venne diviso. Ma lo spartiacque più doloroso e incisivo, quello che sancì, attraverso una operazione scientifica di mistificazione, la cancellazione di ogni conoscenza metafisica dei Sicani, fu quello iniziato a partire dall’VIII secolo a. C. con l’arrivo dei Greci. Chiarificatore di quanto affermiamo è ciò che si riesce a costruire attraverso i frammenti dell’opera di Eschilo “le Etnee”. Nell’opera eschiliana, infatti, si comprende come nel mito originale riguardante gli dèi Palici, figli dell’Avo sicano Adrano e della ninfa Etna, viene arbitrariamente introdotta una teogonia greca che non si limita a coesistere con quella indigena ma, spudoratamente, tenta di sovrapporsi. Eschilo, a tal fine, nell’opera si inventa un rapporto extraconiugale tra la ninfa Etna e il re dell’Olimpo greco, Zeus, dal quale nascono i gemelli divini. Il tragediografo non fa altro che riprodurre in terra di Sicilia il mito greco riguardante altri due gemelli, quello di Apollo e Artemide nati da un rapporto extramatrimoniale tra Zeus e Leto. Tuttavia, dobbiamo constatare che l’opera di mistificazione mitologica e il tentativo di commistione tra i miti greci e quelli sicani tentato da illustri poeti quali furono Bacchilide e Eschilo, venuti in Sicilia durante il regno di Gerone nel 478 a. C. chiamati dal tiranno di Catania per celebrare lui e la cultura greca, non fu condotta con totale successo se, nell’arco di tempo tra il 213 e il 211 a. C., i romani che combattevano contro i Siciliani per il totale domino dell’isola, si videro costretti a chiudere, al pubblico culto, il tempio del dio Adrano (e non quello di Zeus che forse non esisteva nemmeno) in quanto assimilato – giustamente, affermiamo noi – al loro dio primordiale Giano Bifronte, attribuirono al contributo del dio siculo fornito agli isolani, l’incredibile combattività di questi ultimi.

Monete adranite pre-greche

Stando a Cicerone (Verrine), ancora nel 70 a. C. i culti indigeni sono praticati dagli isolani con grande partecipazione di popolo se egli racconta che, a Siracusa, per rendere onore a una antichissima divinità chiamata “Urio”, che Cicerone assimila al greco Zeus, provenivano pellegrini da diverse città della Sicilia. Siamo pertanto propensi, e ci ripromettiamo di riprendere l’argomento, che una religiosità sicana sia carsicamente continuata a esser mantenuta da una tenace casta sacerdotale che, come si evince dalla leggenda di una moneta ritrovata nel territorio della città di Adrano, si appellava “ADRANITAN” ovvero coloro che “invocano il furore dell’Avo”.

GLI DÈI INDOEUROPEI.

Dalla Scania alla Sicania; dall’Eufrate al Simeto; dal Mar Nero al Mediterraneo: ODHR.ANO, JAH.ANO, UR.ANO, M.AN(N)O, MANU, ANU/O … quali relazioni?

Attraverso le nostre ricerche, abbiamo ormai appurato che, i nomi conferiti dai nostri Avi alle persone, così come ai luoghi, contenevano quasi sempre, un significato velato. Spesso i nomi alludevano a caratteristiche significative dei personaggi, o dei luoghi, che designavano. Di conseguenza, se il nostro lettore, a seguito delle molteplici prove apportate nei nostri precedenti articoli (molti apparsi sul prestigioso sito di miti3000.eu), ha acquisito fiducia nella tesi circa la derivazione nord europea della lingua sicana, non avrà difficoltà nell’accettare le implicazioni legate al fatto che OdhrAno (Adrano), nella lingua nordica, più affine alla sicana, significhi l’Avo furioso o la furia dell’Avo, così come il significato del nome dell’arcaica divinità greca, Ur Ano, sia quello dell’Avo antico o primordiale; JahAno, l’arcaico dio latino di probabile derivazione sicana, dal momento che il Lazio, fra gli altri popoli, fu abitato pure da Sicani, può tradursi come l’Avo sensitivo percettivo o intuitivo. L’aggettivo, come vedremo, indicherebbe quelle modalità attraverso l’applicazione delle quali egli si sarebbe guadagnato l’accesso all’aldilà. JahAno rappresenta altresì l’equivalente della divinità germanica denominata Manno dai Germani. Infatti, il nome dell’Avo germanico risulta formato dall’unione del lessema “MN” mente, con il sostantivo ANO – avo, antenato. Da Manno, per sineddoche, deriverebbe il nome del popolo degli Alemanni, nome che gli eredi di Manno si attribuirono con orgoglio, come parimenti intesero fare i loro parenti Sich – ane nei confronti dell’Avo furioso che abitò l’isola di Sicania. Di questi ultimi, si può affermare che, attraverso l’utilizzo del pronome riflessivo “sich”, che significa se, se stesso, essi intendessero veicolare, ancor prima che venisse dibattuto nel Concilio di Nicea nel 325 fra Atanasio e Ariano riguardante la figura di Gesù, il primo concetto di consustanzialità che intercorreva tra l’Avo Adrano e gli eredi sicani, concetto che viene ripreso anche dai coevi Veda nel canto IV, 10 della Bhagavadgita. La formazione dei nomi indoeuropei, i quali, come sostenuto sopra, indicavano particolari caratteristiche della persona indicata, come ancora può constatarsi attraverso le regole della grammatica tedesca ancora oggi in uso, avviene attraverso l’unione di più lessemi: da un aggettivo con un sostantivo; da un verbo o una preposizione con un sostantivo. I sostantivi formati da due o più parole sono numerosissimi nella lingua tedesca e danno, spesso, vita a nomi lunghissimi e impronunciabili per noi Italiani. Come affermato in altri articoli, il nome Adrano riferito alla divinità sicana, indicava, per i Sicani che lo coniarono, non un dio ma, piuttosto, l’Avo, l’antenato primordiale, l’iniziatore della stirpe divinizzato, colui il quale si era “conquistato” il diritto ad accedere nell’aldilà e, per utilizzare ancora una volta il linguaggio veda (Canto V), era riuscito a far parte dell’anima universale, concetto quest’ultimo, che per i Sicani si traduceva nella osservanza della religiosità panteistica. Per ciò che concerne il significato dell’aggettivo “odhr”, furioso, utilizzato dai Sicani per indicare la caratteristica del proprio Avo, va citato lo storico Adamo da Brera che lo traduce con l’aggettivo furioso; e poiché lo storico tedesco lo utilizza per indicare le caratteristiche del dio scandinavo Odino, crediamo che il termine vada inteso nella sua accezione di divino furore; modalità violenta con cui tutti i testi sacri dei diversi popoli concordano nel descrivere l’epifania del sacro. Per comprendere il motivo della scelta dell’aggettivo furioso che contraddistingue la divinità sicana, bisognerebbe ricorrere allo studio della idronimia europea, scopriremo allora, grazie al resoconto fornito dallo storico romano Tacito sulle gesta di Germanico, che in Germania, luogo in cui il condottiero romano venne inviato per sedare la rivolta dei barbari, scorreva l’antico fiume Adrana oggi Eder; anche in Spagna, terra sicana secondo quanto riportato da Tucidide nella Guerra del Peloponneso, e da noi condiviso a motivo dello studio che abbiamo effettuato sulla toponomastica dell’antica Hiberia, incontriamo l’attuale fiume Adrano che scorre nei pressi della città che porta lo stesso nome. Il sito dove sorse il più prestigioso, e in origine unico santuario dell’Avo furioso, l’attuale città di Adrano, nella Sicilia orientale, era caratterizzato – come è stato messo in evidenza attraverso la ricostruzione del territorio, materializzatosi in un imponente plastico esposto presso il Circolo Democratico di piazza San Pietro, in pieno centro cittadino – dalla presenza di numerosi corsi d’acqua che confluivano in fiumi e che, a loro volta, sfociavano in fragorose cascate. È altresì probabile che l’aggettivo furioso conferito all’avo divinizzato sia da addebitarsi al fragore sprigionato dallo scorrere e dal precipitare delle acque dalle alte rocche di antica lava. In pari tempo, la manifesta violenza con la quale le acque vincevano ogni ostacolo facendosi strada verso la meta finale, il mare, dovette, per analogia, suggerire ai Sicani l’immagine che l’Avo, come afferma pure Gesù nel Vangelo di Matteo 11,12, dovette ricorrere, se non alla violenza al divino “furore” per superare le prove dell’aldilà. A questo punto della disamina sul probabile significato da attribuire agli aggettivi utilizzati per indicare, nella tradizione indoeuropea, le caratteristiche del proprio Avo, emerge che ognuno degli avi o capostipiti dei rispettivi popoli, rispecchiava, in fondo, la concezione che ogni popolo aveva circa la conquista dell’accesso per l’aldilà e la via da perseguire per avere successo nell’impresa: JahAno, per esempio, per superare le prove poste nell’aldilà dagli dèi, ricorse a quella dote, l’intuito, che permette di bypassare la funzione mentale la quale, agitata dai sentimenti di paura, scoraggiamento e incertezza, sarebbe stata da ostacolo per il successo dell’impresa. Ecco allora, che, la percezione, la velocità (Jah) d’azione, l’intuizione immediata che, come viene affermato nella Bhagavadgita (Canto IX, 2) “è consustanziale all’ordine sacro” intervengono a inibire l’insorgere della fase scomposta della mente in preda alle incertezze e alla riflessione, stato che avrebbe inibito o fatalmente rallentato l’azione vittoriosa dell’Avo. Nel sostantivo “Ano”, che va a comporre, come abbiamo fin qui osservato, i nomi delle maggiori divinità indoeuropee, da nord a sud, da occidente a oriente, vi si deve leggere la volontà, da parte degli eredi, di ammantare la propria genesi etnica di un prestigio riscontrabile in ogni cultura e che consiste nella propria antica presenza nel pianeta terra: Zeus definisce antico Poseidone, per lusingarlo, per esercitare nei suoi confronti una captatio benevolentiae, quando nell’Odissea questi si mostra adirato con il re dell’Olimpo a motivo del comportamento dei Feaci nei propri confronti; in Erodoto (Storie) nella ricerca commissionata dal faraone ai sacerdoti, per risalire alle origini più antiche di un popolo che egli riteneva il proprio, si cela il tentativo di imporre il proprio prestigio al mondo; nel primo canto della Bhagavadgita è il dio Krsna che, per lusingare Arjuna, il suo discepolo prediletto, gli ricorda l’antica origine della stirpe di cui l’eroe è membro. Dunque, o Adraniti, antica stirpe consustanziale all’Avo Adrano, non vi pare il caso che sia giunto il momento di rientrare nella grande famiglia indoeuropea a far parte dell’anima universale?

Francesco Branchina

Antichi bagni termali di Adrano: dove cercarli?

Veggonsi tuttora le macerie dei bagni termali presso l’orto denominato Capritti (…) conservarsi i cinque archi (…) il proprietario ha convertito questo luogo in una vasca d’acqua. Egli è vero sono lasciate adesso, come colonne, le basature degli archi fatte di pietra vulcanica e fasce di mattoni (…). – Salvatore Petronio Russo, Storia di Aderno’, cap. VII-“.

Per fortuna, nel secolo precedente a quello nel quale il P. Russo metteva per iscritto le sue ricerche storiche, il principe Biscari, faceva realizzare delle incisioni. Queste riproducevano, fedelmente, le terme romane nella loro grandiosità. Tuttavia dobbiamo ringraziare il nostro concittadino P. Russo, per averci fornito i dettagli utili al ritrovamento, forse, del luogo ove sorsero le terme, e dove tuttora, rimangono visibili le colonne descritte dal nostro. Infatti, il Petronio Russo, nella sua illustrazione storico archeologica, afferma che il proprietario, nel periodo in cui egli scrive, era in procinto di convertire in vasca una delle stanze di quegli antichi bagni. Seguendo le indicazioni del nostro illustre concittadino, cercammo in quella direzione. Dopo aver visionato diverse vasche, realizzate nella contrada indicata dal Russo, trovammo, finalmente, quella giusta. Infatti, all’interno di quella che doveva essere una semplice vasca di raccolta, osservammo la presenza di archi e colonne, come sopra affermato, che non solo non erano funzionali allo scopo per cui la vasca era stata costruita, ma che per il proprietario avrebbe rappresentato un inutile costo, sia economico che di energie.
Notammo ancora, una ulteriore anomalia: la vasca, in una delle quattro pareti, aveva infissa una splendida pietra, scanalata nella sua anima interna e lavorata con motivi elegantemente decorativi, da cui si gettava, per riversarsi nella vasca, l’acqua proveniente, forse, da una sorgente ormai prosciugatasi. La vasca si trova ubicata ad un centinaio di metri dall’ultima abitazione della città, a nord est di questa. L’ abitazione segna il confine tra il centro abitato e l’aperta campagna ove, il tenace colono adranita, con sodi muscoli e copioso sudore, seppe strappare, alla viva lava, le zolle che, tutt’oggi, rendono ubertosi quei fondi. Nella abitazione sopra descritta, confinante con le terme, – o nella strada adiacente ad essa -, dalle indiscrezioni da noi raccolte dall’ultra ottantenne che allora esegui i lavori per la sua edificazione, apprendemmo che si nasconde un mosaico. Per ciò che riguarda chi scrive, egli può, a sua volta, raccontare di una confidenza affidatagli da un fraterno amico, scomparso prematuramente, proprietario di un fondo adiacente alla casa di cui si è detto, fondo poi venduto dalla famiglia e su cui si è costruito un edificio per civile abitazione. L’amico confidò, allo scrivente, in camera caritatis, che, durante i lavori per la costruzione dell’edificio, effettuati molti decenni fa, egli poté osservare, nel giorno in cui lavorava il proprio podere superstite della vendita, che era venuto alla luce un doppio pavimento, fatto con mattonelle di terra cotta piuttosto grezza, che così descriveva: il pavimento sovrastante, era sorretto da pilastri di circa venti cm. funzionali a separarlo da quello sottostante. Dunque tra quello sovrastante e quello sottostante vi era una camera d’aria? Avevano forse rinvenuto il calidarium? I ritrovamenti, che a nostro avviso facevano parte della prestigiosa struttura termale, ripresa alla fine del settecento dagli acquerelli del pittore francese J. Houel, pare che arrivassero fin alle fondamenta dell’attuale liceo scientifico, distante circa duecento metri dalla nostra vasca, che per costruirlo non si lesinò cemento. Dobbiamo rilevare che, se da un lato il duro collante rese sicure le vite degli studenti che avrebbe ospitato, dall’altro seppelli parte dell’antico prestigio della vetusta, quanto sacra, città di Adrano. Siamo consapevoli che, non potendo portare prove a sostegno della veridicità delle storie raccolte, si potrebbe inficiare quanto fin qui sostenuto. Tuttavia, chi è vissuto nella nostra città, la vetusta Adrano, sede del santuario del Dio omonimo, che fu Dio a tutti i Siciliani, allora chiamati Sicani; chi è cittadino di essa, sa che Adrano fu, è, e sarà, una miniera di rinvenimenti archeologici, più o meno fortuiti, come quel rinvenimento di mille e cinquecento monete di bronzo ed argento che riempì le tasche di decine di manovali presenti quel giorno, avvenuto presso gli unici scavi rimasti visibili al visitatore, in piazza Dionigi il vecchio. Nello stesso luogo, durante la costruzione di abitazioni private, furono rinvenuti, oltre alle monete citate, mosaici di una fattura da fare invidiare quelli della villa del casale. Continuando con le indagini dirette alle terme, ci rendemmo conto che gli antichi bagni termali, dovevano estendersi su una superficie di circa un ettaro.

Branchina F. e prietra con simboli
Branchina F. e pietra con cerchi concentrici.

Dobbiamo qui confessare che, a motivo di esperienze antecedenti, riteniamo inutile segnalare alla sovrintendenza quelle che potrebbero definirsi delle semplici intuizioni. Tali riteniamo quelle qui esposte. È infatti doveroso fare presente, a quanti di dovere, che due anni or sono, segnalammo alla sovrintendenza di Catania, con lettera protocollata, il rinvenimento, sul greto del fiume Simeto, di due reperti: una pietra arenaria che portava delle incisioni sulla superfice superiore di essa, e una struttura muraria che, a prima vista, ci sembrò si trattasse dei resti di un ponte romano. Dopo il lungo silenzio degli organi preposti, a cui rivolgemmo il nostro urlo di gioia, che credevamo si sarebbero pronunciati in merito, decidemmo di fare esaminare, privatamente, il reperto da prestigiosi geologi. Secondo le loro opinioni le incisioni sulla pietra arenaria furono eseguite da mani umane.

Particolare dei ruderi del ponte romano sul Simeto.

La imponente struttura muraria fu, anch’essa, fatta esaminare da ingegneri qualificati, da noi portati in loco per esprimere giudizi tecnici, i quali ci rilasciarono regolare relazione tecnica autografa. Come affermato, a tuttora, la sovrintendenza non ha fornito alcuna risposta. Ciò nonostante, se gli organi preposti ritenessero utile quanto da noi qui esposto, non ci sottrarremo dalla dovuta collaborazione. Chiunque, fra gli accademici, volesse adoperarsi per far risorgere la nobile storia adranita e gli edifici che con la loro presenza la testimoniano, troverebbe in noi i più ardui sostenitori.

Ad majora.

Adrano: il dio che i romani temevano.

Con la morte di Gerone II tiranno di Siracusa, avvenuta nel 216 a. C. alla veneranda età di novant’anni, cessa il lungo periodo di pace fra le città sicule. Pace garantita, fino ad allora, dalla lungimirante politica del tiranno a cui viene successivamente attribuito, per meriti acquisiti sul campo, il nuovo titolo di re. Gerone, dopo un breve braccio di ferro, aveva stipulato un’alleanza con i Romani arrivati nell’isola nel 263 a. C. invitati dai Mamertini di Messina. Con quella alleanza si erano stabiliti fra il Senato romano e Gerone, reciproci rapporti di fedeltà e lealtà. La morte di Gerone, arrivò poco dopo la peggiore sconfitta che i Romani avessero subito ad opera dei Cartaginesi: quella di Canne. Appena un anno prima di Canne, nel 217 a. C., le legioni erano state decimate prima nel Ticino e subito dopo al Trasimeno.

Gelone

Adesso, l’incauto erede di Gelone, Geronimo, non raccogliendo le accalorate raccomandazioni a lui indirizzate sul letto di morte dal nonno, cioè di mantenere la pace con i Romani, stipula una innaturale alleanza con quel popolo che tutti i suoi antenati avevano sempre e fortemente combattuto: i Punici. Il nuovo fronte siciliano si dimostrava oltremodo difficoltoso per i Romani, infatti come afferma lo storico romano T. Livio (XXIV, 35), tutta la Sicilia era passata dalla parte dei Punici. I Romani, avendo una certa dimestichezza con le cose sacre, attribuirono la inarrestabile potenza delle armi sicule, alla protezione che offriva loro la divinità sicula chiamata Adrano. I Decemviri avevano ben compreso, che l’Avo sicano rappresentava l’equivalente dell’Avo latino e con questo condivideva una caratteristica in particolare che metteremo in evidenza più avanti. L’unica differenza nel nome che designava le due divinità, consisteva nell’ aggettivo che, anteposto al sostantivo, indicava le rispettive caratteristiche: furioso (Odhr) quella dell’Avo siciliano, sensitivo, percettivo, rapido (Jah) quella dell’Avo latino. Ma entrambi, attraverso l’utilizzo del sostantivo Ano (Avo) indicavano il comune antenato primordiale. Quanto affermiamo, trova riscontro nel momento in cui i Romani, venuti a contatto con il mondo greco, compresero che nella primordiale divinità greca Ur-Ano, si celava la corrispettiva divinità latina Jah-Ano. Effettuata la dovuta comparazione, i Romani non ebbero difficoltà ad accettare e far propria la teogonia greca.

Messina – Fontana di Poseidone. Giov. Ang. Montorsoli

In Sicilia, gli studiosi di cose sacre romane, i Decemviri, osservarono che il dio siculo Adrano, tra le altre, aveva una caratteristica particolare che lo accomunava al Dio latino Giano e che era proprio quella a rendere invincibili i nemici: il furore del Dio, si materializzava sui campi di battaglia ogni qualvolta venivano aperte le porte del suo tempio. Ciò, come era riportato negli annali dell’isola, raccolti da Plutarco per essere utilizzati nella sua opera che ricostruiva la vita e le imprese di Timoleonte, era avvenuto, con successo, nel 344 a. C., epoca in cui, il furore del Dio si risolse con la cacciata di tutti i tiranni greci dall’isola. Ma i Romani, sapevano trovare la soluzione per ogni problema. Nel 398 a. C., infatti, avevano risolto un caso simile: avevano “convinto”, attraverso un rito di “evocazio“, con lusinghe, la dea Giunone ad abbandonare la protezione accordata agli abitanti di Veio. Il caso siciliano, prevedeva un diverso accorgimento: preso coscienza della incorruttibilita’ dell’Avo sicano, i Romani intendevano mettere in atto uno stratagemma, quello di erigere una muraglia tutt’ attorno al tempio della divinità sicula Adrano ( Diodoro siculo XXIV, 38).

Giano bifronte, da Vulci. II sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.

La muraglia, quale ostacolo frapposto, avrebbe dovuto impedire al furore del dio di propagarsi per l’isola e scendere, egli stesso in campo, al fianco dei Siculi. Per mettere in atto lo stratagemma, era necessario conquistare, prima fra tutte le altre, la città che ospitava il tempio e la statua dell’Avo divino: la città di Adrano. Marcello concentra tre legioni sotto le ciclopiche mura che cingevano la città naturalmente fortificata con le sue alte rocche. La città dell’Avo, però, non resistette a lungo alla più potente macchina bellica dell’antichità. Penetrati nella città sacra, i Romani mettono in atto lo stratagemma, forse sarebbe più esatto definirlo rito, impedendo altresì ai sacerdoti Adraniti, a partire da quel momento, di esercitare pubblicamente il culto dell’Avo, i sacerdoti avrebbero, però, potuto continuare ad esercitare il ministero privatamente. Superstizione, magia, rito?

Tucidide

Per dirla con Tucidide, ognuno si faccia una propria opinione, di fatto accade che, poco dopo la presa di Adrano, tutte le città sicule alleate, si arrendono ai Romani e la stessa Siracusa cade, anche se a causa del tradimento di un cittadino della polis, di nome Soside, assieme al suo più temibile difensore, lo scienziato Archimede. É l’anno 211 a. C., potremmo prendere questa data, come punto di riferimento per immaginare l’inizio della decadenza del culto plurimillenario tributato all’Avo Adrano. Infatti, Diodoro che mette per iscritto le sue storie circa un secolo e mezzo dopo i fatti appena esposti, mostra tutta la sua ignoranza riguardo al tempio del Dio Adrano e al culto in esso celebrato. Eliano, che nel II secolo della nostra era, scrive un trattato sui comportamenti degli animali, nel citare la divinità e la città che ospitava il culto, si rifà a Ninfodoro, vissuto intorno al III sec a. C. Da Eliano, interessato soltanto a studiare il comportamento dei cani, in numero di mille, che facevano da guardia al tempio dell’Avo, non si ricavano informazioni utili sulle caratteristiche del culto esercitato, né alcuna descrizione dell’architettura templare o della statua dell’avo divino. É altresì probabile, che non avendo mai messo piede in Sicilia, né tanto meno in Adrano, Eliano non sapesse, se il tempio di Adrano esistesse ancora nel momento in cui, egli metteva per iscritto i risultati delle sue indagini.

DOVE È FINITA LA STATUA DELL’ AVO ADRANO?
Della statua che nel 344 a. C. si sarebbe animata per scendere in battaglia, al fianco dei propri adoratori, non si ha più notizia. Nel 71 a. C., essa non si trovava neppure nel santuario di Adrano, poiché, in caso contrario, non si sarebbe salvata dalle grinfie del famigerato Verre, il qule dal 73 al 71 a. C., anni che lo videro pretore nell’isola, non ebbe riguardo né per i mortali, né per gli immortali. Nessuna opera d’arte, o perché essa, si trovasse fra private pareti domestiche o fra quelle sacre di un tempio, ebbe scampo alla sua ingordigia. È possibile che la statua, non si trovasse più ad Adrano dall’anno dell’assedio, avvenuto ad opera del console Marcello tra il 212 e il 211 a. C. Gli Adraniti, infatti, in quella occasione, maturarono la certezza che le legioni sarebbero riuscite ad abbattere le poderose mura ciclopiche e messo a ferro e fuoco la città dopo aver espoliato il tempio dei suoi ori, e, forse, distrutto la statua. Nel tentativo di scongiurare una tale profanazione, trasferirono la statua, con al seguito i sacerdoti addetti al culto, nella più sicura Siracusa, nell’isolotto della inespugnabile Ortigia. In effetti, come attestato dagli eventi successivi, Siracusa soccomberà soltanto a causa, come già affermato, del tradimento di un cittadino siracusano e non per l’assedio in corso. Nel tentativo di ricostruire quegli eventi, ci viene in soccorso Cicerone, il quale ci mette a conoscenza della presenza a Siracusa, della statua di una divinità, quella sì, predata dal pretore, raffigurante una divinità in atteggiamento guerriero, tanto che l’avvocato la definisce Giove imperatore, titolo che a Roma era inesistente per indicare Giove, in quanto nell’urbe non esisteva nessuna statua così definita, ma il termine utilizzato dall’avvocato, serve a rendere plastica l’immagine di una statua in atteggiamento da guerriero, non solo, ma la statua avrebbe, certamente, brandito una lancia, in quanto, nel campo semantico indoeuropeo, la lancia indicava, per antonomasia, il simbolo dell’ imperio.

Cicerone. Musei Capitolini

La divinità descritta da Cicerone, era fortemente venerata dai siculi, egli la chiama col generico nome di Urio. Per comprendere il significato del termine Urio, dobbiamo fare ricorso alla lingua sicana, che noi, in altri studi, abbiamo dimostrato essere stata una delle lingue indoeuropeo, affine a quelle che, ancora oggi, si parlano nel nord Europa. In antico alto tedesco ur significa antico, primordiale. Dunque, l’ aggettivo ur utilizzato dai siculi che abitavano a Siracusa, stava ad indicare la divinità sicula per eccellenza, l’antico per antonomasia, equiparabile al greco Ur-Ano. Ma quale divinità, in Sicilia, per i Siculi, poteva essere più antica di quella dell’Avo primordiale Adrano? Cicerone, nel corso del processo intentato a Verre, ricorda ai giudici che presiedono al processo, che Verre aveva strappato ai Siciliani, la statua più antica, tra le tre esistenti nelle regioni del Mediterraneo: la Macedonia, il Ponto Eusino e la Sicilia. Ma poiché in Sicilia il culto più antico era quello tributato ad Adrano, ecco che quella statua non poteva che rappresentare l’Avo dei Sicani. Un particolare non indifferente, passato inosservato fin ora, potrebbe rappresentare un’ulteriore tassello per aver chiara la visione dell’intero puzzle: nel 211 a. C. appare tra gli aristocratici imparentati con la casa regnante di Siracusa, un certo Adranodoro. Questi è il cognato del tiranno Geronimo. Alla morte di Geronimo, Adranodoro ne prende il posto. Il prediletto del dio Adrano, questo è il significato del nome Adranodoro, potrebbe essere stato, in realtà, un sacerdote venuto al seguito della statua dell’Avo, trasportata da Adrano a Siracusa, perché il rito celebrato in onore all’Avo, non venisse interrotto. La dignità di pontefice massimo, avrebbe introdotto Adranodoro a corte, e qui, il pontefice avrebbe trovato moglie nella persona della sorella dell’erede al trono, Geronimo. Adranodoro, a corte, dopo la morte di Geronimo, nella sua “elezione” a nuovo tiranno, avrebbe certamente trovato appoggio nella componente autoctona dei Killiroi, che, dopo il colpo di stato effettuato dall’esule greco Archia, accolto amichevolmente da Iblone oltre cinque secoli prima, era rimasta all’opposizione politica, formando il partito dei democratici, partito che sempre si oppose ai tiranni di Siracusa. Anche la definizione di Giove Etneo, fornita da Diodoro siculo, per indicare la divinità sicula che i Romani avrebbero confinata dietro la muraglia, come già esposto in precedenza, rimanda ad un campo semantico del primo livello nel pantheon siciliano.

Plutarco

Anche la definizione fornita da Cicerone, per descrivere la statua della divinità sicula, Giove Imperatore, come affermato sopra, rimanda alla descrizione che fa Plutarco della statua di Adrano, armato, a propria volta, di lancia, la quale, ribadiamolo, nel simbolismo indoeuropeo, rappresentava lo strumento bellico che sancita il possesso del l’imperio. Poiché l’avido pretore, trasferiva a Roma il frutto delle sue ruberie, e rivendeva le statue agli aristocratici, per ornare le proprie ville, non sarebbe da escludere la possibilità, che la prestigiosa statua dell’Avo sicano, sia ancora seppellita in una di quelle prestigiose ville romane. Guidi, il dio, la mano del vangatore, perché egli scelga di tornare, con ciò che lo rappresenta, alla propria dimora, dove è fortemente atteso.

Ad majora.

Dove è finito il tempio dell’avo Adrano?

Chiesa Madre
Chiesa Madre

La tradizione orale giunta fino a noi vuole che le dodici colonne del tempio del Dio, ma sarebbe più corretto tradurre il teonimo con Avo, Adrano, siano inglobate nell’edificio in cui viene officiate il culto cristiano, l’attuale Chiesa Madre. Esse sostengono le navate della prestigiosa chiesa edificata durante il XII sec. per volontà della contessa Adelicia, nipote del gran conte Ruggero di Altavilla.
La Chiesa Madre sorge, rispetto alla antica città circoscritta dalle poderose mura ciclopiche, riprodotta con un grandioso plastico esposto presso i saloni del Circolo Democratico ubicato nella centralissima piazza San Pietro, nel luogo più alto di essa, perfettamente in linea con le abitudini degli antichi, che ponevano i templi degli dei patri nel luogo più alto della città, detto acropoli. Così fecero i Romani con il tempio di Giove capitolino; i Greci con quello di Atena e gli esempi potrebbero continuare. Che il tempio dell’Avo sicano si trovasse dentro, e non fuori le mura dell’antichissima città di Adrano, lo conferma un passo di Eliano che, a sua volta, si rifà a Ninfodoro e, indirettamente, Plutarco che, scrivendo della ‘vita di Timoleonte’ , definisce sacra la città che ospita il tempio, aggettivo che sarebbe stato utilizzato impropriamente dall’attento storico greco se, come ha sostenuto qualcuno, il tempio fosse stato edificato in aperta campagna, fuori le mura. Per i Romani tutto ciò che ricadeva fuori il pomerio, per esempio, perdeva di interesse, non era per loro appetibile.

Adrano – Mura ciclopiche

Che il tempio dell’Avo Adrano possa essere stato inglobato nell’attuale Chiesa Madre lo si deduce, tra l’altro, dalle subentranti abitudini cristiane di riconvertire, secondo l’editto di Efeso, gli antichi edifici in cui si praticavano culti pagani, in chiese. Così avvenne per il prestigioso tempio di Atena ubicato nella piazza centrale di Ortigia a Siracusa; per quello di Apollo su cui fu edificato il monastero di Montecassino; per quello di Dioniso su cui sorse la cattedrale di Catania e gli esempi potrebbero continuare fino a tediare il lettore. Ci chiediamo: farebbe eccezione soltanto il tempio di Adrano? Soltanto esso farebbe eccezione alla pratica attuata con il permesso di S. Agostino prima e la benedizione, successivamente, di Gregorio Magno? Dopo l’affermazione, sancita nel 325 con il concilio di Nicea, del nuovo culto proveniente dalla Palestina, inizia una operazione di riconversione e riutilizzo dei luoghi di culto che giungerà, alla fine del primo millennio della nostra era, a non fare più rimanere inpiedi un solo menhir, un solo dolmen, e a soffocare gli urli paurosi dei popoli germanici che, come afferma Tacito, tanto terrore incutevano alle legioni, quando scendevano in battaglia, per indurli a recitare i sonnolenti canti gregoriani.

FINE DI UN CULTO MILLENARIO.

Del culto esercitato nei confronti dell’Avo Adrano, attraverso le poche righe riportate da Plutarco, ben poco si evince se non il fatto che la caratteristica principale che distingueva la divinità sicana, fosse di natura guerriera in una visione del mondo patriarcale quale era quella posseduta dalla grande famiglia indoeuropea, di cui i Sicani facevano parte. Nel 214 a. C., dopo cinquant’anni di benessere economico e pace sociale, ottenute grazie agli ottimi rapporti instaurati tra il tiranno di Siracusa Gerone II con i Romani che occupavano l’isola fin dal 263 a. C., con la morte del tiranno, la vetusta è sacra città di Adrano, che faceva parte del regno affidato da Roma a Gerone II, inserita come clausola per le condizioni di pace stipulate nel 263 a. C. si ritrova, suo malgrado, dalla parte sbagliata. Era infatti accaduto, che il figlio di Gerone II, preso il potere, aveva dichiarato guerra ai Romani, stipulando una innaturale alleanza con i Cartaginesi. In questa fase la città di Adrano subisce la stesa sorte di Siracusa, verrà distrutta e depredata dalle legioni del console Marcello. Narrando questi eventi, Diodoro siculo fornisce un importante contributo alle nostre ricerche.

Statuetta in bronzo. Museo di Adrano.

Lo storico greco di Agira scrive: “Il Senato (romano) paventando l’ira degli Dei, consultati i libri sibillini, pensò di dover mandare in Sicilia alcuni del collegio dei Decemviri. I quali avendo girato per tutta l’isola, consacrarono con certe cerimonie e sacrifici gli altari dedicati a Giove Etneo (leggi Adrano); e fattovi intorno una muraglia, ne chiusero l’adito a tutti, eccettuato quelli che delle singole città erano soliti ad essere mandati a quegli altari, onde farvi, secondo l’uso dei loro maggiori i sacrifici patrii“. Benché questo frammento appaia oscuro, essendo mancante delle motivazioni che portarono il Senato romano a deliberare un atto tanto grave, esso appare animato di nuova luce se lo si integra a quanto afferma Tito Livio, scrittore molto attento alle questioni religiose. Egli, riferendosi alla strage di innocenti perpetrata a Enna a causa di Pinario un legionario di stanza, con i propri uomini, nella città sacra a Cerere, afferma: “La notizia di quella strage quasi in un sol giorno percorse tutta la Sicilia, poiché essa era stata compiuta in una città situata nel mezzo della Sicilia, famosa per la sua naturale fortificazione: città dove tutto era sacro, poiché là era vivo il ricordo della leggenda di Proserpina. I Siciliani ritenevano infatti che con quella ignobile strage non era stato profanato soltanto un Lugo sacro abitato da uomini, ma anche da dei – T. Livio, storia di Roma LXXIV”. Da questo punto potremmo fare continuare Diodoro: E “Il Senato, paventando l’ira degli dei, consultati i libri (…) fattavi intorno una muraglia (…)”. Se, come affermiamo, il tempio si trovasse nel sito della Chiesa Madre, allora potremmo anche sospettare che la muraglia a cui fa riferimento lo storico di Agira, sia quella che si trova a poche decine di metri dalla chiesa in questione, all’ingresso del castello normanno, sotto il pavimento di questo, visibile e protetta da una teca di vetro, muraglia la cui presenza non è stata giustificata dagli studiosi.

Ad majora.

Rifugio Cassataro

LE PITTURE RUPRESTI DEL RIFUGIO CASSATARO
Pitture su roccia del rifugio Cassataro

Le immagini dipinte in ocra rossa nelle pareti della roccia di arenaria del cosiddetto “Rifugio Cassataro” rappresentano, ancor oggi, un enigma per gli studiosi che non riescono a stabilire né a quale epoca esse risalgano né cosa rappresentino. Figure antropomorfe e reticolari s’imprimono nelle pareti di questa roccia di calcare che sembra poggiata a un’altra roccia in modo da formare un antro con due aperture. Il sito dista circa tre chilometri dalla Valle delle Muse e entrambi si trovano lungo gli argini del fiume Simeto, ubicati in luoghi di grande suggestione. La valle delle Muse si trova sul lato sinistro del fiume mentre il rifugio rupestre sul lato destro. Sacra, tradizionalmente, è definita la valle delle Muse attraversata dalle sorgenti, anch’esse dette “SACRE”, delle FAVARE; sciamanica potrebbe esser stata la pratica esercitata nel Rifugio Cassataro, vista la sua caratteristica apertura a forma di utero materno, simbolo di uno stadio fetale e veicolo di una regressione a un mondo primigenio.

Rifugio Cassataro. veduta dell’interno.

Il “De Divinazione” di Cicerone fornisce altri possibili suggerimenti circa le destinazioni del sito: il luogo, posto fuori dal centro abitato, poteva esser luogo di meditazione per principi, re o sacerdoti che si accingevano a imprese significative; anche le immagini nella roccia potrebbero esser state tracciate nel corso delle fasi estatiche.

THE ROCK PAINTING OF THE “CASSATARO” SHELTER
Altra veduta del rifugio.

  The red painted images in the walls of the sandstone of the so called “Cassataro” shelter represented, even today, an enigma for the scholars. They are not able to know in which period they date back and what they mean. This limestone seems to be sitting on another stone, creating a cave with two gaps. In the walls of the limestone there are anthropomorphic and reticular figures. The place is about 3 kilometers from the valley of the Muses and both stay down the “Simenon” riverbanks, very suggestive places. The valley of the Muses is to the left of the river and to the right of the shelter. Traditionally defined sacred, the valley of the Muses is crossed by sacred “Favre” sources. Probably in the “Cassataro” shelter was practiced a shamanic rite, because it had a gape with the shape of a mother’s womb, symbol of a fetal stage.

Ulteriore veduta del rifugio.

The “De Divinatione” of Cicerone gives other details about the destinations of the location: the place, outside the residential area could be a place of meditation for priests, princes and king, ready for important challenges, also the images of the rock could be painted during the ecstatic stages.

Francesco Branchina

Percorso iniziatico nella Valle delle Muse

LA VALLE DELLE MUSE
PERCORSO SACRO – INIZIATICO
Valle delle Muse.

La Valle delle Muse si trova a 3 KM dal centro abitato di Adrano e ne costituisce l’area sacra fuori le mura. La Toponomastica, le fonti letterarie (Virgilio, Eneide, l. IX), l’epigrafe incisa sul duro basalto di una fonte, di cui sono state effettuate alcune traduzioni, lasciano presumere che l’area fosse stata utilizzata dai sacerdoti come luogo di culto in onore dei due gemelli divini, detti “Palici”, figli del dio Adrano; è anche lecito supporre che fosse sede di un percorso iniziatico per i neofiti. In questo probabile percorso iniziatico, si possono individuare quattro tappe o stazioni con le ipotetiche interpretazioni sotto riportate.

Fonte acqua scura.

La prima stazione, in cui scorreva una fonte d’acqua detta “scura”, consisteva in un luogo di meditazione. La fonte scaturiva dalla base di una roccia lavica alta una decina di metri e si raccoglieva in un laghetto molto profondo, tanto da conferire all’acqua il caratteristico colore scuro. Essa simboleggiava la vita profana che il neofita doveva lasciarsi alle spalle. La seconda stazione riguardava un’altra fonte, detta di “acqua chiara”, dove il neofita doveva meditare ancora, ascoltando il gorgoglio delle acque che scaturivano dalla base di una roccia lavica e cogliendo nel loro “chiaccherio” la voce del divino, così come avveniva nel santuario di Dodona dell’antica Grecia, dove i sacerdoti Salii interpretavano la volontà divina ascoltando il rumore delle foglie di una quercia mosse dal vento. Le medesime caratteristiche si riscontrano nel tempio di Giove presso Terracina (Lazio).

Fonte acqua chiara.

Qui, furono create delle adeguate aperture attraverso cui il vento, sibilando, riproduceva la voce del divino opportunamente interpretata dai sacerdoti. Nella terza tappa, il neofita si recava presso gli scranni delle Muse, nove sedili intagliati in una grande roccia di arenaria, dove nove sacerdoti, ispirandosi a una delle nove Muse, avrebbero atteso e interrogato il futuro discepolo circa il messaggio divino colto nel gorgoglio delle acque. Se le risposte dell’aspirante allievo erano considerate idonee dai nove sacerdoti, il neofita era introdotto presso l’ara degli dei Palici, che rappresentava l’ultima tappa, dov’era celebrato un sacrificio di ringraziamento ai due gemelli divini. L’ara era costituita da due vasche comunicanti, intagliate nella grande roccia di arenaria che, come un’isola, emergeva dal greto del fiume.

THE VALLEY OF THE MUSEs
SACRED INITIATION
Scranni delle Muse.

The valley of the Muses is 3 kilometers from the residential center of Adrano and represents the sacred area outside the walls. The place name, the literary sources (Virgil, Aeneid, l. IX) the epigraph carved into the hard basalt which has been translated, suggest that the area was used by the priests as a place of worship in honor of the divine twins, called “Palici”, children of the god Adrano. It is assumed that it was the initiation place for neophytes.

Ara dei Palici, foto degli anni 60.

In this initiation procedure there were four stages. The first stage, where a spring of water called “dark” flows, was a place of meditation. The water sprang from the base of a lava rock ten meters tall and formed a deep lake. The lava rock gave the water its characteristic color and symbolized the profane life that the neophyte had to leave behind. The second stage concerned another spring of water, called “clear water” , where the neophyte had to meditate again, listening to the gurgling of the water, that came from the base of lava rock, and interpreting it as a divine voice as happened in the “Dodona” sanctuary, in Ancient Greece.

Ara degli dei Palici.

The “Salii” priests interpreted the divine will, listening to the sound of the leaves of an oak tree in the wind. The same features are in the temple of Jupiter in “Terracina” (Lazio). There were some appropriate openings through which the wind reproduced the divine voice. It was properly interpreted by the priests. In the third stage the neophyte went to the Muses benches, nine chairs carved out of a big rock of sandstone. Inspired by one of the nine Muses, nine priests waited for a divine message from the gurgling waters and questioned the future disciple. If the answers that this disciple gave were considered appropriate by the nine priests, the neophyte was taken to the altar of the gods “Palici” which represented the final stage where he was made to thank the divine twins. The altar was made of two connecting vats that cut out of the big sandstone rock which emerged from the riverbed like an island.

Francesco Branchina