Quando gli Arabi erano biondi e parlavano Tedesco.

Alcuni affermano che essi (i Celti)
nei tempi antichi fecero scorrerie
per tutta quanta l’Asia, chiamati
con il nome di Cimbri […] riscossero
tributi su un’ampia parte dell’Europa
e dell’Asia, e che si stabilirono
sulle terre dei popoli sconfitti.
Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, V, 32.

Il titolo del seguente articolo non vuole essere irriverente né provocatorio, ma, come è nel nostro stile letterario, in cui spesso si utilizzano frasi estrapolate dai racconti degli antichi storici, per entrare nel vivo del tema che si desidera affrontare, intende, quale unico fine perseguibile, allargare gli orizzonti della conoscenza attraverso la ricerca. In questo breve articolo vorremmo focalizzare l’attenzione dei nostri lettori sullo studio delle lingue antiche, parlate in aree geografiche considerevolmente distanti le une dalle altre e pur tuttavia riconducibili ad una ipotizzata  proto lingua comune o più semplicemente a prestiti linguistici. La riflessione che segue, ha preso lo spunto da un dibattito occorso tra noi e un gruppo di studiosi circa il significato da attribuire ad alcuni toponimi  siciliani. Il dibattito prendeva in considerazione l’ ipotesi dell’origine araba dei toponimi contrapposta all’ipotesi da noi sostenuta di una loro origine occidentale. Non escludevamo la possibilità che i lessemi componenti i toponimi, potessero essere stati mutuati dagli Arabi da un lessico occidentale portato in terra araba in tempi pre storici da migrazioni europee (Cimbri? Galati?), come si evince dai racconti di alcuni storici antichi che sotto elencheremo, e continuati ininterrottamente fino ai tempi storici. Infatti, ancora nel V secolo dell’era volgare i Vandali, popolo germanico, si insediava nel nord Africa ove creava un regno informandola della propria organizzazione sociale e della propria visione del mondo. Gli Arabi, che vi giunsero poco dopo, mossero per la Sicilia, proprio dal nord Africa. I Vandali, a loro volta, anche se per breve tempo, avevano preceduto gli Arabi in terra sicula. Il termine oggetto del dibattito era quello di “kalat” che in arabo significa castello. L’origine araba del nome era universalmente accettata dai nostri interlocutori, tranne che da noi, memori che dalle pagine dello storico Michele Amari, apprendemmo, quale indizio afferente al nostro ragionamento, che il primo presidio arabo in Africa, nei pressi di Susa, in Tunisia, venne realizzato su un piccolo castello romano che gli Arabi chiamarono “Kamunia” e non Qal’at. Inoltre, affermava lo storico siciliano nel suo dettagliato trattato, che i Bizantini, dopo le prime incursioni arabe nell’isola di Sicilia, innalzarono, a partire dal 753, a difesa del siculo territorio, castelli su ogni monte della Sicilia che si prestasse a tal uopo. Infine, lo storico siciliano, faceva cenno ad un presidio arabo che in lingua araba sarebbe stato chiamato ‘El-Kasr-el-Hedid ovvero “Il Castel di ferro”, che il nostro storico identifica con Gagliano e che, come noterà il lettore, non è presente il termine Qal’at. I nostri interlocutori, portavano a supporto della loro tesi, un modesto elenco di rinominazioni arabe di paesi siciliani quali Caltanissetta, Calatabiano, Calatino ecc. Facemmo notare che il toponimo Calatabiano attribuito agli Arabi, in mancanza di fonti epigrafiche, non era suffragata da certezze storiche, mentre proprio quello di Calatino, attraverso le nostre argomentazioni, avrebbe smentito le loro affermazioni essendo il toponimo, non solo presente anteriormente all’arrivo degli Arabi nella nostra isola, ma era talmente antico da poter essere attribuito alla cultura sicana. Infatti, è tipico dei primi abitatori di un determinato luogo apporre i toponimi  in base alle caratteristiche più evidenti che esso manifesta (il figlio di Erik il rosso, spintosi col suo drakkar dalla Groenlandia fino al centro America, chiamò Vineland il luogo in cui approdò, poiché vi trovò molte viti). Inoltre, tranne che per sporadici casi, si constati che la toponomastica rimane invariata nel corso dei millenni nonostante l’avvicendarsi, negli stessi luoghi, di popoli con culture diverse; è questo il caso degli idronomi Tigri, Eufrate; degli oronomi Caucaso, Peloritani, Alpi; dei toponimi Atene, Siracusa ecc. Facevamo notare, inoltre, che il significato del toponimo Calatino era traducibile, grazie al metodo da noi utilizzato che i lettori ormai ben conoscono e che riprenderemo sotto.

IL CALATINO: FORCHE CAUDINE DELLA SICILIA.

 Durante il dibattito, abbiamo esposto ai nostri interlocutori la consuetudine nell’onomastica romana, di apporre al generale vittorioso il nome del luogo conquistato (cognomen ex virtute), di cui quello di Scipione detto l’Africano è soltanto uno dei tanti esempi.

Il toponimo Calatino, con cui si designa ancor oggi un ampio territorio, del quale fanno parte oltre che alla città di Caltagirone quelle di Mineo e Palagonia, nei cui pressi insiste l’antichissimo culto degli dèi Palici rimasto in vigore certamente  fino al I sec. a. C., venne apposto come soprannome, nel 260 a. C., al console Aulo Atilio durante la prima guerra punica, per onorarlo della vittoria conseguita sui Siculi. Analizzando il racconto di T. Livio su come si svolse la battaglia  tra le legioni di Attilio e gli eserciti dei Siculi, si evince che il console era rimasto imbottigliato in una insenatura del Calatino sormontata da colline. La valle era dunque controllate dai Siculi grazie alle colline sovrastanti sulle quali erano state costruite le fortezze, fortezze che Diodoro Siculo chiama nel suo trattato Biblioteca storica, “castella”.

LA LINGUA DEI SICULI.

Dal momento che il toponimo Calatino è preesistente all’arrivo degli Arabi in Sicilia, documentato in epoca romana, e noi siamo propensi ad attribuirne il conio ai Sicani che, come affermato altrove, parlavano una lingua agglutinante, proprio come nel tedesco attuale, riconducibile al proto germanico, riteniamo che il toponimo sia formato dall’unione dei lessemi Kalla, acht, inna, che tradotto verbum pro verbo significa chiamare, azione, dentro. La libera traduzione da noi effettuata lascerebbe intendere che il luogo fosse stato scelto come il più idoneo per una chiamata a raccolta del prisco popolo siculo per condurre una azione bellica rivolta contro lo straniero invasore, il quale, in questa occasione, indossava la toga  romana, ma, in altra occasione, potrebbe essere stato incarnato dall’elemento greco e,  ancora in precedenza, da quello cretese come, ripercorrendo la storia, si evince dal tentativo perseguito da Minosse di conquistare l’isola, e chissà quanti altri popoli non documentati dalla storiografia antica, provarono con la forza, prima di questi, a mettere radici nell’atavico suolo siciliano.

DUCEZIO E LA LINGUA DEI SICANI.

Quanto affermato fin qui, farebbe emergere che il verbo protogermanico Kalla, chiamare, (si noti che in greco antico καλέω significa chiamare, fare venire, invitare, invocare [GI Loescher-Montanari]) nella sua accezione di chiamata a raccolta, afferente alla sfera semantica bellica, sarebbe diventato nel tempo un sinonimo di fortezza, un luogo in cui avveniva la chiamata alle armi o urlo di guerra, il kalat (il nome arabo khaled potrebbe derivare da Kalla gridare, ed essere stato apposto quale soprannome. Infatti, il condottiero arabo Khaled-ibn-Walid, come afferma lo storico M. Amari, “soleva correre per le file dei musulmani esortandoli” levando il grido di Akbar Allah). La fortezza naturale costituita da colline scoscese, di per sé di difficile accesso, venendo ulteriormente fortificata con opere architettoniche militari, diventava inespugnabile come nel caso di Monte Adranone, per la cui via perfino la potente macchina militare romana dovette arrestarsi. Abbandoneremo, a motivo della farraginosità dell’esposizione della tesi a cui saremmo costretti, il tentativo di spiegare la derivazione dal verbo Kalla del verbo siciliano calare, il quale  indica  un univoco procedere di qualcuno o qualcosa dall’alto verso il basso e che potrebbe essere ricondotto all’azione del discendere degli eserciti siculi dalle loro fortezze collinari, per soffermarci su ciò che riferisce Diodoro sulle operazioni belliche condotte dal grande condottiero Siculo Ducezio. Il Duce, che era nato nel Calatino, a Mene, l’attuale città di Mineo, come afferma Diodoro siculo nella seconda metà del V sec. a. C., rientrato dall’esilio in cui si era recato a causa della disfatta subita  dopo l’abortito tentativo di recuperare i territori siculi erosi dai Greci, fonda sulla costa tirrenica, in un territorio interamente siculo, nel quale la lingua parlata era il siculo, la città, ma sarebbe più esatto definirla fortezza, di kale’ Acte (se il nostro eroe siculo  avesse aggiunto al toponimo  l’aggettivo inna, avremmo avuto calactinna ovvero Calatino). Le caratteristiche del paesaggio dove Ducezio fonda la sua fortezza, sono simili a quelle del Calatino:  numerose colline difficilmente scalabili che si trovano a protezione della costa. Sulla base del toponimo apposto dal Duce alla sua fondazione, potremo spingerci a tentare la traduzione del toponimo Calatabiano, un borgo della provincia messinese, suddividendo lo stesso nei seguenti lessemi: Kale-acte-binden ovvero, avvalendoci della lingua proto germanica che, come già affermato riteniamo simile alla sicana e alla sicula, chiamata-azione-legare o stringere. Non può passare inosservata la descrizione che Diodoro nel libro V, 42 della sua opera, fa dell’Arabia: in essa molti erano i villaggi e le città costruite sulle colline, afferma lo storico di Agira. Kahl, nella lingua tedesca significa pure calvo, parete nuda, privo di foglie, termine che se si potrebbe adattare alle colline arabe, sarebbe inappropriato per quelle siciliane dove sorgevano i villaggi fortificati presi in esame in quanto la flora vi cresceva rigogliosa. Come si può notare, pur con trascurabili varianti lessicali, i toponimi riconducono ad una semantica afferente al concetto di azioni militari atte a liberare i territori atavici dagli invasori stranieri che, al tempo di Ducezio, assumevano le sembianze dei tiranni greci. Cercheremo adesso di comprendere se il termine sicano  kalat, possa essere passato dal vocabolario bellico occidentale a quello Arabo.

QUANDO GLI ARABI ERANO BIONDI

Gli Ittiti potrebbero essere considerati gli antichi progenitori degli attuali Turchi dal momento che li troviamo insediati in Anatolia fin dall’età del bronzo. Lo studioso  Hronzny, nel 1915, imbattutosi in alcune tavolette ittite scritte in cuneiformi, fu in grado di  tradurle avvalendosi dell’antico alto tedesco (ata). Infatti, l’archeologo noto’ che sulle suddette tavolette appariva inciso in caratteri cuneiformi il termine ‘ezzateni’. Non sfuggì al ricercatore la somiglianza del vocabolo ittita con il termine ‘ezzan’ dell’antico alto tedesco, corrispondente al tedesco moderno essen, mangiare. Si aggiunga al singolare ritrovamento di Hronzny che la Galizia, regione turca che deve il suo nome all’insediamento dei Galli nel III sec. a. C., mantenne  il galato quale lingua germanica  fino al IV sec. della nostra era. Non può ancora passare inosservato, che nel nord della Francia, sul punto più stretto del canale della Manica, luogo passato indenne dalla dominazione araba, vi è la cittadina di Calè che già i romani chiamavano Caletum. Lo storico greco Erodoto, V sec. a. C., a sua volta, ci mette a conoscenza che nella Persia assoggettata da Ciro, nel VI sec. a. C. vi era una regione abitata dai Germani. L’imperatore Augusto, sconfitta la regina Cleopatra, come afferma Giuseppe Flavio in ‘Antichità Giudaiche’, fa dono a Erode, della guardia personale appartenuta alla regina egiziana, formata da quattrocento Galli. Per motivi di sintesi rimandiamo i lettori al nostro saggio ‘Il paganesimo di Gesù’ fruibile gratuitamente nel sito miti3000. eu, per dimostrare le origini nord europee dei Filistei. E a proposito della Palestina, Diodoro siculo nel libro III, 42 fa riferimento ad una esplorazione del golfo arabico da parte di Marino Aristone inviato dal macedone Tolomeo generale del grande Alessandro. L’esploratore dopo aver elevato un tempio a Poseidone nei pressi del golfo che chiama Poseidone, incontra in Palestina la tribù dei Gerei cioè dei lancieri, dal germanico ‘ger’ lancia, come dimostrato nel saggio di cui sopra. Questa tribù, dall’evidente nome germanico, citata nell’Antico Testamento, è quella che darà il nome di Gerusalemme (ger-usa-lemm) alla città conquistata da Davide che prima si chiamava Gebusch ovvero cespuglio, boscaglia in tedesco. In Palestina in particolare, rispetto al resto della civiltà araba, la popolazione faceva uso di un lessico, come dimostrato nel nostro saggio, facilmente riconducibile alla lingua germanica, traducibile tenendo conto della funzione sociale svolta dagli individui o per le caratteristiche in loro più evidenti: l’appellativo battista, per esempio, apposto al noto profeta biblico, deriva dal germanico ‘bad’ bagno, con il significato di colui che immerge; Salomone da sal, sale, e mn, mente e infatti il re era noto per i giudizi che, quale giudice saggio, elargiva ai sudditi che si rivolgevano a lui per dirimere le loro controversie; si potrebbe continuare a lungo con gli esempi. Ancora, l’Arabia, fino all’avvento di Maometto era politeista. Quando i Musulmani conquistano l’isola di Rodi nel 650, vi trovano ancora intatta la statua di Apollo e il suo culto, statua che viene distrutta proprio in quella occasione. L’Amari, mette in evidenza che le prime incursioni arabe in Sicilia, arrivavano dal nord Africa in cui erano ancora evidenti i segni etnici e culturali delle genti germaniche che recentemente, sotto il nome di Visigoti, ma che gli Arabi chiamavano Franchi, l’avevano invasa. Si evince, dunque, dalle poche citazioni sopra riportate, che la presenza di popolazioni nord europee era continua ed espansa in Medio Oriente fin da epoche antichissime. Ci perdonino i lettori la tediosa digressione, ma essa è servita per rendere comprensibile quanto affermato dal più autorevole storico siciliano che studiò il periodo musulmano in Sicilia, Michele Amari. Lo storico afferma che nel VII secolo, quando gli Arabi iniziano la loro espansione verso l’ occidente, la penisola arabica era divisa in due “schiatte” parlanti due lingue: “l’una delle quali analoga all’arabo e l’altra no”. Lo storico, che per accedere direttamente alle fonti originali imparò la lingua araba, descrive poi la società beduina le cui norme sono sovrapponibili a quelle in vigore tra i clan del nord Europa che abbiamo imparato a conoscere a partire da Cesare e ancor più in epoca vichinga. Alla luce delle righe tracciate fin qui, crediamo non apparire peregrina la tesi secondo la quale alcuni vocaboli europei, kalat sarebbe uno di questi, possano essere  transitati nel lessico arabo per ritornare, leggermente modificati.

Ad majora.

Il Culto degli Antenati.

I millenni trascorsi hanno sovrapposto dei veli ai profondi significati nascosti del nome del dio Adrano che, come argomentato in precedenti studi, riteniamo identificabile con L’avo dei prischi Sicani in generale e degli Adraniti in particolare. Lo studio appassionato della storia avita, se unito all’ardore che collega i discendenti agli antenati, consente tuttavia di eliminare uno ad uno questi veli.

Il culto riservato agli Avi dai nostri antichi progenitori sopravvive ancora nel rito celebrato a Novembre. Fino alla precedente generazione esso si trasmetteva immutato nel suo profondo valore religioso. I nostri progenitori, esattamente come i Latini di due o tre millenni fa, accendevano delle lucerne sotto i ritratti degli avi, che erano perennemente collocati in un luogo vicino al focolare domestico, il davanzale del camino per i più abbienti: il fuoco fisico alimentava idealmente l’ardore che univa gli Avi agli eredi. Il legame tra gli uni e gli altri trapela dal concetto, espresso da Plutarco nella Vita di Camillo, di moto generazionale contenuto nel vocabolo gentes. L’etimo del termine, la cui pronuncia originaria era caratterizzata dal suono gutturale della consonante “g”, riconduce infatti al verbo gehend, di derivazione protogermanica, lingua comune a latini e Sicani della prima ora, col significato di andante. Sulla derivazione protogermanica della lingua sicana non diremo altro, avendo riservato all’argomento approfonditi studi nelle nostre pubblicazioni. Anche il lessema gene è riconducibile al verbo gehend, infatti il gene “va”, si trasmette cioè dall’avo all’erede, facendo rivivere in qualche modo l’Avo attraverso il discendente, non solo relativamente alla trasmissione degli aspetti somatici ma anche tramite il passaggio di quelli spirituali, conferendo in tal modo l’immortalità agli antenati. Non a caso il Romano definì il primogenito “figlio del dovere”, in quanto con tale concepimento il padre assolveva il suo compito nei confronti degli Avi, garantendo loro la sopravvivenza, il “cammino”; qualora poi non avesse potuto procreare avrebbe fatto ricorso, con divina intuizione, al sacro istituto dell’adozione, considerato come un innesto che, una volta attecchito, si sarebbe fuso con il corpo della pianta, rendendo impossibile distinguere la marza dal porta innesto.

Ma il grande miracolo, per noi uomini moderni, è che a distanza, forse, di sei mila anni, il lessema, riscontrabile anche nell’antico alto tedesco, anu/o, contenuto nel nome dell’Avo divinizzato, dell’avo primigenio (Adrano, Giano, Inanna, Nannar, Etana … ), continua a vivere nel vocabolo nonno (ahn in tedesco moderno), rappresentante per antonomasia dell’istituto più sacro che la società umana abbia mai spontaneamente concepito, la famiglia, la quale ha mantenuto il suo ruolo fino alla nostra era infausta, che sta per dare vita ad un nuovo ciclo cosmico, quello dell’acquario, che diluirà ogni sacra istituzione, facendo della stessa famiglia un ibrido, un mostro a due teste, con due padri o due madri. Nei giorni dedicati ai defunti, la cui festività cade nei primi giorni di Novembre, la tradizione voleva che si andasse al cimitero per fare visita ai nonni defunti. Questo periodo era inteso, in Sicilia così come in Scandinavia e nel mondo germanico, come il momento favorevole per creare un contatto con l’aldilà, per aprire una porta, un varco, uno stargate capace di collegare il mondo col sovra-mondo, il discendente con l’anu, il nonno per eccellenza, l’avo primigenio che, essendo in contatto con le forze del sovramondo, poteva intercedere a favore dei discendenti.

Il lessema Odhr  – che, unito ad ano, dà vita al nome del dio Adrano– era un attributo riferito all’avo stesso, definito “furioso”. Del resto un sacro furore, probabilmente a motivo delle leggi di ereditarietà, caratterizzò sempre gli Adraniti, già a partire da quel lontano 480 a. C., in cui essi, a fianco di Gelone, nella battaglia di Himera, con il loro coraggio ebbero un effetto propulsore nei confronti degli scoraggiati alleati greci, cambiando le sorti della battaglia; oppure quando, sostenendo il condottiero corinzio Timoleonte, cacciarono i tiranni greci dall’isola; ed in fine quando, purtroppo, alimentarono con un furore non più sacro il fenomeno del banditismo del dopoguerra, che vide negli Adraniti i più numerosi e carismatici aderenti.

L’eredità della lingua sicana, a sua volta riconducibile ad una primigenia lingua nord-europea o protogermanica, diffusasi successivamente, con le migrazioni, sino in area mesopotamica, sopravvive tutt’oggi, a motivo dell’utilizzo rituale e dunque immutato di tale lingua nel prestigioso tempio del dio Adrano, fino al 213 a.C. (data in cui il tempio viene chiuso dai romani al pubblico culto). Il lessema e il concetto di ninna nanna riportano infatti molto indietro nel tempo: con questa cantilena si invitava il neonato ad “entrare” nel mondo “dei nonni”, dal quale proveniva. Inna Ana è infatti traducibile in a.a.t. letteralmente con “dentro” – così da indicare una fase di compenetrazione del neonato nel mondo ultra fisico – e “Antenato”. Non è un caso se tra i Sumeri ritroviamo la dea Innanna, garante tra l’altro della fecondità, considerata, come il suo nome stesso indica, la custode dei valori ancestrali degli Avi, come la latina Vesta, detentrice del sacro fuoco che alimenta la stirpe, la “gentes”, gli Avi. La ninna nanna, νάνι νάνι in greco, Nani Nani in rumeno, aveva dunque alle origini lo scopo di indirizzare e condurre a buon fine il viaggio onirico del neonato, di farlo entrare in contatto con quel mondo, evocando l’ano.

Si noti che tale pratica è oggi riscoperta, per i suoi effetti terapeutici, anche in medicina. Si suggerisce infatti ai parenti di un individuo che riversa in stato di coma permanente di parlare col malato, evocando ricordi piacevoli della sua vita, provocando in tal modo il rientro dello spirito nel corpo. Una pratica simile è descritta nel Libro egiziano dei morti, scritto un paio di millenni prima della nostra era, in cui si suggeriva al parente prossimo del defunto di parlargli all’orecchio, onde guidarlo nel cammino dell’aldilà. Non è neanche un caso che il dio della luna sumero – e si noti che la luna è collegata all’attività onirica – si chiamava Nannar. A proposito di luna e di astri, ci piace far notare inoltre che gli Adhranhiti, cioè i sacerdoti del dio Adhrano, come i sacerdoti sumeri, gli Annunaki, non dovevano essere a digiuno delle scienze astronomiche. Lo testimonierebbe la numerosa simbologia ritrovata nel territorio di Adrano, incisa su manufatti come capitelli, arenaria e ceramiche.

Sono infatti numerose le incisioni che raffigurano stelle e soli a raggi nei pesetti da telaio; la croce potenziata è raffigurata in uno splendido phytos del III millennio a.C.; ancora una croce, sullo stile di quello utilizzato dai cavalieri di Malta, su un piatto del III millennio a. C.; il carro del sole e la spirale che rappresenta la forma delle galassie, sono incisi negli splendidi capitelli di duro basalto ritrovati nel sito del Mendolito posti su colonne ottagonali; in ultimo, la doppia spirale raffigurata in un’ansa del VII millennio a. C. che, con la sua forma ad otto riconduce alla legge dell’ottava e ripropone il concetto di infinito, indicando pure, con questo simbolismo universale, il respiro del mondo che identificava Adrano, sede dell’Avo, con il polmone dell’universo.

Ad majora.

Grecocentrismo: L’inganno delle fondazioni Greche in Sicilia.

“Si sappia che i Greci scrissero
le loro pagine di storia sulla materia
innalzando rotonde colonne di pietra,
i Sicani le scrissero sull’imperituro
spirito della propria stirpe”.

In questo articolo intendiamo approfondire quanto di non detto emerge dai racconti degli storici, loro malgrado. Primo tra tutti, esamineremo il trattato dello storico ateniese Tucidide. Perché lui? Perché il Nostro venne palesemente accusato da Dionigi di Alicarnasso di aver raccontato una storia che andava taciuta e che, implicitamente, Dionigi riconosceva, dunque, come veritiera per quanto scomoda, motivo per cui la utilizzeremo come fonte tra le più attendibili per il nostro scopo. Ma, è chiaro che bisogna saper leggere tra le pieghe del racconto dello storico ateniese il quale, avendo messo per iscritto la sua storia mentre era ancora in corso il conflitto, alcuni fatti accaduti sia nel campo militare, sia in quello politico, poiché avrebbero potuto compromettere la sua incolumità e quella di altri, vennero dal Nostro criptati.

Il rancore che Dionigi nutriva nei confronti dell’ateniese, era motivato dall’eccesso di amor patrio. Lo storico di Alicarnasso vedeva emergere attraverso il racconto di Tucidide, una Grecia piena di contraddizioni e di tratti poco nobili, i quali offuscavano la gloria dei Greci, alla cui crescita avevano contribuito i dialoghi platonici e la coerenza del pensiero socratico fino al sacrificio personale del secondo. Nella storia raccontata da Tucidide, gli eroi, che fino a quel momento avevano impersonato tutti i tratti dell’ideale greco: bellezza, eloquenza, fierezza rinvenibile nella gioventù di cui Alcibiade era l’esempio mitizzato, cadevano miseramente col racconto dell’ateniese in cui Alcibiade si trasformava nel traditore della patria e le città in preda ad un delirio egemonico rivelavano un cinismo (vedi il dialogo intercorso tra gli ambasciatori Ateniesi e i senatori dell’isola di Melo) che vanificava ogni insegnamento socratico. Quella del Peloponneso fu, dunque, una guerra che, oltre ad aver coinvolto il mondo allora conosciuto, poteva definirsi un conflitto fratricida, combattuto tra Greci; non solo emergevano in quel conflitto gli aspetti peggiori di una società che al tempo di Dionigi aveva fondato il proprio prestigio sugli aspetti più nobili dell’essere;  ma minava la stessa posizione della Grecia quale ombelico del mondo. In una Grecia così concepita, un greco, racchiuso nel proprio grecocentrismo, mai avrebbe riconosciuto alcun contributo culturale che gli fosse derivato da un popolo barbaro. Infatti, per quanto si affermi comunemente che i Greci siano gli iniziatori del pensiero occidentale, gli orientalisti sostengono invece che la loro filosofia sarebbe un derivato dell’Oriente. Sorvolando sulla constatazione che le condizioni più propizie si generarono nelle colonie greche dell’Asia minore, dal nostro punto di vista, non possiamo ritenere irrilevanti i continui viaggi di  Apollonio di Tiana nell’India, contemporaneo di Gesù, che come questi praticava miracoli, oppure le teorie di Pitagora sulla metempsicosi così vicine a quelle induiste. Erodoto, distante dalle posizioni prese successivamente da Dionigi, riconosceva, in ambito teologico, che i Greci avevano mutuato dagli Egizi l’uso di dare nomi alle divinità.

Ma torniamo ai fatti storici. Le informazioni che giungono da Tucidide, saranno per noi preziose in quanto convalidano le nostre prime intuizioni che, fin dall’inizio, si sono focalizzate sulla ricostruzione storica dei nostri prischi antenati, i quali apposero il primevo nome di Sicania e quello contemporaneo di Trinacria, all’isola ereditata dall’avo Adrano, capo della stirpe.

 La Verità Sulle Fondazioni Greche In Sicilia.

È lo stesso storico ateniese a metterci in guardia sulle falsità storiche canonizzate come verità assolute al suo tempo, affermando che: “ Né gli ateniesi né altri dicono qualcosa di esatto a proposito dei loro tiranni e degli avvenimenti passati”. Ad una affermazione così icastica nei confronti degli storici, fatta da un autorevole storico, fa eco colui il quale, come suo unico obiettivo ebbe la ricerca della verità su tutti i piani dello scibile umano, il filosofo Platone. Questi, nel “Minosse” con riferimento proprio al re cretese, di cui esisteva una versione che ne faceva un despota odioso ai Greci, sosteneva una versione opposta che lo voleva giudice buono e saggio nell’aldilà. Guai a colui che risulta inviso ai poeti; quest’ultimi  possiedono, infatti, il potere di condannare ad una pessima sorte anche i re, sosteneva appunto Platone. Per concludere, come già affermato sopra, ma vale la pena di tornarci, Dionigi di Alicarnasso rimproverava Tucidide che si era sottratto alla regola del silenzio e affermava che gli storici greci non dovevano raccontare ciò che non tornava a beneficio della reputazione greca.  L’atteggiamento omertoso della maggioranza degli storici greci, rimase sempre in vigore, tanto che perfino Diodoro di Agira, un Siciliano, che sicuramente non ignorava la cultura dei prischi Sicani ancora viva al suo tempo, compilando un enorme trattato che interessava la storia dei popoli della terra tra i quali gli Iperborei, rimase assai vago su ogni cosa che in Sicilia non avesse un’impronta greca; perfino sulla natura della massima divinità sicana, Adrano, non oserà soffermarsi quando il greco Timoleonte ne invocherà la protezione sacrificando al suo altare.

Senza il racconto di Tucidide avremmo dunque facilmente creduto che i Greci avessero fondato decine di città in un’isola, la Sicilia, che avrebbero trovata semideserta.

Le Fondazioni In Sicilia.

Nel libro VI di Tucidide si evince tutt’altra conclusione. I reperti archeologici ritrovati nelle pseudo fondazioni greche, inoltre, convalidano la tesi che esporremo più giù, in quanto la loro cospicua presenza dimostra una fitta e ininterrotta antropizzazione dell’isola fin dalla preistoria. Là dove sono assenti i reperti archeologici pre greci o dove scarsa fu l’indagine archeologica, tornano comunque sufficienti le fonti storiche, che da sole  provano la pre esistenza di città o villaggi Siculi nei luoghi di insediamento greco. Porteremo a prova di quanto sostenuto fin qui, ciò che viene affermato esplicitamente da Tucidide, in particolare nel libro VI della sua opera, al quale è possibile integrare le versioni di Strabone e Diodoro per avere una visione più esatta degli eventi.

Fondazione O Rifondazione?

Inizieremo questo capitolo portando l’esempio di come sia avvenuta la fondazione di Siracusa, le cui modalità possono essere applicate alla maggior parte delle  fondazioni greche. Tucidide, inizia il sesto libro della sua ponderosa storia affermando esplicitamente che i Greci si insediarono in un quartiere di Siracusa chiamato l’isola, ove i reperti archeologici testimoniano la ininterrotta presenza umana fin dalla preistoria, dopo aver respinto i Siculi che vi abitavano. Esaminando i fatti successivi, constateremo tuttavia che i Siculi espulsi da quel quartiere altamente strategico, di cui Cicerone nelle verrine afferma che un pugno d’uomini avrebbero potuto difenderlo contro un esercito, non solo rimasero a Siracusa, ma ne condizionano sempre la politica.  I Siculi, dunque, privati della supremazia politica rimasero all’opposizione, ma continuarono ad essere così influenti da far si che la loro cultura non fosse minimamente scalfita dai tentativi di sovrapposizione culturale greca se, ancora al tempo di Cicerone, questi può fare riferimento alle divinità sicule presenti a Siracusa, oggetto di pellegrinaggio da parte dei Siculi provenienti da tutta la Sicilia.

È tanto vero che i Siculi rimasero a Siracusa che essi vennero appellati alcuni Gamoroi, altri Kiliroi. Secondo la nostra ricostruzione storica la cui comprensione non può prescindere dal significato attribuito alla terminologia sicula, funzionale ad esprimere concetti altrimenti incomprensibili ed indicativi del ruolo sociale svolto da determinate categorie, (vedi l’articolo: “Jam akaram, la lingua dei Siculi” e “I Cilliri del Simeto), i Gamoroi erano quegli aristocratici moderati che si erano allineati alla politica del futuro tiranno Archia. Costui diverrà il primo tiranno della storia di Sicilia proprio perché dopo il suo volta faccia ostacolerà con la forza l’opposizione democratica sicula. È plausibile che alcuni aristocratici Gamoroi avranno fatto parte  delle istituzioni siracusane del III sec. a. C. Tra questi riteniamo farvi parte  Adranodoro, genero del successivo tiranno Gerone II e il cavaliere Soside suo contemporaneo, colui che aprirà le porte della polis ai Romani e probabile discendente di quel Soside che,  con i democratici suoi colleghi e concittadini, due secoli prima della caduta di Siracusa in mano romana, nel 405 a. C. aveva assediato nella sua reggia il neo tiranno Dionigi il vecchio, per poi fuggire in Medio Oriente quale mercenario al servizio di Ciro dopo che il tiranno siracusano ebbe ripreso il controllo sulla città.  L’altra categoria sociale sicula, che dovette giocare un ruolo di primo piano in chiave anti tirannica, e che, successivamente dovette trasformarsi in una temibile opposizione politica, fu quella dei  Kiliroi, ovvero dei portuali. La ribellione di costoro dovette verosimilmente innestarsi per ragioni  economiche, in quanto questi portuali vedevano pian piano vedersi sfuggire di mano il controllo marittimo a vantaggio dei nuovi arrivati greci. La ricostruzione fin qui esposta, che vede in  Siracusa una città già politicamente, militarmente ed economicamente importante fin dall’arrivo dei Greci, diventa plausibile se ci si sofferma su una anomalia, incomprensibile se vista dal punto di vista dell’orgoglio greco:  Archia, passato alla storia quale ecista di Siracusa, sarebbe un ecista sui generis poiché utilizzerebbe un toponimo barbarico per nominare la propria fondazione, “Sicher usa” (vedi l’articolo : “I Feaci e la rifondazione di Sicher usa”). L’apposizione di un toponimo non greco, rientrerebbe invece nella normalità se esso fosse stato apposto fin dalle sue origini sicane e Archia, dopo essere stato accolto nella reggia di Iblone quale esule, come abbiamo ricostruito attraverso l’articolo “I Feaci e la rifondazione di sicher-usa”, avesse brigato per accedere al potere, che successivamente avrebbe trasformato in tirannide, proprio per far meglio fronte all’opposizione sicula che non digeriva l’inganno subito.

Appare evidente che per la Siracusa appena fondata, tutta protesa a consolidare il potere politico e militare al suo interno, se è vero che al termine di tiranno dobbiamo dare il significato di una presa del potere con la forza, dunque privo dell’unanime consenso cittadino, sarebbe stato impossibile potersi dedicare subito alla fondazione di altre importanti città: settant’anni dopo verrebbe, infatti, fondata dai Siracusani l’importante città di Acre;  appena vent’anni dopo la fondazione di Acre  verrebbe fondata Casmene e ancora appena cinquant’anni dopo questa Camarina – si pensi che Salomone per costruire il famoso tempio impiegò sette anni e una forza lavoro di trentacinque mila lavoratori -. Ma la contraddizione maggiore che non regge la tesi della fondazione di colonie da parte di Siracusa,  si mette in evidenza quando si constata che i Siracusani saranno, quasi fin da subito, in perenne conflitto con le proprie colonie ove vi sarebbero dovuti essere, quali cittadini e inseriti nei gangli delle istituzioni, i propri figli e nipoti. Per comprendere chiaramente cosa i Greci intendevano per fondazione, basta citare Tucidide che affermava che Casmene era stata fondata per ben tre volte, due delle quali, la prima e l’ultima ad opera dei Siracusani, oppure Diodoro che, parlando di Jerone, lo ritiene fondatore di Catania soltanto perché il tiranno, una volta che riuscì a conquistarla ne deportò gli abitanti e le cambiò il nome in Etna.

Anche nel caso della fondazione di Naxos, identificata come prima colonia greca in Sicilia, i conti non tornano. Il perimetro delle mura cittadine racchiude, nel momento di massima espansione, un’area che non superò i trenta ettari, con una popolazione al suo interno stimata a non più di quindicimila individui di cui, quelli abili alle armi e ai lavori pesanti (come sopra affermato, Salomone per la costruzione del suo tempio dovette utilizzare trentacinque mila operai sfruttando un lungo periodo di pace intercorsa con i nemici esterni), non avrebbero dovuto superare le tremila unità; ebbene, gli storici greci accordano a Naxos  due successive fondazioni realizzate in tempi olimpionici: i Nassi, appena sei anni dopo lo sbarco in Sicilia avvenuto nel 753 a. C., costruita “dal nulla” la propria città, sarebbero stati nelle condizioni di fondare Catania e Lentini. Ma ciò che tradisce l’equivoco delle fondazioni attribuite ai Greci, consiste, come già sopra detto, nella anomalia della toponomastica. Pochissime città attribuite a fondazione greca conservano nomi greci. Appare altresì anomalo che fra l’etnos greco siracusano si noti la  presenza di una onomastica sicana che riguarda persone facenti parte degli organi decisionali della Polis: uno dei tre strateghi a cui è affidato il comando dell’esercito siracusano e dei suoi alleati, durante la guerra del Peloponneso, si chiama Sicano, a lui coevo ritroviamo quale tutore del giovane tiranno Geronimo, Adranodoro; Soside sarà colui che, oppositore democratico della tirannide, aprirà nottetempo le porte agli assedianti romani. Ma è ancora Tucidide a fornire le prove che all’interno della Polis più potente del Mediterraneo vi erano due forze politiche che, se non si equlibravano politicamente, di certo si contrastano a volte anche militarmente: quella dei Siculi da un lato, dei Greci dall’altro. Infatti lo storico ateniese afferma che alla fondazione di Imera avevano contribuito dei Siracusani (Gamoroi e Kiliroi ?) fuoriusciti a motivo di guerre interne. Tucidide contribuisce a consolidare le nostre tesi allorquando, nel libro VII della sua storia afferma che: “Anche a Siracusa vi era una fazione che voleva consegnare la città agli Ateniesi; gli aveva mandato messaggi (a Nicia) e non lo lasciava partire (per Atene)”.

 Tucidide, come abbiamo visto, semina qua e là porzioni di verità che, se messe assieme, fanno emergere non solo che la presenza sicula nella polis era stata continua a partire dalla pseudo fondazione effettuata da Archia, ma emergono gli aspetti politici democratici della posizione sicula. Infatti, tutte le città sicule libere, durante la guerra del Peloponneso appoggiano militarmente gli Ateniesi contro Siracusa.

Lo storico ateniese getta ancora luce sulla verità storica della Sicilia quando mette in bocca al più prestigioso tra i generali greci siracusani, Ermocrate, le seguenti parole: “Poche sono state le spedizioni dei Greci e dei barbari (in Sicilia) che abbiano avuto successo”. Probabilmente  Tucidide ripercorrendo con la mente la storia della Sicilia che vedeva vanificare il tentativo di Minosse di assoggettare la Sicilia, mentre lo stesso era riuscito  invece ad assoggettare non solo Atene, ma tutta l’Attica, intendeva alludere proprio al fatto che ben poche erano le reali fondazioni di città effettuate dai coloni greci.  Per comprendere le difficoltà in cui si incorre nel fondare una città, basta infatti scorrere le lunghe pagine in cui Tucidide ripercorre il discorso rivolto  da Nicia agli Ateniesi i quali, suo malgrado, gli intimano di apparecchiare quanto necessario per la spedizione. Lo stratega tenta, inutilmente, di sottrarsi all’impresa, proprio facendo riferimento alle difficoltà in cui si incorre nel tentativo di fondare con la forza, una città in terra straniera.

Ad majora.

Escursione didattica sul Monte Castello.

CALATABIANO 13-10-2019

Escursione didattica sul Monte Castello.

Intervento del rappresentante di Adrano Antica Francesco Branchina:

 

Signori buongiorno a tutti. Considerando i tempi ristretti a cui mi devo attenere per esporre quanto devo, salterei i convenevoli limitandomi ai ringraziamenti rivolti ai presenti e a tutti coloro che con il loro impegno hanno permesso la realizzazione dell’evento che si svolgerà in un paesaggio mozzafiato quale a noi appare il sito in cui venne edificato il castello di Calatabiano.

Oggi celebreremo la presenza dei Greci sul territorio dell’Alcantara e dell’Etna. Sulla cultura greca si è detto tutto ciò che c’era da dire, ritengo pertanto, che sia superfluo ricordare in questa sede quanto notevole sia stato il contributo  da essa fornito alla visione del mondo occidentale: senza Atene non ci sarebbe la democrazia; senza Socrate e Platone non ci sarebbero stati filosofi dello spessore di uno Schopenhauer e di un Nietzsche, nonché il pensiero filosofico in genere.


www.adranoantica.it

Tuttavia non possiamo sorvolare sul fatto che, i luoghi che calchiamo stamane e che emanano forze non meglio definibili, non spiegabili in termini razionali, che trasudano una religiosità primordiale  espressa attraverso il panteismo praticato dai nostri Avi, di cui il sito di pietra perciata, a 600 metri da qui ne è una delle tante testimonianze, furono abitati fin dai primordi da una civiltà pre greca, quella sicana. Stirpe, questa, religiosissima, che plasmò l’isola tutta di un’aura di sacralità la quale traspare anche attraverso il significato dello stesso etnico sicano, e ancora da alcuni toponimi quali Assoro, Eloro, dal nome del monti Peloritani ecc. che rimandano ad una semantica afferente alla sfera del sacro. Infatti, nella lingua sicana da noi decriptata, i su citati toponimi si riferiscono ai luoghi dell’ascolto, un ascolto non possibile da effettuarsi con organi anatomici; erano luoghi in cui si ascoltava la voce del divino, come si evince dal lessema “or” contenuto nei toponimi che significa, udito, ascolto, orecchio. Circa l’importanza del saper ascoltare anche Platone dedica le sue attenzioni  nella settima lettera.

Ma sulle conoscenze e sulla cultura possedute da questo vetusto popolo non mi dilungo oltre sperando, caro presidente Carmeni, prof. Tradito, ottimi organizzatori dell’evento e presidenti delle associazioni che hanno aderito al progetto Alcantara – Etna valley, che ce ne occuperemo presto in altra occasione. A noi interessa in questa sede, piuttosto, capire che cosa i Greci sopraggiunti nell’isola molti millenni dopo che questa era abitata dal primordiale popolo dei Sicani, abbiano  condiviso con i primi abitatori  e cosa, invece, li avesse divisi.

Delle divisioni, assai numerose e significative, ne parleremo in un’altra sede, certo è che  una cosa ebbero in comune la prisca civiltà sicula con quella greca: ebbero invisa la tirannide nonostante questa odiosa istituzione fosse stata esportata in Sicilia proprio dai Greci. Ed essendo essi l’origine del male, vollero, in pari tempo, essere gli inventori del rimedio. Pertanto, nel tentativo di salvaguardare la democrazia, gli Ateniesi idearono, quale antidoto alla tirannide, quella aberrazione  politica chiamata ostracismo, per cui non sapremmo dire se l’antidoto trovato fosse stato peggiore della malattia a motivo della ricaduta politica che causò. L’ostracismo era una modalità attraverso la quale si condannava qualcuno sulla base del semplice sospetto, e non per il reato effettivamente commesso. Un procedimento, questo, che farebbe inorridire i garantisti della civiltà odierna. La segnalazione avveniva nel corso di una assemblea pubblica, durante la quale i cittadini scrivevano su un coccio d’argilla, ostrakon, il nome di colui il quale si pensasse aspirasse alla tirannide. Sulla stessa lunghezza d’onda si posero i Siracusani che diedero il nome di petalismo alla medesima modalità attraverso la quale si esprimeva il giudizio: si utilizzava infatti una foglia d’ulivo anziché l’ostrakon, per scrivervi  il nome del sospettato (l’ulivo fu scelto, probabilmente quale simbolo universale di pace, utilizzato già da Ulisse recatosi alla corte del re Licomede). Il sospettato doveva lasciare la città per cinque anni, contro i dieci stabiliti in Atene. Mentre questa modalità rimase in vigore molto tempo nella polis greca, a Siracusa ebbe brevissima durata.

 

Un bel episodio vergato nelle pagine della storia siciliana che ebbe come scenario anche gli splendidi luoghi che stiamo calcando oggi, è stato ampiamente documentato da Plutarco con dovizia di particolari. In esso si videro Greci e Siculi battersi per la stessa causa. Accadde infatti che, (semplificando il racconto per esigenza di sintesi), i democratici Siracusani, con a capo lo zio di Dionigi il giovane, Dione, approfittando della breve assenza del tiranno, riuscirono ad instaurare dopo 50 anni di governo tirannico, un regime democratico nella polis più potente della Sicilia. Assassinato Dione, Dionigi, potente com’era, minacciava di riprendere le redini del comando, per scongiurare una tale possibilità i democratici Siracusani chiesero aiuto alcuni alla madrepatria Corinto, altri a Iceta di Lentini che fu subito abbandonato per aver manifestato le intenzioni di sostituirsi a Dionigi piuttosto che instaurare la democrazia.


www.adranoantica.it

A Corinto, un aristocratico tra i più in vista della Polis, viveva intanto in uno stato di limbo, e la sua presenza in città era causa di imbarazzo per la legislazione greca che teneva in alta considerazione il rapporto tra lo Stato e le divinità. L’aristocratico si chiamava Timoleonte, e da uomo integerrimo qual era, aveva contribuito a preservare, venti anni prima, la democrazia dalla possibilità dell’instaurarsi della tirannide, partecipando alla eliminazione fisica dell’aspirante tiranno (secondo Diodoro lo aveva ucciso di propria mano). Per un contributo del genere, normalmente si veniva innalzati agli altari della patria, se non fosse stato che l’aspirante tiranno era il fratello del nostro eroe, Timofane. Lo spargimento del sangue fraterno aveva dunque irritato le Erinni, custodi dei rapporti parentali e per questo il corinzio sarebbe dovuto essere condannato. La richiesta siracusana giungeva perciò quanto mai opportuna, per questo venne subito accettata. La partecipazione greca alla causa sicula, ad un’analisi più attenta, appare più simbolica che fattuale. Infatti, Timoleonte salpa per Taormina con appena 500 uomini raccogliticci dalle città di Corinto, Corciria e Leucade, – come si potesse pensare di abbattere la tirannide più consolidata dell’occidente e sconfiggere l’esercito siracusano che appena sessantacinque anni prima aveva affondata la flotta ateniese e battuto il numeroso esercito durante la guerra del Peloponneso con un così esiguo numero di opliti non ci è dato sapere-. Comunque sia, a Taormina il corinzio venne accolto a braccia aperte dal principe siculo Andromaco. La cittadina siciliana appronto’ un piccolo contingente armato di tutto punto grazie all’apporto di uomini provenienti dai villaggi siculi dipendenti dalla città stato di Taormina, tra le quali, mio ottimo Gaetano Tradito, vi era verosimilmente anche Calatabiano, tua Patria. Così con i 700 uomini raccolti si raggiunse un totale di  1.200 soldati, ancora troppo pochi per tentare di sconfiggere la città più potente del Mediterraneo. A capo di questo piccolo esercito l’eroe si recò nella città sicula di Adrano, tappa obbligata, dove c’era il tempio nazionale del dio eponimo, per rendergli onore e acquisire l’investitura di Duce secondo il costume dei Siculi. (I fatti accaduti nella città di Adrano durante il soggiorno dell’eroe con il suo contingente pluri etnico, integrati con altre fonti, ci hanno indotto a rielaborare la storia della Sicilia sicula che risulta ben diversa da quella canonizzati. Spero che potremo presto, come affermato prima, avere l’occasione di condividerla). Adrano era il centro di una anfizionia creata con il contributo degli eserciti delle città che si riconoscevano nel culto dell’Avo divinizzato Adrano. Solo così si può comprendere l’affermazione di Diodoro che recita: “Timoleonte, fattosi forte dell’esercito fornito dagli Adraniti, si volse contro i Cartaginesi”. Infatti, l’anfizionia adranita, sul modello di quella di Delfi che condusse ad una guerra sacra nei confronti dei Focesi che si erano impossessati dei territori sacri, intraprese una guerra di liberazione sia delle tirannidi greche che affliggevano molte città, che dei territori siculi caduti sotto le mire dei Cartaginesi. Così,dunque si rese possibile la cacciata dei tiranni dalle città dell’isola e da Siracusa soltanto dopo appena cinquanta giorni dallo sbarco a Taormina. Sono convinto, grazie all’incrocio delle fonti storiche che ho consultato, che dalla operazione siciliana, Corinto traesse enormi ricchezze, – molta della preda bellica strappata ai Cartaginesi infatti, come afferma Diodoro, veniva inviata nella patria di Timoleonte mentre ai confini della Grecia  si ammassavano le truppe di Filippo il macedone fino a quando a Corinto, nel 337 a. C., si formerà la lega panellenica a guida macedone contro il gran re di Persia. Nonostante gli sforzi per il recupero della democrazia, purtroppo va constatato che  i Greci di Sicilia non persero il vizio di farsi tiranni e appena venti anni dopo la anelata libertà imposta con le armi sicule, nel 317 a. C., ecco ripresentarsi a Siracusa l’odiato istituto della tirannide che assume le sembianze di Agatocle.

 

Bene! Signori ho concluso il mio intervento. Vi ringrazio per l’attenta partecipazione e alla prossima, nella quale rileggeremo la storia nascosta tra le pieghe dei racconti pervenuti dagli storici greci antichi.

Sicania o Trinacria?

IL RICERCATORE.

Lo storico, il ricercatore, lo studioso operano su dimensioni atemporali, portano alla luce ciò che è sepolto, nascosto, celato. A loro è affidato un compito che non tiene conto delle contingenze sociali favorevoli o sfavorevoli; essi vengono dal passato, ne raccolgono le reliquie e le propongono a quanti sono loro simili. A questi ultimi è diretto ogni loro sforzo.

 

TRINACRIA E SICANIA.

Il nome di Trinacria riferito alla Sicilia, se dovessimo dare credito alle informazioni che  Tucidide ottenne, probabilmente da storici isolani, fu anteriore a quello di Sicania. Tuttavia, i Sicani si consideravano autoctoni, continua lo storico ateniese, e noi siamo propensi a crederlo a motivo del significato dell’etimo sicano che, utilizzando il metodo interpretativo ormai conosciuto dai nostri lettori, significa gli eredi dell’Avo, cioè Adrano. Di conseguenza, essendo il dio  Adrano la divinità nazionale, non potrebbe essere apparsa che con l’apparire dei primi abitatori della Sicilia, appunto i Sicani. Considerando che il toponimo Trinacria è pre ellenico, la conseguenza delle affermazioni su esposte, condurrebbe alla deduzione secondo la quale entrambi i toponimi furono coniati dai Sicani per dare allo stesso territorio  due significati diversi: uno d’ordine politico geografico, l’altro religioso. Con il toponimo Sicania, a nostro avviso, si intendeva far passare il monito che, quella che ora chiamiamo Sicilia, era un territorio di cui i Sicani erano legittimi proprietari per diritto di ereditarietà, mentre con il toponimo di Trinacria, si voleva verosimilmente specificare che quel territorio, a forma di triangolo, racchiudeva potenti forze, lì deposte direttamente dalla divinità, come diremo più sotto.

Ma per penetrare meglio il significato del toponimo Trinacria, dobbiamo ripercorrere un po’ di storia ricorrendo alla narrazione dello  storico siciliano Diodoro di Agira, riportando lo stralcio di un nostro precedente articolo.

“La città di Trinacria”, scrivemmo allora, “ nel racconto dello storico agirese Diodoro, sorge e sparisce in un batter d’occhio, dopo aver compiuto imprese titaniche; ciò induce a pensare che Diodoro, di etnia e cultura greca, avesse mal compreso il valore simbolico e semantico racchiuso nel toponimo sicano di Trinacria, con il quale non veniva indicata una città ma piuttosto una lega, dal carattere sacro, stipulata da tre città o territori o anfizioni, che si configuravano come centri di forza, potenze spirituali, come fa pensare anche il nesso consonantico “kr”, contenuto nel nome Trinacria, che in antico germanico significa “forza, potenza”, punto di rottura.

Tale lega, d’ordine religioso-militare, nata al fine di osteggiare l’avanza anti tradizionale dei Greci, fu stipulata, a nostro motivato parere, dalle tre città siculo-sicane detentrici della tradizione degli antenati. I territori delle tre città avrebbero dovuto riprodurre in terra sicula la triade divina Adrano-Etna-Palici ossia padre-madre-figli. Il nome Trinakria, ripreso dai tre principi-sacerdoti addetti al culto della famiglia divina, dovette indicare perciò, nel periodo storico in cui Diodoro Siculo colloca il suo racconto, cioè il V sec. a.C., non una città, nominata peraltro soltanto dallo storico agirese, ma piuttosto una porzione di territorio consacrato alla causa anti greca e compreso all’interno dell’area triangolare delimitata dalla perduta città di Erbita\Erbesso (sita tra Enna ed Agira e vicina all’attuale città di Assoro, forse in prossimità di Leonforte), Adrano e Palikè”. Avanziamo l’ipotesi che, a nostro modo di vedere, nel toponimo Trinacria si nasconda in realtà,  la volontà di mettere in atto una pratica magico religiosa I cui effetti scaturiscono dalla potenza racchiusa proprio nel  significato del toponimo.

SIGNIFICATO DEL TOPONIMO.

Il toponimo Trinacria, infatti, potrebbe fare riferimento ad una città ideale, invisibile, depositaria e custode di forze extrafisiche, la città di Dio o dell’Avo divinizzato (An). Pertanto, se abbiamo visto giusto, il toponimo sarebbe composto dall’unione dei lessemi “TRI”, tre, “AN” con il significato di Dio e “KR” con il significato di forza applicata in un punto fino alla rottura (da cui l’onomatopeico crak, crepa). La traduzione del nome Trinacria da noi proposta, liberamente traducibile con “Le tre potenze di Dio” o dell’ Avo, trae spunto anche dalla constatazione della fervida religiosità con cui si esprimeva il popolo sicano guidato dal principe sacerdote Ducezio, affiancato da un altro Titano della storia isolana, il principe sacerdote Arconide (vedi articoli:  Gli dèi Palici e le sacre sponde del Simeto, e, Alesa, da Vercingetorige ad Arconide), citato da Diodoro e celebrato anche dallo storico Tucidide. Il ricorso a pratiche di ordine magico religioso a cui abbiamo fatto cenno, faceva parte della consuetudine nel periodo da noi preso in esame non soltanto in Sicilia, ma tutte le civiltà vi facevano ricorso. Ci si ricordi della “Evocazio” messa in atto dal generale  romano Camillo affinché la dea Giunone abbandonasse la protezione che aveva accordata alla città etrusca di Veio, per rivolgere il suo favore al popolo romano che l’assediava senza alcun risultato da dieci anni. Ma se Giunone cedette  alle lusinghe romane, la città dell’Avo, Trinacria, fu intransigente con il senso del dovere nei confronti delle ataviche tradizioni e preferì immolarsi al nuovo corso degli eventi.

Ad majora.

Comunicato stampa

Calatabiano: testimonianze greche

Brochure

Domenica prossima 13 ottobre alle ore 10,00 si concluderà a Calatabiano l’evento “I greci nella valle Alcantara e nelle terre dell’Etna”, la settima e ultima tappa dell’itinerario sarà organizzata dell’Associazione Culturale Trinacria diretta da Gaetano Tradito, in collaborazione con la società “Castello di Calatabiano srl”, rappresentata dalla dott.ssa Giusy Bosco, amministratore unico della società che gestisce il Castello. È stato possibile realizzare l’itinerario grazie a un protocollo d’intesa siglato dalle 11 associazioni che hanno aderito al progetto “Welcome to Alcantara valley – Etna”, ideato dal prof. Giuseppe Carmeni. L’evento gode del patrocinio: del Parco archeologico di Naxos Taormina, del Parco Fluviale dell’Alcantara, del Parco dell’Etna, della candidata Riserva della Biosfera UNESCO delle valli fluviali dell’Etna, della Curia di Acireale e dei Comuni di Adrano, Bronte, Calatabiano, Francavilla di Sicilia, Giardini Naxos, Maletto e Randazzo. Sarà una passeggiata archeologica alla ricerca delle tracce lasciate dalla cultura ellenica, lungo il percorso gli ospiti incontreranno autorevoli studiosi che renderanno visibile l’invisibile e personaggi storici in costume antico che guideranno i visitatori in un viaggio fantastico nel tempo alla scoperta dei greci. L’itinerario non è difficoltoso ma si consiglia però un abbigliamento adeguato con scarpe comode, il percorso è di 600 metri circa, con un dislivello di 160 metri. Il raduno è previsto in via Alcantara presso il parcheggio del Castello di Calatabiano. Dopo i saluti istituzionali, la visita inizierà dal nuovo Antiquarium dove la dottoressa Maria Teresa Magro, funzionaria della Sovrintendenza dei Beni Culturali e Ambientali di Catania, illustrerà la memoria materiale rinvenuta nelle campagne di scavo condotte nell’area del Castello. Durante la salita al Castello è prevista una sosta nella chiesa del SS. Crocifisso, il monumento sarà presentato dal presidente Gaetano Tradito, gli studiosi Salvatore Rizzeri e Francesco Branchina faranno una breve dissertazione rispettivamente sugli antichi popoli della valle Alcantara e sulle imprese compiute da Timoleonte di Corinto in Sicilia. Prima dell’arrivo al castello il prof Giuseppe Carmeni parlerà dell’origine del nome di Calatabiano, anche se molti pensano che sia di origine araba Kalaat-al Bian che significa (Rocca di Biano), ma Biano, come afferma l’architetto Daniele Raneri, è un nome proprio greco. Secondo la mitologia greca era uno dei nove Cureti che hanno protetto l’infanzia di Zeus. Biano ci condurrà in modo ideale sull’isola di Creta, la dove esisteva una importante polis di nome Biannos. Le sorprese non finiscono qui perché i visitatori incontreranno anche il famoso poeta ellenistico Callimaco di Cirene, una sacerdotessa di Zeus e Pietro Rizzo, il noto studioso di Naxos di fine ottocento, i personaggi saranno interpretati dagli attori Francesco Papa, Sara Pulvirenti e Giovanni Bucolo del laboratorio cinematografico e teatrale Naxos Entertainment. La passeggiata si concluderà in cima alla collina di Calatabiano, dove ad attendere gli ospiti ci saranno l’architetto Daniele Raneri, profondo conoscitore del castello e il naturalista Enzo Crimi, già commissario del Corpo Forestale della Regione Sicilia, il quale racconterà il paesaggio e la natura della foce dell’Akesines, l’attuale fiume Alcantara, nell’età greca. Si ricorda che la visita guidata e drammatizzata è gratuita, si pagherà solo l’ingresso al castello € 3,00, vi aspettiamo numerosi per riscoprire le nostre antiche origini e la nostra identità culturale.

Giardini Naxos 04.10.2019

Il coordinatore dell’evento “I greci nella valle Alcantra e delle terre dell’Etna”
Prof. Giuseppe Carmeni

Timoleonte: un greco sotto la protezione di un dio sicano.

“In quel tempo (Timoleonte) se
la passava tra gli Adraniti in garanzia
del Nume (Adrano)”
.
Plutarco, Vita di Timoleonte.

Fa spece constatare che a interessarsi di un evento storico così importante, quale è stato quello che vide una guerra di liberazione delle città sicule, dalle tirannidi da cui erano vessate, sia stato un greco d’oltremare, Plutarco, piuttosto che un greco di Sicilia. Diodoro, storico che ebbe i suoi natali ad Agira, città della provincia di Enna, nella sua corposa Biblioteca Historica dedica pagine e pagine alle mitiche storielle dell’Asia, alla regina Semiramide, alle Amazzoni e al mito di Eracle, e sorvola, quasi, su episodi decisamente significativi per la storia isolana quali furono I fatti riconducibile al 344 a. C., eventi che videro protagoniste prestigiose città della Sicilia. Tocca dunque a noi, seppur distanti millenni dai fatti storici di cui tratteremo, leggendo tra le righe del racconto plutarcheo, il compito di tentar di fare chiarezza su ciò che è stato omesso  o non sufficientemente chiarito, intorno ai fatti salienti di quel momento decisivo della politica isolana. Nel corso della tentata ricostruzione che faremo dei fatti e dei luoghi citati da Plutarco, vanno considerati tre aspetti fondamentali: lo storico greco non conosceva il luogo ove si svolsero i fatti da lui raccontati; mise per iscritto i fatti da lui raccontati quattro secoli dopo che questi si erano svolti; gli premeva mettere in evidenza più le gesta dell’eroe suo connazionale che le vicende siciliane.

Timoleonte a Taormina.

La componente sicula dei  killiroi (Cilliri) e dei Gamoroi –  vedi l’articolo –  che non era scomparsa dopo il colpo di stato perpetrato da Archia, ospite del magnanimo principe siculo Iblone nel 723 a. C., ma era stata relegata all’opposizione politica dopo la presa del potere di Archia, approfittando del momento politico favorevole, chiese alla città di Corinto, città che come altre poleis greche aborriva l’odioso istituto della tirannide, di inviare un contingente di uomini in soccorso dei democratici di Siracusa che si opponevano all’inviso Dionigi il giovane il quale, seppur migliore del padre e in odor di filosofia, rappresentava pur sempre, l’emblema della tirannide. Il senato corinzio si trovava da anni in un grande imbarazzo poiché, come racconta Plutarco, il rampollo di una delle famiglia più in vista della città, se da un lato aveva salvato Corinto dall’istituto della tirannide, contribuendo ad eliminare il responsabile del tentativo di instaurarlo, dall’altro era incorso nel delitto familiare, essendo l’aspirante tiranno proprio il fratello. L’ambasciata siciliana arrivava dunque quanto mai opportuna; nessun uomo meglio di Timoleonte poteva essere garante della democrazia e, inviandolo in Sicilia, Corinto si sarebbe liberata di un peso. Giunto in Sicilia, la prima città che accolse il condottiero corinzio fu la sicula Taormina governata da Andromaco, considerato il primus inter pares secondo le democratiche istituzioni sicule.

Alla volta della sacra città di Adrano.

Timoleonte però, per essere dichiarato la guida di una coalizione di città, aveva bisogno dell’investitura ufficiale di ‘Dictator‘. Questa investitura, che doveva avvenire attraverso il rito della consacrazione, (vedi l’articolo “Gli dèi Palici e le sacre sponde del Simeto. Ducezio principe e sacerdote) poteva avere valore soltanto se sancita nella città “sacra”, come la definisce Plutarco, di Adrano e poteva essere conferita al Duce soltanto dal pontefice massimo responsabile del culto tributato al capo della stirpe dei siciliani, Adrano, ovvero l’avo primordiale. Purtroppo vi era un piccolo problema: la città di Adrano, in quel momento era sotto l’influenza politica di Siracusa la quale, nell’acropoli, aveva installato una propria guarnigione militare. Tuttavia il contingente  siracusano formato da molti mercenari campani pronti a vendersi al migliore offerente, fu facilmente debellato e Timoleonte poté entrare in città sotto i  migliori auspici. Il primo atto del condottiero, una volta accolto nella città sacra, fu quello di rendere onore al dio Adrano che, secondo l’interpretazione degli auguri adraniti e della stessa convinzione del corinzio, lo aveva aiutato durante lo scontro col nemico svoltosi presso le mura della città di Adrano.

Il tempio del dio Adrano o l’ara degli dei Palici?

A questo dilemma ci sottopone il racconto plutarcheo circa il luogo dove sia avvenuta l’investitura del condottiero. Il motivo per cui ci soffermiamo su un particolare che ad una superficiale analisi potrebbe essere considerato irrilevante, è dovuto al fatto che, chiarendo questo episodio, si potranno meglio comprendere la concezione del sacro, le istituzioni politiche e l’etnia di appartenenza della prisca stirpe dei Sicani, primi abitatori dell’isola. Naturalmente, soltanto ad un ricercatore che abita e conosce  le nostre contrade può essere concesso di cogliere le piccole incongruenze del racconto plutarcheo, che, se da un lato nulla tolgono e nulla aggiungono alla bontà del racconto, dall’altro lasciano, se chiarite, meglio interpretare, come sopra affermato, gli aspetti del sacro che caratterizzarono il vetusto territorio adranita. Siamo certi che nella parte del racconto in cui si fa riferimento all’investitura militare e alla consacrazione di Timoleonte,  lo storico abbia fuso in uno due episodi svoltisi in luoghi e tempi diversi. Probabilmente i due diversi riti celebrati per imprimere i crismi della sacralità e, dunque, di una guerra santa condotta dal “Dux” consacrato, si svolsero in due aree sacre diverse: una si trovava dentro le mura, ed era quella ove insisteva il tempio del dio Adrano, l’altra si trovava fuori le mura presso il fiume Simeto, ove insisteva l’ara degli dèi Palici. Nella prima, a nostro avviso, si svolse la consacrazione del guerriero che diventava il braccio armato del capo della stirpe sicula, nella seconda avveniva l’investitura politica e il riconoscimento di Dux da parte dei rappresentanti delle città che partecipavano alla missione di liberazione dalle tiranidi.

L’ara degli dei Palici

Siamo giunti a queste conclusioni sulla base dei precedenti studi, pubblicati su diversi siti che si occupano della materia e su saggi gratuitamente fruibili, studi che ci hanno indotto a ritenere nord europee le origini  del popolo sicano. Tali origini, come spiegheremo sotto, risulteranno congrue con le prassi tradizionali sicule che emergono dal racconto dello storico di Cheronea nella “Vita di Timoleonte“. Descrivendo fin nei particolari l’attentato che il Duce avrebbe dovuto subire durante la sua investitura, ad opera di due prezzolati sicari venuti da Lentini, per fortuna sventato da un terzo Lentinese, lo storico di Cheronea afferma che quest’ultimo, dopo aver calato un fendente sul capo dell’ attentatore, salvando involontariamente la vita a Timoleonte, salì su un’alta rupe che era li vicino e si strinse all’ara, (l’ara era dunque all’aperto) chiedendo la protezione degli dèi e di poter raccontare il motivo della sua azione.

Ara dei Palici

Non solo risulta difficile immaginare un’alta rupe accanto al tempio del dio Adrano, edificio che doveva essere stato edificato in un ampio spazio e che la tradizione orale vuole trovarsi nel luogo ove attualmente sorge la Chiesa Madre, anzi, le dodici colonne della navata, secondo la stessa tradizione, sarebbero ciò che resta dell’antico tempio (vedi l’articolo: “Dove è finito il tempio dell’Avo Adrano?), ma chi ha visitato l’ara degli dèi Palici, formata da un grande masso di arenaria che si trova sul greto del fiume Simeto, non ha difficoltà ad immaginare la scena raccontata da Plutarco svolgersi proprio in quel luogo.

A quanto fin qui sostenuto, si aggiunga il particolare, non poco trascurabile, in cui lo storico afferma che l’uccisore del sicario si strinse all’altare e da questo inviolabile luogo invocava l’immunità. Questo particolare ci riporta a quanto afferma Diodoro nella sua Biblioteca Historica. Nel capitolo in cui lo storico di Agira descrive il rito e l’architettura del tempio dei Palici di Palagonia, emerge che presso il tempio degli dèi Palici trovavano rifugio i servi che fuggivano dai padroni e i malfattori che cercavano l’immunità. Plutarco continua il racconto della vita di Timoleonte affermando che, alcuni astanti sosteneva che era vero quanto affermava  l’omicida andava circa le motivazioni del suo gesto. I dettagli messi in evidenza da Plutarco e da noi raccolti, ci riportano all’idea che nel luogo ove avvenne il mancato attentato, vi era in corso una assemblea e che questa si stava svolgendo in un ambiente all’aperto, in uno scenario agreste dove non mancavano rupi e dove era possibile che gli astanti fossero armati e schierati. La presenza, in questa occasione, di molti partecipanti venuti dalle città vicine, cui fa riferimento Plutarco, ci induce a immaginare che la scena descritta dallo storico, sia quella dello svolgimento di un’assemblea passata alla storia col nome di simmachia ovvero la coalizione delle città libere della Sicilia, qui riunite in arme per acclamare il ”Duce” e seguirlo nell’impresa che prevedeva la cacciata dei tiranni e dei Cartaginesi dall’isola. Un ulteriore indizio ci induce a credere che nel formulare questa possibile ricostruzione siamo nel giusto. Questo indizio prende corpo dalla tesi secondo la quale la cultura sicana trae le sue radici da quella nord europea. Se fosse così, allora si vedrebbe una origine comune con i riti d’investitura che si svolgevano presso i popoli del nord Europa. In Svezia, per fare un esempio, territorio in cui abbiamo trovato sostanziali affinità con l’antica cultura sicana (vedi il saggio “dalla S(I)cania alla Sicania) i re si recavano nella prateria di More, presso la città sacra di Upsala. Qui, in una valle, vi era una grande roccia nella quale i re salivano per ricevere l’investitura ed essere acclamati dal popolo in arme rumoreggiante.

Il tempio adranita a Siracusa (?).

Poiché gli storici greci avevano il vezzo di non mettere troppo in evidenza la cultura degli autoctoni, e Plutarco non fa eccezione, non potendo fare a meno di omettere che Timoleonte si ritenne un protetto del dio Adrano che per ben due volte, nei pressi della città eponima, gli aveva mostrato la sua protezione, afferma che, divenuto signore di Siracusa, fece costruire presso la sua reggia, un tempio dedicato alla divinità sicula che Plutarco genericamente definisce Fortuna, la quale, come detto, lo aveva protetto fin dal momento in cui aveva messo piede nel territorio dell’Avo primordiale, Adrano. Senonché, duecento anni dopo la presa di Siracusa da parte degli alleati, ritroviamo quale genero del tiranno siracusano Gerone II, un certo Adranodoro. Questi, per dignità, come afferma Tito Livio nella storia di Roma, era secondo soltanto al tiranno. Non si fa perciò fatica ad immaginare quale carica potesse ricoprire Adranodoro nella polis più potente dell’isola: era il pontefice massimo. Dal momento che gli Adraniti fra gli altri, seguirono Timoleonte a Siracusa, è plausibile immaginare che vi fossero sacerdoti Adraniti addetti al culto che si svolgeva nel tempio che Timoleonte aveva fatto erigere preso la sua reggia. Ma uno con il nome di Adranodoro, non poteva essere che il ministro del culto esercitato nei confronti dell’Avo Adrano. Altri indizi ci portano a formulare la tesi testé sostenuta: appena cinquant’anni dopo la morte di Adranodoro, Cicerone, che ben conosceva la Sicilia per essere stato pretore e che proprio a Siracusa aveva soggiornato, ci fa sapere attraverso il famoso processo intentato a Verre, che I Siculi dei paesi limitrofi si recavano a Siracusa per rendere onore ad un dio chiamato Urio, divinità ‘antichissima’ che gli isolani avevano in grande onore e che la statua, trafugata successivamente da Verre, aveva la posa di guerriero, tanto da essere definita, in un altro passo del processo, statua di Giove imperatore. Era questa, a detta di Cicerone, uno dei  tre esemplari che rappresentavano la medesima divinità, più “antiche” del mondo. Ora, non si fa fatica a realizzare che l’aggettivo Urio fosse riferito ad Adrano. Infatti Ur, nella lingua germanica, lingua che secondo la nostra tesi era parlata dai Sicani (vedi l’articolo “jam akaram, la lingua dei Sikani“), significa antico, primordiale, mentre il sostantivo Ano che segue l’aggettivo odhr (furioso) , nella stessa lingua significa Avo, antenato, dunque antico.

Ad majora.

Sulle tracce dello Sciamano: Rifugio Cassataro

“Cantami o Musa, degli uomini che vissero in questa valle e attinsero da essa le primordiali forze che il lavico suolo ancora potenti riverbera”. Inizierebbe forse così una ipotetica ricostruzione di vita quotidiana dell’uomo del neolitico, l’Omero che mancò ai prischi Sicani abitatori delle sponde del Simeto, fiume della Sicilia orientale che sulle sue rive ospita antichi luoghi di culto ancor visibili seppur nascosti. La presenza di dolmen, pitture rupestri, spirali megalitiche, altari intagliati sul masso e, ancora, laghetti, cascate, pareti a strapiombo che fanno da argini naturali alle furiose acque del fiume nei piovosi mesi d’inverno, sembrano aver cristallizzato un paesaggio che non è mutato negli ultimi diecimila anni.

Riparo Cassataro. La parete di destra è quella in cui vi sono le pitture in ocra rossa.

Il seguente articolo, necessariamente poco scientifico per la tematica trattata, più che proporre al lettore nuovi indizi che possano testimoniare la bontà delle tesi spesso da noi sostenute intorno alla religiosissima ‘gens’ sicana, come tradisce il significato che abbiamo attribuito al nome Sicano (sich-ano, tradotto verbum pro verbo equivale a se-avo, liberamente traducibile con ‘colui che è consustanziale all’ avo’, che ne è l’erede legittimo), ha natura speculativa, raccogliendo emozioni e intuizioni dovute, probabilmente, allo stato di empatia in cui ci si ritrova venendo a contatto con il territorio della contrada Picone nel quale  insiste il riparo Cassataro. Poggiando le mani sulle pitture parietali e il cuore sul paesaggio circostante, capita all’osservatore di dismettere gli abiti dell’uomo tecnologizzato per indossare i panni dello sciamano che si immagina aggirarsi col suo tamburo in questo luogo, supponendo nel contempo, che a lui vadano attribuite le pitture sulla parete di arenaria come esposto nel precedente articolo: ” Lo sciamanesimo. Il neolitico tra Etna e Simeto” .

Edicola votiva con croceed iniziali ricavato nel calcare nei pressi del Riparo Cassataro.

Abbiamo altresì tentato di riprodurre nella nostra immaginazione, osservando la morfologia del luogo e confortati dalla presenza di tracce geologiche, come poteva presentarsi questo luogo nel quale lo sciamano produceva I suoi stati  di esaltazione e di rottura dello stato di coscienza, atti a farlo entrare in una dimensione altra, per poi produrre le celeberrime pitture rupestri, prima della parziale desertificazione verso cui la Sicilia si è irreversibilmente avviata.

La notevole distanza che intercorre tra le due sponde del fiume, adatte a contenere le copiose acque invernali del Simeto presso il luogo dove sono riprodotte le pitture sulle pareti, formate da due enormi sassi appoggiati l’uno sul l’altro, dopo essere rotolati dall’alto e che riproducono la forma dell’utero Materno, dove ritornare per ristabilire il contatto con la dimensione extrafisica interrotta con la nascita, il fiume avrebbe dovuto avere una enorme portata, anzi, qui si sarebbe verosimilmente formato un golfo e proprio in questo golfo torreggiava la bianca  collinetta del Riparo Cassataro. Le labili tracce  di ceramica neolitica che il colono con il suo aratro ha sparso tutto attorno, testimoniano della millenaria antropizzazione del luogo. La rara presenza di ceramica sigillata suggerisce che il luogo sia stato frequentato ininterrottamente fino ad epoca romana ed ancora fino ad oggi lo è. L’antropizzazione del luogo intercorsa senza una soluzione di continuità fino ai giorni nostri appare ovvia, essendo questa area agricola rimasta a seminativo fino al dopoguerra e per le sue caratteristiche dovette contribuire a costruire l’appellativo che definiva la Sicilia granaio dell’impero romano.

Ampia grotta a pochi metri dal Riparo Cassataro.

Condividiamo quanto ebbe ad affermare Mircea Eliade, autore di molte intuizioni concernenti la sfera del sacro, che nel luogo in cui si sarebbe verificata l’epifania del sacro, in qualche modo, il culto si sarebbe perdurato nel tempo, anche se in quello stesso luogo si fossero alternate civiltà portatrici di differenti concezioni religiose. Le differenti civiltà, susseguitesi, avrebbero tuttalpiù mutato i riti e i nomi al divino manifestato, come si può constatare dalla conversione di templi pagani in chiese cristiane e queste, a loro volta, in taluni casi, in moschee e di moschee in chiese. Pochi metri più in là del riparo Cassataro, infatti, una nicchia scavata nell’arenaria con incisa sul bianco masso una croce sottostante, tradisce la sensibilità religiosa del proprietario del podere che, accanto al simbolo di culto non poté fare a meno di lasciare ai posteri pure le iniziali del proprio nome. Alla pratica dello sciamano, dunque, millenni dopo, per via indipendente, si era sostituita quella di  un uomo che, in quel luogo, seppur in modo diverso, aveva avuto la percezione del divino.

Il ritorno all’utero materno.

Pochi metri più in giù dello scomodo incavo denominato Riparo Cassataro, sul cui lato si appoggia la parete sulla quale, dipinti con ocra rossa si trovano le criptiche figure non ancora collocate con certezza dagli studiosi in un preciso arco temporale, vi è una grotta molto ampia dalla volta alta, molto comoda al punto che, nel secolo passato, essa era stata adattata a mangiatoia per asini e muli di cui vi è visibile traccia. L’ampia grotta non reca al suo interno alcun segno di pitture né di incisioni; quella grotta, pur essendo molto comoda, o proprio per questo, non era stata ritenuta adatta dallo sciamano per intraprendere i suoi viaggi extra corporei. In essa, il nostro, non riusciva a provocare quella necessaria rottura di livello tra lo stato sensibile e quello spirituale del proprio essere. Da ciò si comprenderà  la risposta fornita da uno sciamano Dakota ad un suo intervistatore meravigliato della scelta di luoghi impervi per gli stati di trance: “Sono I luoghi che scelgono gli uomini e non viceversa”. Che certe grotte venissero scelte dai sensitivi perché rappresentavano la metafora dello stato embrionale dell’uomo è possibile solo congetturarlo. Certo è, che il Riparo Cassataro, come sopra affermato, ha la caratteristica di avere la forma di un utero e quella di essere costeggiato  dal fiume, – quasi che questo formasse il liquido amniotico che nutre e protegge il feto-. A questi metaforici simbolismi cui si richiamava lo sciamano del Simeto, avrebbe potuto aggiungersi tutt’attorno la presenza di una ricchissima vegetazione, – oggi convertita in gran parte in frutteti- in parte ancora oggi apprezzabile e che un tempo potrebbe essere stata boschiva.

Gli sciamani dell’Etna.

Occhio impresso su ceramica neolitica. Museo di Adrano.

Allo stato attuale delle ricognizioni archeologiche effettuare lungo le due rive del fiume Simeto, colpisce il fatto che siano stati ritrovati soltanto i frammenti di due scheletri appartenenti ad epoca neolitica, entrambi dipinti con ocra rossa. Uno di questi è stato ritrovato nel territorio di Adrano, l’altro in quello di Paternò, rispettivamente in C.da Fontanazza e Trefontane; I due luoghi si trovano non lungi dalle pitture del Cassataro, il quale oggi fa parte del territorio di Centuripe. La tomba ritrovata in C.da Fontanazza presso Adrano, limitrofa, come affermato, al Riparo Cassataro, ha la forma ellittica. Un’ansa a forma di doppia spirale, è stata ritrovata in contrada Tabana, anche questa poco distante da Fontanazza, mentre a Trefontane, una contrada presso Paternò dove è stato ritrovato il secondo scheletro ocrato, è stato rinvenuto un reperto assai curioso, si tratta di in un lungo collo con in cima una testa che, secondo la descrizione della dottoressa Maniscalco che esegui I saggi di scavo, appariva come una via di mezzo tra la testa di un uomo  e quella di un animale, il collo portava una lunga incisione ( un sacrificio per sgozzamento ?). Se si trattasse di una figura teriantropica, sarebbe l’unico caso di manufatto di questo tipo; infatti di solito, le figure teriantropiche sono presenti sotto forma di dipinti parietali. Potrebbe però trattarsi di una figura che riproduce un sacrificio per sgozzamento e nell’intenzione dell’artista vi era la volontà di riprodurre la smorfia di dolore della vittima. Comprendiamo bene che questa ultima interpretazione, considerato che si parla di reperti neolitici, possa apparire assai azzardata sebbene, osservando la precisione stilistica con cui sono state tracciate le figure incise nelle pareti della  grotta dell’Addaura, a Palermo, che risalgono al Paleolitico, un dubbio sulla presunta rozzezza stilistica dei nostri antenati preistorici rimane legittimo. Tutte interpretazione rispettabili quelle esposte, ma nessuna di esse può essere suffragate da prove. Da parte nostra intendiamo limitarci soltanto ad esporre delle intuizioni; una di queste intuizioni ritiene che un fenomeno universale, quale è quello dello sciamanismo, non può non avere interessato il territorio etneo, il quale più d’ogni altro, a motivo dei ben noti fenomeni legati alla presenza del vulcano, provoca noti fenomeni di magnetismo.

A questi fenomeni, individui particolarmente sensibili, avrebbero potuto dare risposte fisiche e iperfisiche, come dimostrano nuove discipline scientifiche quale l’archeoacustica. Ne sarebbe  prova, a nostro modo di vedere, che qui, e non altrove, venne edificato il tempio del dio nazionale Adrano. Qui, in questo territorio alle falde del vulcano, ricchissimo di sorgenti, cascate e vegetazione, per dirla con Mircea Eliade, si sarebbe potuta realizzare la più importante manifestazione del sacro.

L’uomo che vede

Statua magica – MANN – Basalto. Epoca Tarda (664-332 a.C.). Collezione Borgia, inv. 1065

Il significato che si attribuisce al  termine sciamano è, generalmente, quello di colui che sa, che conosce. Noi, in virtù del  metodo interpretativo messo in atto e  che i lettori ben conoscono, lo traduciamo con ‘la mente che vede’ essendo il nome saman composto da sa vede, dal verbo sehen e mn mente. Il termine samana in India viene conferito ai neofiti che intraprendono la via dell’ascetismo. Esaminando I reperti archeologici ritrovati nell’ampio territorio etneo, risalenti al periodo neolitico, si rimane stupefatti dalla inusitata frequenza con cui si trova riprodotto un occhio cigliato stilizzato. Il suddetto occhio è riprodotto secondo lo stile della impressione su ceramica. Si tratta di un occhio stilizzato, realizzato attraverso la figura geometrica del rombo, a volte con due rombi concentrici, l’uno, più piccolo, che funge da pupilla, Inscritto nell’altro, a volte un rombo e un punto al centro di questo,

Poiché l’uomo ha sempre avvertito l’esigenza di trasmettere ai posteri, ma anche ai contemporanei, una propria rappresentazione del mondo esteriore ed interiore attraverso il simbolismo, ci chiediamo quale concetto si intendesse veicolare con la produzione di “un” occhio, forse che vi fossero individui particolarmente carismatici che erano in grado di vedere cose  che ad altri non era concesso  vedere? Si intendeva veicolare la metafora della presenza di un terzo occhio non fisico, quello della mente? Il mito collegato al Dio Apollo e al dio Pán proprio a questo si riferisce: Apollo, derubando Pán del suo terzo occhio, acquisisce il dono della veggenza. Quanto da noi ipotizzato per semplice intuizione, diventa plausibile se si considera che la pratica sciamanica è universalmente considerata l’arte di entrare nel mondo dell’invisibile. Ecco, dunque, che il concetto di vista entra a far parte del campo semantico dell’aldilà, di una dimensione altra, in cui I semplici organi umani della vista non sono sufficienti per sbirciare.

Il compito dello Sciamano.

Statua magica retro.

Al ritorno dal suo viaggio, va osservato che  lo sciamano non ritorna più’ colto, ně più saggio, ma egli ha semplicemente soddisfatto a un compito che il suo ruolo sociale gli ha imposto, egli ha portato a compimento una missione. Il viaggio sciamanico nel mondo dell’invisibile ha dunque lo scopo di indagare, ‘vedere’ e comprendere la causa che ha destabilizzato il mondo visibile abitato dagli uomini e, nei limiti del possibile, contrastarla. Perciò lo sciamano può essere definito un tecnico dell’invisibile. Il prestigio di questo operatore che si destreggia tra le forze che albergano nel mondo extrafisico consiste, dunque, non tanto nella sua capacità di compiere il viaggio nel mondo ultrafisico ove operano forze diverse rispetto a quelle che agiscono sulla terra e tuttavia in grado di influenzarle, – viaggio che sarebbe stato possibile compiere a chiunque avesse fatto  uso di droghe, erbe psicogene o altri mezzi-, ma nella capacità di ristabilire l’armonia interrotta contrastando le forze che hanno causato la disarmonia. Per realizzare ciò, lo sciamano avrebbe dovuto interagire con gli elementi extrafisici che erano stati la causa della destabilizzazione. Il ruolo dello sciamano era, perciò, quello di intervenire tutte le volte che incombeva uno stato di disarmonia, a lui erano affidati il benessere e la prosperità del consorzio umano e della natura in cui questo era immerso. Tutte le culture del mondo hanno conosciuto la figura dello sciamano, anche se gli hanno dato nomi diversi, per poi liberarsene in tempi moderni. In Persia erano chiamati maghi, in Palestina profeti ecc. Infatti, esaminando il comportamento, ben descritto in 1Re XVIII 41,46, tenuto dal profeta Elia con il  suo abito di pelle di capra, che invocando la pioggia poneva fine alla siccità – tacerò in questa sede della resurrezione del figlio della vedova provocato da Elia e descritto in 1Re 17, che trova anch’esso analogie nelle guarigioni sciamaniche — chi non vi trova una analogia con la danza della pioggia ancora praticata in talune aree geografiche della terra, da tribù che non hanno perso il rapporto con la natura e le forze che la governano?

Ad majora.

La Grande Metafora Del Potere: Siculi E Sicani.

Nell’eterno gioco delle istituzioni, il potere rappresenta quell’elemento catartico di cui il popolo si serve per investire qualcuno delle proprie responsabilità. Pertanto, con riferimento alla nota metafora, si ottiene che il gregge elegge il proprio pastore o, nel caso che qui tratteremo, il proprio mandriano. Ma il popolo avvertì nel proprio intimo la presenza di un dualismo, che attanagliava il proprio essere e senti l’esigenza di affidare a due poteri ben distinti la gestione del cosmo: al potere sacerdotale la parte invisibile, a quello regale la parte tangibile.

Questo brevissimo articolo che riprende il leitmotiv del significato da attribuire all’etimo sicano e a quello di siculo, non si offre al lettore senza una certa difficoltà di accettazione, se egli non ha metabolizzato i precedenti articoli che vi fanno riferimento. Infatti, in questo nuovo contributo non faremo ritorno, per necessità di sintesi, alle tesi che afferiscono alle origini nord europee dell’etnico sicano e siculo. Tuttavia, semplificando la questione per chi non avesse sufficientemente tempo per la lettura, poiché quanto affermato sopra intorno alla suddivisione dei poteri spirituale e materiale, risulta evidente dall’organizzazione sociale che le diverse culture si sono date in tutto il mondo, possiamo universalizzare tale atteggiamento antropologico e attribuirlo pure ai primi abitatori della Sicilia. Ma chi furono i primi abitatori della Sicilia? Quale era il loro nome? Secondo quanto viene affermato da Tucidide nel libro VI della “Guerra del Peloponneso” , i popoli che si contendono il primato sono quello dei Ciclopi e quello dei Sicani; secondo lo storico taorminese Timeo, i Sicani sarebbero stati autoctoni. Ma facendo leva su una affermazione riscontrata in Tacito nel corso della descrizione che egli fa della miriade di tribù germaniche che abitavano una vasta area dell’Europa, potremo utilizzare per comparazione, quanto sostenuto dallo storico latino nel suo trattato ‘Germania’ per elaborare una ipotesi interpretativa di come possano aver avuto origine gli etnomi di cui ci occuperemo più giù.

I Germani
Tacito afferma che il popolo dei Germani deve il proprio nome a quello di una piccola tribù la quale, con ogni probabilità senza ricercarlo, fece sì che, grazie al significato simbolico dell’attributo loro apposto, questo venisse successivamente esteso all’intero popolo. Tacito era meno attento al significato dei nomi rispetto a Plutarco come si evince dal suo trattatello questioni romane in cui, in un nobile salotto si fanno le pulci al significato del nome Carmenta, e non si curò pertanto, di capire il processo secondo il quale l’appellativo apposto ad una singola tribù si fosse esteso all’intero mondo germanico; ma noi, poiché ritorna utile l’indagine sul significato dell’etimo, non ometteremo di indagare ed esporre la nostra ipotesi sul significato che veicolano i singoli attributi, convinti come siamo, che nel nome si celi la funzione sociale svolta da chi lo porta. Nella lingua germanica ‘ger’ significa lancia e la lancia era sinonimo di potere e combattività. È evidente che, fra tutte le tribù che costituivano il popolo etnicamente omogeneo che non aveva ancora un nome che lo contraddistinguesse come popolo, in quanto non aveva sviluppato quel concetto di unità, nell’accezione politica che viene attribuita oggi, la tribù dei Germani, essendo quel gruppo umano la cui vocazione era quella di imporre (o difendere) con le armi la propria visione del mondo, infatti ger-mann significa uomini con la lancia, fosse quello che meglio rappresentava tutti nel contesto storico che esamineremo più giù. Non avendo in nostro possesso dati certi che confortino l’ intuizione sopra esposta, ci sembra verosimile la ricostruzione secondo la quale l’attributo di Germann venisse esteso all’intero popolo, sommatoria del pulviscolo di tribù, in seguito alla minaccia sopraggiunta da popoli invasori non identificabili etnicamente con il proprio. Non è da escludere, a motivo della forza d’urto che non ha avuto precedenti nella storia, che il popolo straniero che i Germani considerarono il più pericoloso per l’unità nazionale, fosse quello romano. Infatti, nel corso delle nostre ricerche non abbiamo riscontrato fonti storiche, prima che lo facesse Tacito, che definissero la moltitudine delle tribù protogermaniche appunto Germani. Vi è nelle Storie di Erodoto un riferimento ai Germani al servizio del re Ciro in Persia (lib. I, 125), ma ci è parso che lo storico facesse riferimento ad un gruppo di mercenari o emigrati appartenenti ad una delle tante tribù germaniche, la stessa a cui si sarebbe riferito Tacito quattro secoli dopo. Infatti nel passo tradito, i Germani vengono citati da Erodoto assieme alle tribù persiane sottoposte al re. L’ azzardo interpretativo dell’evoluzione del nome di una tribù in un etnico, avvalorando ulteriormente quanto viene affermato da Tacito, é motivato dal fatto che per la prima volta, quasi tutte le tribù germaniche si sollevarono unitariamente contro un nemico comune, quello romano, facendo assumere alla sollevazione le caratteristiche di una guerra nazionale contro l’invasore instillando nel popolo minacciato, attraverso il sollevarsi di una sola voce, il primo concetto di unità, di nazione, di omogeneità culturale secondo i canoni moderni. Si avvertì forse in quelle circostanze, e per la prima volta in quel consorzio umano, l’esigenza di esprimere con un solo attributo l’essenza di un intero popolo.

I Sicani e i Siculi.
Se applichiamo agli abitanti della prima ora che abitarono l’isola di Sicilia, la genesi dei nomi sopra descritta nel mondo germanico, col quale, tra l’altro, come emerge dai nostri precedenti studi, i primi abitatori della Sicania erano imparentati, potremo comprendere come si siano formati i due appellativi,, Sicano e Siculo, e per quale ragione, più dei tanti altri che erano presenti nell’isola: Ciclopi, Lestrigoni, Feaci ecc. essi abbiano lasciato una traccia mnestica indelebile nella storia dell’isola.
Rimandando chi volesse approfondire l’argomento sulla ipotesi, più volte affermata, della provenienza nord europea della lingua sicana, agli studi precedenti ed in particolare all’articolo “Jam akaram: la lingua dei Sicani”, in questa sede ci limiteremo a ricercare il significato etimologico degli etimi sicano e siculo che di per sé basteranno a chiarire le funzioni sociali che le due classi svolgevano nella società isolana. I Sicani, fino a quando la Sicilia fu omogeneamente abitata dal popolo che condivideva la medesima visione del mondo, avevano il compito di fornire alla società i funzionari addetti al culto dell’Avo, che nella lingua da loro parlata si traduceva con il sostantivo Ano riscontrabile tuttora nella lingua tedesca. Il sich-ano rappresentava colui che era il detentore della tradizione. Il pronome riflessivo sich, che significa sé, sé stesso, conferiva valore di immanenza al sostantivo Ano. La tradizione esposta anche in forma di rito, veniva vivificata dal sich-ano. Il sich-kuh corrispondeva al mandriano, da kuh vacca, ma veniva utilizzato metaforicamente in ambito regio per indicare il mandriano di popoli (frequenti i riferimenti al mandriano in questa accezione nell’Avesta il libro sacro dei Persiani) identificabile con il mansueto pastore di greggi di cristiana memoria; il sich-kuh rappresentava il braccio armato dell’Avo, colui che si impegnava a fare rispettare la tradizione, a proteggerla dalle orde barbariche che avrebbero potuto mistificarla apportandovi novità incompatibili.
Un parallelismo con quanto fin qui affermato, lo si ritrova nella società ebraica, contraddistinta dalla presenza di dodici tribù. Di queste dodici tribù, originatesi da dodici fratelli, potevano accedere al sacerdozio soltanto coloro che provenivano dalla tribù dei Leviti, mentre al trono regio potevano aspirare soltanto coloro che facevano parte della tribù di Giuda.
Dunque, verosimilmente, in origine, in Sicilia il sich-kuh, corrispondente al kuh-rus dei Persiani,al kunung degli Svedesi, al Konig per i Tedeschi, prima di trasformarsi esclusivamente in potere politico e rendersi indipendente da quello sacerdotale, interveniva dietro mandato del sich-ano per stabilizzare una situazione uscita dal controllo sacerdotale. Tanto per avere un termine di confronto a noi familiare citiamo il caso di Giosuè a capo dell’esercito ebraico, come viene descritto nell’Antico Testamento, il quale agiva dietro mandato di Mosè, il capo religioso del popolo ebraico. Se volessimo identificare delle figure storiche da paragonare al ruolo incarnato da Giosuè nella variante sicana, potremmo andare con la mente ai condottieri Ducezio e Arconide. La variante sicana, rispetto a quella giudaica, riguardante la figura del condottiero, consiste, a nostro avviso, nel fatto che nella figura del duce siculo/sicano poteva confluire quella del pontefice o sacerdote che chiamar si voglia, affondando, come da noi sostenuto più volte, la cultura sicana le sue radici nell’humus culturale del nord Europa e dunque, per affinità, ritenendo la componente sacerdotale sicana più vicina a quella druidica.

La Metafora
Ma poiché la metafora viaggia su due piani paralleli, decriptandone i diversi riferimenti otteniamo che, se da un lato il sich-kuh rappresentava il mandriano di popoli, colui che era preposto a governare sulle genti per il loro benessere, dall’altro esso impersonava il mandriano vero e proprio colui che, fuor di metafora, governava mucche e tori, strumento di ricchezza e di sostentamento. Pertanto, quando in tempi storici, orde di Germani si spostavano con il loro seguito di carri trainati da buoi e mandrie provocando nuvole di polvere e lasciandosi il deserto alle spalle, alla ricerca di nuovi spazi vitali, nell’immaginario collettivo, quella polverosa indefinibile accozzaglia di individui, veniva appellata da chi assisteva allo spettacolo inusuale “I mandriani” I “sich-kuh”, I cowboys antelitteram.
Ad majora.

Culto e religiosità sicana nella Adrano pre storica

La simbologia del cane nel culto del dio Adrano.
Con questo articolo intendiamo proseguire, attraverso le ricerche comparative sui testi classici letterari e religiosi dei popoli indoeuropei, nel nostro tentativo di separare il grano dall’oglio, ossia di distinguere il mito, inteso nel suo significato più nobile, quale strumento atto alla trasmissione di significati metafisici, dalla rielaborazione fantastica che, a posteriori, si è sovrapposta al mito stesso, nella certezza che, in tal modo, renderemo giustizia ad un nobile popolo, il nostro, che per troppo tempo è stato inspiegabilmente ignorato dagli studiosi.

Per comprendere in modo pieno ed autentico il significato nascosto che il mito vuole comunicare, bisogna inevitabilmente penetrare il modo in cui l’uomo antico intendeva il mondo e il sovra-mondo, in epoche storiche in cui vigevano parametri di valutazione completamente diversi dai nostri, attraverso i quali era possibile rapportarsi con forze ormai non più percepibili dai moderni. Per l’uomo antico, il mondo ed ogni singolo atto quotidiano venivano vissuti religiosamente; l’esistenza individuale si configurava, nella società sicana, come parte di un percorso collettivo, familiare, tramite il quale l’erede continuava a tracciare la “via solare” intrapresa sall’Avo. Non dissimile il pensiero espresso nella Bhagavadgita, Canto I, 40, sulla famiglia: “Con la distruzione della famiglia perisce anche l’ordine sacro che deve reggere la famiglia; distrutto l’ordine, il disordine, sicuramente, domina la famiglia tutta“. Iscrizioni apposte su tegoli funebri che celebravano il defunto, ritrovati nel territorio di Adrano, che fanno riferimento, secondo la nostra interpretazione, ad un “viaggio verso il regno del sole“, il simbolismo del sole impresso in migliaia di pesetti da telaio e anfore, confermano l’interpretazione secondo la quale la cultura sicana associava alla luminosità dell’astro, creatore di vita, quella del proprio ruolo sulla terra, quale mezzo è strumento equilibratore delle forze cosmiche, come spiegheremo meglio più avanti.

Abbiamo, in altra sede, affermato, utilizzando soprattutto argomentazioni di carattere linguistico, che la religione sicana si basava sul culto degli antenati. Adrano era, infatti, l’avo per eccellenza, il primo uomo creato, il padre della stirpe. Custodi di tale via erano proprio i cani di cui L’Avo sicano Adrano si circondava, ai quali spettava condurre le anime degli uomini defunti per la giusta via.

Il mito dei cani del dio, giunto fino a noi tramite Ninfodoro citato da Eliano, viene purtroppo banalizzato da quest’ultimo. Lo storico, vissuto nel II secolo dell’era volgare, si occupava dello studio del comportamento degli animali, dei quali voleva dimostrare la particolare sensibilità. Proprio per questo fine Eliano estrapolò, dal ben più ampio racconto dello storico Ninfodoro intorno al mitico tempio del dio Adrano, solo le informazioni relative ai cani posti a custodia del tempio; dai due studiosi apprendiamo che i cani erano mille, erano capaci di distinguere i buoni dai cattivi e di riaccompagnare a casa gli ubriachi. È per noi sufficiente il riferimento, contenuto in Eliano, alla capacità dei cani di distinguere i buoni dai cattivi, per collocare il culto di Adrano tra i miti di matrice indoeuropei da un’unica primordiale tradizione comune. Infatti, lo stesso tema del cane che distingue i buoni dai cattivi, viene seriamente trattato in testi religiosi quali i Veda. In questo antico testo indiano, Yama, figlio del sole (Surya), considerato il padre della stirpe Veda, come Adrano lo era dei Sicani, presiede alla porta che conduce nell’aldilà, con il compito di giudicare le anime, con l’ausilio dei suoi due cani, uno nero e l’altro maculato.

Significativo e pertinente è pure il mito del dio Indra, unico uomo divenuto dio, in seguito alla sua capacità di uscire vittorioso da un confronto dialettico col dio creatore. Nel mito Veda anche Indra custodisce l’aldilà grazie a due cani. Nemmeno l’Avesta è priva di un elogio del cane che, rivestito di particolari caratteristiche, è connesso al culto dei morti. Nel testo di cui molte parti compilate dallo stesso Zarathustra, il sacerdote-mago della religione persiana dedica diversi capitoli al cane; troppi se quello di Zarathustra fosse il puro e semplice elogio ad un animale, seppur fra i più legati all’uomo, adeguati qualora nel cane si sappia intravedere il medesimo simbolismo religioso rilevato in altri testi sacri. Poiché il Veda e l’Avesta sono testi complementari e riconducibili – come abbiamo dimostrato nel nostro ultimo saggio “La lunga notte. I Veda, l’ occidente e la trilogia delle razze umane“, disponibile gratuitamente, ad un’unica concezione religiosa del mondo, dalla quale non sono esclusi i Sicani, ne consegue che l’atteggiamento dei cani del dio Adrano, capaci di distinguere i buoni dai cattivi, è assimilabile a quello dei cani di Indra e Yama. I cani del dio Adrano, l’avo, sono, pertanto, come quelli del dio Indra e del dio Yama, i custodi della via che porta nell’aldilà. Adrano era per i Sicani il primo che, percorrendo la suddetta via, poteva mostrarla ai defunti meritevoli, che i cani avrebbero saputo individuare.

La significativa presenza dei cani nella letteratura antica trova comunque ulteriori testimonianze. A guardia della porta della reggia di Alcinoo, re dei Feaci, vi sono due cani, uno d’oro, l’altro d’argento forgiati dalla mente eccelsa di Efeso (Odissea – VII, 90). Nella mitologia greca il cane Cerbero era custode del regno di Ade. Il suo compito era di impedire alle anime di tornare indietro una volta entrate, esattamente come nella cultura dei Veda, come lascia intuire la raccomandazione del sacerdote al defunto di evitare i due cani al fine di tornare indietro, nel mondo dei vivi.

Presso i Persiani il cane aveva il compito di far sparire i morti. In Egitto è lo stesso dio Anubi ad avere la testa di cane o sciacallo. Anubi, nome formato dal lessema Anu (presente anche in Adrano, Urano, Jahano, Anu, dio mesopotamico) e dal lessema Uban (sopra alto, in a.a.t.) significa secondo il nostro ormai noto metodo interpretativo, il dio supremo, il più elevato, colui che sta in alto, colui che presiede. Questo Dio è, infatti, a guardia della soglia varcata per la quale si entra nell’aldilà, in alto, nel mondo superiore, nel cielo. Il dio Anubi, dalla testa di cane, accompagna personalmente il defunto al cospetto di Osiride, ove avviene la pesatura del cuore del defunto, cioè il giudizio.

Nella mitologia nordica il cane è sostituito dal suo parente più prossimo, il temibile lupo, in conflitto anche con gli dèi. Il lupo Fenrir, secondo la profezia, sarebbe rimasto legato ad una catena, al fine di contenere la sua terribile aggressività, fino alla fine del mondo, quando si sarebbe liberato, attaccando gli dèi e divorando lo stesso Odino.

Anche nell’astronomia dei popoli antichi si rilevano tracce della presenza del cane quale elemento collegato al transito delle anime. Si pensi alla costellazione di Orione, il dio cacciatore egiziano, con i suoi due cani al seguito: la costellazione del Canis Major e del Canis Minor. Della costellazione del Cane Maggiore fa parte Sirio, la stella più luminosa, alla quale Omero paragona Achille, apostrofato “cane” con allusione alla sua luminosità, in quanto si presenta ad Ettore con la sua chioma bionda, lo scudo e le armi d’oro fuse personalmente da Efesto, il dio fabbro.
Ad majora.